Dalla Russia con due anime
Natalia Goncharova, regina delle avanguardie novecentesche tra Mosca e Parigi, libera e scandalosa ma legatissima alla tradizione della sua patria. In cui non tornerà più. Una mostra
Fu alle quattro del mattino del 14 settembre 1913 che un’automobile si fermò all’angolo di una via in un quartiere alla moda di Mosca. Ne scese un gruppo di giovani artisti, con il volto dipinto di geroglifici rossi e blu, gridando nella mezza luce frasi provocatorie. La più in vista della vivace brigata, e la più famosa, era lei. Il primo esperimento di body art futurista in terra di Russia destò molto scandalo nella buona società, anche perché i ragazzi non erano degli sprovveduti: avevano annunciato l’iniziativa a mezzo stampa e, nonostante l’ora, la strada era piena di fotografi e di curiosi. Non che Natalia Goncharova ne avesse bisogno. A quel tempo, assieme al compagno della sua vita, Mikhail Larionov, instancabile animatore delle avanguardie russe, era già una delle artiste più note, ricercate, imitate nello stile di vita di Mosca. Gli scandali li sapeva suscitare, li aveva già suscitati. Nel 1910, per esempio, alla Società di libera estetica avevano organizzato una mostra di una sola serata, il tempo sufficiente per farsi rumorosamente notare: lei espose alcuni nudi femminili e diventò, in una sera, la prima artista donna ad avere esposto nudi femminili in Russia e a vederseli sequestrare seduta stante, per offesa alla morale e pornografia. Scrissero di lei i giornali: “Una totale decadenza del genere e a tal punto indecente che le sale segrete di anatomia al Museo Hasner sono surclassate da una perversione così rivoltante”. Non che le servisse, tanta pubblicità. Quattro anni prima, a venticinque anni, aveva già esposto a Parigi e il suo nome circolava nel mondo dei galleristi. Solo tre anni dopo, il 30 settembre 1913, si inaugurò a Mosca la sua prima gigantesca retrospettiva, a 32 anni, in cui furono esposte oltre cinquecento opere, testimonianza di una produzione febbrile, poliedrica, prensile e generosa. Pittrice (aveva iniziato, alla Scuola d’arte di Mosca, studiando scultura. Ma al primo incontro con Mikhail Larionov, coetaneo e studente nella stessa scuola, lui le disse: “Hai occhio per il colore, ma ti impegni sulla forma. Apri gli occhi ai tuoi stessi occhi”), illustratrice, costumista, grafica, scenografa, e performing artist ante litteram, era la regina delle avanguardie in Russia e anche da Parigi guardavano a lei.
Nel 1910 espose alcuni nudi femminili e diventò la prima donna ad avere esposto nudi femminili in Russia e a vederseli sequestrare
Ma non si stava male in Russia, ad essere avanguardisti e anche bohémien, all’inizio del Novecento. A Mosca accumulavano tesori due dei maggiori collezionisti d’epoca, industriali di immensa ricchezza, Sergej Shchukin e Ivan Morozov. Compravano tutto, con gusto eclettico e spregiudicato: antiche icone e arte contemporanea, fauvismo e cubismo. La collezione di Shchukin a palazzo Troubetskoi comprendeva trentasette Matisse e cinquanta Picasso, oltre agli impressionisti francesi. Una miniera di suggestioni, e poco da invidiare alle gallerie e agli atelier parigini. Fu solo nell’estate del 1915, dunque, al telegramma di insistenze numero cinquanta, che Natalia Goncharova accettò l’invito di Serge Diaghilev, il mitico impresario di balletti russi, di trasferirsi a Parigi per occuparsi delle scenografie e dei costumi delle sue produzioni. Lei, in cambio del sì, ottenne che Diaghilev ingaggiasse anche l’amato Larionov, che si scoprì una vocazione da coreografo. La coppia (aperta, non sempre fedele, ma indissolubile per tutta la vita e costruita su una modernissima solidarietà paritetica nel lavoro) si ricongiunse così a Parigi. Non sarebbero mai più tornati in Russia.
“L’arte del mio paese è incomparabilmente più profonda di tutto ciò che conosce l’occidente”. Oggi è celebrata nel suo paese
Per Natalia, il resto della vita sarà “dopo la Russia”. Era nata nel 1881 nel governatorato di Tula, nella Russia centrale, in una “famiglia decaduta”, per usare un titolo di Nikolaj Leskov, piccola aristocrazia terriera con un occhio verso la modernità della capitale e un piede sempre ben piantato nella tradizione. Pronipote per parte di padre della bellissima moglie di Puskin, per la quale il poeta andò al fatal duello, sua madre era figlia di un professore moscovita di teologia. La sua balia, la donna che l’aveva cresciuta, era invece una “vecchia credente” legata all’ampio movimento tradizionalista dell’ortodossia che aveva rifiutato le riforme moderniste introdotte nella dottrina. La vita della campagna, il popolo in abiti tradizionali che invade di colori i suoi quadri neoprimitivisti, o che occhieggiano a Cézanne e a Gauguin, rimarrà sempre una metà della sua anima e della sua ispirazione. E anche la religione, “l’anima russa” resteranno un suo punto di riferimento artistico e iconografico. “L’arte del mio paese è incomparabilmente più profonda di tutto ciò che conosce l’occidente”, disse in occasione della mostra del 1913, ancora ignara che di lì a poco avrebbe attraversato il confine per sempre. Anche sull’arte religiosa, non si era fatta mancare niente. Le quattro grandi tele degli Evangelisti, dipinte nel 1911, così come altre opere di soggetto sacro che riecheggiavano le antiche icone furono sequestrate al pari dei nudi femminili, perché la chiesa ortodossa non ammetteva che le donne potessero rappresentare figure sacre. Lei rispose con una lettera aperta in cui rivendica che le donne “hanno un intelletto a forma e immagine di Dio”.
Una buona parte del fascino esercitato dalla figura di Natalia Goncharova – esercitato attraverso l’energia della sua pittura, dei suoi colori primari e pieni di vitalità, della fantasia giocosa dei suoi bozzetti di scena, del suo rapidissimo evolvere di stile in stile (nel Manifesto dei raggisti aveva scritto: ‘Riconosciamo che tutti gli stili sono adatti a esprimere la nostra arte, stili sia di ieri, sia di oggi, per esempio cubismo, futurismo, orfismo e la loro sintesi: il raggismo”) – risiede in questa sua sofferta, ma ben dominata, duplicità. Una donna artista completamente immersa e a suo agio nella modernità parigina, che frequentava Picasso e Cocteau, Matisse e Marinetti, che espone negli Stati Uniti e in Giappone, ed è allo stesso tempo costantemente legata alla sua terra e alla sua tradizione, alla diversità (e superiorità) sempre ribadita dell’anima russa. Questo spiega, forse in parte, qualcosa della sua diseguale fortuna critica. In Europa stabilmente inserita nel pantheon degli artisti novecenteschi, madrina riconosciuta delle avanguardie russe e parigine, quotatissima sul mercato (dieci anni fa un suo quadro fu battuto da Christie’s a oltre dici milioni di dollari; in coppia con Larionov è stabilmente quotata sui cinque milioni di dollari) in Italia è invece poco conosciuta. Diversamente, in Russia è oggi un oggetto di culto e un patrimonio nazionale. Probabilmente anche per questo motivo: la Russia che Goncharova ha dipinto, nei modi e nei termini dei nuovi linguaggi dell’avanguardia, è in grande parte la Russia eterna, arcaica, ortodossa. Quando la Rivoluzione del 1917 le impedirà per sempre di tornare (morirà a Parigi nel 1962), l’immagine interiorizzata della Russia continuerà ad essere quella. A differenza di altri russi bianchi expat, nei suoi occhi non entrerà mai l’Unione sovietica, “il soviet + l’elettrificazione”. Uno iato temporale che, per i russi di oggi e per il nuovo nazionalismo dell’èra putiniana, si è ricomposto soltanto con il crollo del comunismo e il riemergere di quell’anima profonda che, per molti russi, è anche eterna.
Figlia della piccola nobiltà di campagna, pronipote di Puskin, allevata da una balia ultra ortodossa, partì per Mosca adolescente
Nel lungo esilio, il legame venato di mito con quella patria rimase fortissimo. Natalia e Mikhail si sposeranno dopo cinquant’anni di vita comune, nel 1955: e soltanto per garantire a uno dei due la legittimità di ereditare tutti i dipinti dell’altro. Nel 1963, un anno prima di morire, Mikhail sposerà Alexandra Tomilina, terzo personaggio di un lunghissimo mènage à trois che non si interromperà neppure con la morte: le sue ceneri, nel 1987, saranno deposte nella tomba di Natalia e Mikhail a Ivry-sur-Seine. Ma ancora una volta, lo scopo del matrimonio è consentire alla Tominina di trattare, da legittima erede, con il governo sovietico (e lo stato francese) per il rientro dell’ingente patrimonio artistico in Russia. L’operazione riuscirà solo nel 1989. Ora una parte consistente dei quadri di Goncharova e Larionov è conservata alla Galleria Tretyakov a Mosca.
Si tratta della prima antologica personale in Italia, la seconda in Europa dopo la mostra alla Tate di Londra nell’estate scorsa
Tutto questo, e molto altro, racconta con dovizia di opere e minuzia di informazioni (ma zero pedanteria, l’allestimento e le didascalie accanto ai quadri sono piacevolmente visitor friendly) la mostra Natalia Goncharova - Una donna e le avanguardie tra Gauguin, Matisse e Picasso che si inaugura oggi a Palazzo Strozzi a Firenze (fino al 12 gennaio 2020) e che ha in sé molti pregi. Il primo, di far conoscere un’artista e una donna di così grande personalità al pubblico italiano. Si tratta della prima antologica personale nel nostro paese, e del resto è soltanto la seconda mai realizzata in Europa: la prima, nell’estate scorsa, è stata proposta dalla Tate Gallery di Londra, che possiede molte opere della pittrice russa. La mostra è infatti realizzata in sinergia con la Tate Modern, oltre che grazie a una preziosa rete di prestiti nazionali e internazionali, dalla Galleria Tretyakov al Museo Statale Russo di San Pietroburgo, alla National Gallery al Museo del Novecento e il Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco di Milano. Confermando, come tiene sempre a sottolineare il direttore Arturo Galansino, la capacità di Palazzo Strozzi di costruire mostre originali basandosi sulla qualità dei progetti, pur senza avere la possibilità di entrare nel gioco dei prestiti incrociati (Palazzo Strozzi, Fondazione, non è un museo).
Ma ancora di più, la mostra è preziosa perché frutto del lavoro e della dedizione magnifiche della curatrice, Ludovica Sebregondi, storica dell’arte, curatrice e oggi a capo del Coordinamento scientifico ed editoriale di Palazzo Strozzi. E’ alla sua passione che si deve un progetto iniziato nel 2013 (un lungo tempo per preparare una mostra, se si ragionasse solo in termini di cartelloni da riempire) che ha saputo collegare i fili di una storia poliedrica, dei rapporti tra luoghi e artisti (ad esempio il lungo e poco noto soggiorno italiano della Goncharova) e di ritrovare anche più di un dettaglio che era andato perduto. Di costruire un ritratto d’artista in cui l’avanguardia convive con il balletto, l’arte sacra con le incursioni nel futurismo. Uno dei quadri esposti nelle ultime sale, Giardinaggio, del 1908, mostra in una fioritura di colori il lavoro delle donne del sud della Russia. Natalia lo dipinse nel 1908, e solo poco prima di morire si decise a donarlo alla Tate Gallery. Lo aveva sempre tenuto con sé perché, diceva, le ricordava il periodo più felice della sua vita. Tra l’avanguardia e la madre Russia.
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