Woody Allen con la moglie Soon-Yi (foto LaPresse)

La mia vita col mostro

Annalena Benini

L’indignazione necessaria per mettersi al riparo e l’attrazione segreta verso la spietatezza. Tra Woody Allen, Nabokov e i tormenti di una madre che vorrebbe tenere insieme tutto

Un’amica mi ha raccontato della sua infanzia, mi ha detto: mia madre è stata un mostro. Tutte le madri a un certo punto sono state dei mostri, non mi sono spaventata, ma questa amica, adulta e ancora arrabbiata, ha detto che sua madre la lasciava dentro i taxi mentre lavorava, oppure con il portiere del palazzo, la lasciava in casa da sola la sera perché aveva una riunione importante, e lei aveva paura e si nascondeva sotto il letto e da allora non può più dormire da sola. Un mostro, ripeteva, e nel ripeterlo io vedevo che si calmava da quell’emozione, diventava più forte, si sentiva migliore di sua madre, molto più pura, generosa, attenta verso i suoi figli, verso suo marito che senza di lei è perduto. Io pensavo che è vero, quella madre ha fatto molti danni, un po’ mostro è stata, e io mio figlio non l’ho mai lasciato dentro un taxi e nemmeno in casa da solo la sera, sono una persona ragionevole, tutto sommato, e l’altra sera ho aspettato mia figlia fuori dal teatro per trenta minuti al freddo, parlando con altre madri di lenti a contatto, e ho sperato che mi vedesse il maggior numero di genitori possibile. Perché io non sono un mostro.

 

E’ la stessa sensazione, credo, che prova un uomo in questo periodo di resa dei conti universale e di #metoo: un uomo guarda gli altri uomini, quelli sui giornali per sesso e molestie e punizioni esemplari, guarda Weinstein, Woody Allen e tutti gli altri, anche i più laterali ma coinvolti, guarda se stesso e certo si spaventa, cerca di ricordare l’ultima volta in cui ha forse esagerato con una donna, o quando le ha mandato messaggi spinti, pensa addirittura di scriverle adesso per sapere come sta, come si sente, capire se è serena o agguerrita, ma un po’ si rasserena: io non sono un mostro, è quasi sempre la conclusione.

Là al freddo, parlando con altre madri di lenti a contatto, speravo che mi vedessero tutti i genitori. Perché io non sono un mostro

Ho letto un’intervista a Philip Roth sul New York Times di domenica scorsa, naturalmente gli hanno chiesto come si sentisse dentro tutto questo casino, dentro le accuse delle donne, e lui ha risposto: nessuno dei comportamenti più estremi di cui ho letto sui giornali mi ha stupito. Era la risposta di un romanziere, di uno che nei libri, come ha detto, si è molto occupato degli uomini avvolti dalla tentazione sessuale. Non ha detto: anche io sono un mostro, ho queste furie erotiche, le ho sfogate nei romanzi, ma non ha detto nemmeno: sono indignato. Mentre adesso l’indignazione serve anche a mettersi al riparo. Loro sono mostri, la madre della mia amica è stata un mostro, noi siamo diversi, io sono diversa, le nostre vite sono guidate da principi etici, io sono andata a prendere mia figlia a teatro, faceva molto freddo, sono rimasta là fuori in piedi ad aspettare, sono una brava madre, accudisco di miei figli, l’altra sera ho raccontato loro tutta la storia di Rigopiano e mi ascoltavano con la bocca aperta e li ho talmente spaventati che poi ho dormito con loro, con la luce accesa. Non sono un mostro, eppure dentro la parola mostro riconosco qualcosa di me.

 

Ho letto sulla Paris Review un articolo molto bello di una scrittrice americana, Claire Dederer, dal titolo: “What do we do with the art of monstrous men?”, e mi sono entusiasmata, ho pensato che avrei voluto dirlo io, scriverlo io. Claire Dederer si chiede che cosa fare adesso con l’arte, con i film meravigliosi di Woody Allen e Roman Polanski (io però so già che cosa fare, io li voglio vedere e rivedere), scrive che ha vissuto la scopata di Woody Allen con Soon-Yi come un tradimento personale, ma scrive anche che guardare Io e Annie significa sentire che apparteniamo all’umanità, lo guardiamo e ci sentiamo assaliti da un senso di appartenenza, ed è questo il legame che chiamiamo grande arte.

Essere dilaniate tra la speranza di non essere un mostro e il desiderio di esserlo di più, e di non vedere le cose infrante per terra

Mi è venuto in mente il film di Aleksandr Sokurov, dedicato al Louvre e alla sua difesa durante l’occupazione nazista, Francofonia, in cui vengono pronunciate queste parole: “Che cos’è il Louvre, se non la storia di uomini che hanno vissuto, amato, mentito, sofferto?”. Che cos’è l’arte, se non questo? Uomini che hanno mentito, uomini che hanno sofferto e qualche volta sono stati anche dei mostri. Io e Annie e il Louvre, Il pianista e il Louvre, non penserete di toglierceli o di farceli rinnegare in nome della caccia al mostro. Con Manhattan, scrive Claire Dederer, è più difficile, perché Mariel Hemingway nel film ha diciassette anni, e la questione del vecchio con la liceale non viene affrontata, e va tutto liscio, e chi guarda può sentirsi disgustato e dire: quello è un mostro. Quello è un mostro, e quel film è un capolavoro.

 

C’è qualcosa di più interessante, complicato, personale? Non mi ha mai disgustato Manhattan, l’ho guardato con gli occhi di una ragazzina, poi di un’adulta, di una madre e ogni volta ho pensato: che film stupendo. Ho pensato anche: come fa Tracy a voler andare a letto con lui? Quella era la parte a cui non riuscivo a credere davvero. Ma non ho pensato: mostro. E non penso: Colin Firth ha ragione (ha appena detto che non lavorerà mai più con Woody Allen). Quando invece ho letto questo passaggio di Claire Dederer, ho pensato: è vero. “Il pubblico si esalta unendosi al coro di denunce verso i mostri. Il pubblico giura che non vedrà mai più un film con Kevin Spacey (…) Quando si prova un sentimento morale, l’autocompiacimento è sempre dietro l’angolo. Abbracciamo le nostre emozioni con un linguaggio etico, e ci ammiriamo mentre lo facciamo (…) La trasmissione della nostra virtù ci sembra molto importante e stranamente elettrizzante”. Ha a che fare con un’idea di giustizia, ma ci elettrizza dire: quello è un mostro, perché significa anche, di conseguenza: io non lo sono. Io sono salvo, o comunque mi salverò.

 

Che cos'è l'arte, se non la storia di uomini che hanno vissuto, amato, mentito, sofferto? Che cos'è "Io e Annie", se non arte?

Qualcosa di noi è attratto da quella mostruosità, si spaventa e poi si esalta nel dire: io mai. Non ho mai molestato nessuno. Non credo di essere mai stata nemmeno molestata, anzi sono abbastanza sicura (una volta in autobus ho sentito qualcosa addosso, però non potrei giurarci e comunque sono scesa e me ne sono dimenticata in un secondo). Non ho mai picchiato i miei figli (ma mia figlia si ricorda di quando ero così arrabbiata con lei che ho sbattuto i piedi per terra più volte, anzi ho proprio saltato, e mi sono fatta anche male), non li ho mai abbandonati, sfruttati, molestati, non li ho mai nemmeno lasciati su un taxi mentre lavoravo, ma basta questo a dire che non sono per niente un mostro? Non basta, perché quando la mia amica dice che sua madre era un mostro, pensava solo al suo lavoro e alla sua vita, una parte di me si esalta, invece di indignarsi. Mi viene in mente Marina Cvetaeva, che chiedeva “una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – un posto – Per me! – quattro pareti per / il silenzio” e aveva due figlie e forse è stata un mostro di madre: Ariadna scriveva che sua madre non assomigliava affatto a una madre, e che al lavoro era capace di posporre qualunque altra cosa, “insisto: qualunque”.

 

Ariadna ha descritto sua madre che si sedeva al tavolo e diventava cieca e sorda a tutto quello che non fossero i suoi fogli di carta, e con due bambine lacere e affamate questo forse è essere un mostro. Se sei una donna.

Se sei Francis Scott Fitzgerald, scrivi a tua figlia: non ho energie per reggere il tuo peso morto. Se sei una madre, sei un mostro

Se sei Alice Munro, e hai due figlie e vuoi finire il tuo libro, loro sono piccole e ti vengono incontro per essere prese in braccio, e tu con una mano continui a battere sulla macchina da scriver e con l’altra sposti le tue figlie. Sei un mostro? “Ero una giovane donna spietata”, ha detto lei, e una della figlie ha scritto in un libro di memorie che tutto quello che faceva, le feste, i palloncini, le vacanze, sua madre non lo faceva davvero fino in fondo. Una parte di lei era altrove, la sua vera vita era altrove. Mostro. Se invece sei Boris Pasternak, c’è Olga che si occupa di tutto, anche di scrivere messaggi cifrati all’editore e di andare nel gulag al posto tuo. Se sei Vladimir Nabokov, c’è tua moglie Vera che ti tempera le matite e ti apre l’ombrello e ti rilegge le bozze a voce alta e ti lecca i francobolli. Se sei un uomo, sei egoista, devi esserlo, devi chiuderti dentro la tua testa e trascurare la tua famiglia, tua moglie ti parla e tu non la ascolti, non pensi davvero a quell’anello che lei desidera tanto, a quella passeggiata che vorrebbe fare con te, alla sua giornata. Se sei Francis Scott Fitzgerald, scrivi a tua figlia diciassettenne: non ho energie o denaro sufficiente per reggere un peso morto, la tua compagnia mi rende depresso per la futilità e lo spreco assurdo che richiede. 

 

Se sei una donna, invece, sei un mostro, però forse il problema è ancora più complesso, il problema è che non lo sei abbastanza. Claire Dederer scrive di quanta mostruosità serva per finire un libro, un’opera, un saggio, qualcosa per cui bisogna precipitare dentro la propria testa, chiudersi lì dentro a chiave, diventare cieche e sorde. “Devo chiedermi: forse non sono abbastanza mostruosa? (…) Da anni faccio questa domanda a un paio di amici scrittori che considero davvero eccezionali. Scrivo a entrambi delle email carinissime, ma quello che in realtà cerco di sapere è: quanto siete egoisti? O per dirla in un altro modo: quanto devo essere egoista per diventare brava come voi?”. Dei mostri come voi, che ve ne fregate di tutto, che chiedete a Vera di leccarvi i francobolli, che non siete dilaniati da niente che non sia il vostro lavoro, il vostro cammino, voi che state comunque da un’altra parte, proprio anche interiore, e non vedete nitidamente le cose infrante che lasciate per terra.

 

Io, ad esempio, le vedo benissimo le cose infrante, ma le lascio per terra lo stesso: lascio per terra i compiti che non voglio controllare, la maggior parte delle riunioni a scuola, il corso di equitazione dall’altra parte della città, la settimana bianca che mi fa venire troppa tristezza, lascio per terra le storie che ho solo finto di ascoltare, ma quando mia figlia mi ha detto: non mi ascolti mai, e ho visto nei suoi occhi la delusione, ho cercato di rimediare con il racconto di Rigopiano, perché non sono un mostro. Ma un po’ sì, e sono dilaniata tra la speranza di non esserlo affatto e il desiderio di esserlo molto di più. Una mostruosità qualunque non può bastare, sono sicura: questo genere di mostruosità, questa spietatezza, al tempo stesso mi attrae e mi spaventa, perché ha a che fare con l’ambizione, con la determinazione, è il contrario della pigrizia e del torpore e della serenità, ha dentro qualcosa di buono e anche molto di brutto.

 

Claire Dederer ha scritto di questa mostruosità femminile: “Non è grave come uno stupro, e neanche come obbligare qualcuno a guardarti mentre ti masturbi ed eaiculi nel vaso di una pianta. Potrebbe sembrare che io stia facendo un collegamento inquietante tra uomini predatori e donne che portano a termine un’opera. Ed è proprio così. Perché quando le donne fanno quello che va fatto per scrivere o per produrre arte, a volte si sentono mostruose. E gli altri sono pronti a descriverci così”. Su Alice Munro un giornale locale ha titolato, decenni fa: “Casalinga trova il tempo di scrivere racconti”, e lì dentro ha messo la mostruosità di Alice Munro. Non credo che riguardi soltanto l’arte, riguarda tutto quello che porta a uscire dalla vita reale, tutto quello che trascina altrove. Tutta la mostruosità necessaria per portare a termine qualcosa. E’ più facile per una madre ammettere di avere questo mostro dentro, e a volte desiderarne di più, o per un uomo dire, se e quando è così: io una parte della mostruosità di quegli impulsi predatori la riconosco, so che fanno parte di me e li combatto? Non lo so. So che non smetterò di amare i film di Woody Allen e di desiderare di vederne ancora uno all’anno per molti anni. E non smetterò di ammirare segretamente certi comportamenti mostruosi (la protagonista de La figlia oscura di Elena Ferrante che lascia le sue figlie per tre anni, per inseguire il mondo e se stessa – ma torna perché “mi sono accorta che non ero capace di creare niente di mio che potesse veramente stare alla pari con loro”) e poi correre a casa a raccontare storie per guadagnarmi i centocinquanta baci della buonanotte.

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.