Il Foglio del Weekend

Te lo do io il teatro

Michele Masneri

La superstizione, i gatti, le chiusure, e tutte quelle parole oscure dietro al sipario. Margherita Palli, la più prestigiosa scenografa che abbiamo, racconta la sua vita passata tra Gae Aulenti e Luca Ronconi. E pure “Striscia la notizia”

Margherita Palli, la più prestigiosa scenografa che abbiamo, una vita passata tra Liliana Cavani e Gae Aulenti e soprattutto Luca Ronconi, con cui ha arredato il secolo d’oro del teatro italiano, mi aspetta.

 

Dobbiamo parlare del teatro: le chiusure, le riaperture, le coscienze civili scosse, insomma una cosa molto alta. Svizzera, oltretutto, dicono severissima, lei mi attende a casa sua per le dieci di mattina ma a Milano c’è traffico, un tram ha investito uno scooter a piazzale Loreto, sono in ritardo. Chissà la cazziata.

 

Controllo l’indirizzo, entro in un casermone, passo un cortile, la portinaia che sta annaffiando con un tubo che mi va nei piedi mi sgrida lei portandosi avanti, e poi mi manda in un altro, di cortile, poi scenda giù, ma come scenda, e poi ecco uno scivolo, e poi appare lei, ad aprire la porta. Frangetta, occhiale tondo, un po’ Agnès Varda, eccola qua. Nonostante i 70 anni che compirà a luglio, è chiaramente un folletto senza età. E non pare nemmeno  pericolosa.


La casa intanto: questo enorme loft che dà su un boschetto di bonsai è il regno suo e del marito Italo Rota, in mezzo a gatti veri e animaletti di gomma, acquari giganti che ribollono, statuette di Mao e madonnine d’acqua santa. “Era l’ex galleria di Massimo De Carlo, e dove sta seduto lei, dietro, il Cattelàn – pronuncia tronca – l’aveva scocciato alla parete”. Celebre opera del Cattelàn, il gallerista che per poco non ci rimane, scocciato. “Lassù, sul soppalco, invece, il mio studio, tutto aperto, perché mi piace tener d’occhio tutto quel che succede. Qua una piccola terma, un Vals casalingo”, rimando alle origini svizzere, e poi gli animaletti del marito: l’archistar è assente, in trasferta a Dubai per l’Expo.

 

Palli ha appena pubblicato uno strano oggetto, un piccolo “Dizionario teatrale” per Quodlibet insieme alla Naba che è l’accademia milanese dove insegna. Sembra uno di quei manuali Hoepli di una volta che ti insegnavano qualche ramo dello scibile pratico. Solo che traduce il teatro, dall’Italiano in inglese, russo, cinese, francese. Con tutte le sue terminologie. Come le è venuta in mente l’idea di un dizionario? “Perché io da giovane avevo dei dizionarietti francesi per tutte queste parole che cambiano in ogni lingua nel teatro e non si capiva niente. Solo che non esistono più e così ho deciso di farne uno io”.

 

Parole come “chiavarda, tirone, brocchetta, burlone”.  Ma che è il burlone? “E’ quello per fare le onde. Infatti, in francese, colonne de mer. In tedesco, wasserwalzen. Poi ci sono anche delle parole che si dicono solo alla Scala, sarebbe servito un milanese-italiano. Per esempio: la bellini. 'Su con quelle bellini', sentivo dire le prime volte.  Le bellini sono dei praticabili di legno allungabili”. Eh, ma che è un praticabile? “Sono le traverse, le piattaforme, su cui salgono attori e macchinisti".

 

La parte più divertente del dizionario è quella sulle scaramanzie. “In Italia si sa che non si può usare il viola, perché era il colore della Quaresima, quando gli spettacoli erano vietati e i teatranti morivano di fame. E non si fanno mai ovviamente gli auguri ma si dice ‘merda merda’, che è così anche in francese, perché più merda c’era sotto i portici dei teatri più carrozze erano passate e quindi più pubblico. In Germania si dice Toi Toi: la prima sillaba di Teufel, diavolo, che però porta bene, si mette anche sull'albero di Natale. In Russia quando si inaugura un teatro si porta invece un gatto”. 


Il gatto però se attraversa il palco durante lo spettacolo porta male (e di gatti, in questa casa, eccone due, che ronfano in una cesta). E’ gattara? “Io di mio sarei più per i cani, il gattaro è mio marito, che infatti ha costruito tutta questa casa a prova di felino. Tutte le porte hanno un angoletto mancante per il loro passaggio". Ma adesso i buchi son tappati, poi capiremo perché. Intanto, colori: "il verde porta male in Francia perché si dice che Molière fosse vestito di questo colore la sera del suo ultimo spettacolo, il Malato immaginario il 17 febbraio 1763, dopo il quale prontamente morì. Il giallo – più curioso – è vietato in Spagna perché è giallo l’interno del mantello del torero, e dunque sarebbe l’ultima cosa che vede il toro prima di morire”. Poi c’è la corda, che si può nominare in italiano ma mai assolutamente in inglese o in francese: “I teatranti infatti dal Seicento erano marinai che d’inverno stavano in terraferma e dovevano sbarcare il lunario. Molti dei termini teatrali derivano dalla marina.  E corda, corde o rope, significava impiccagione".

 


Anche lei è scaramantica, dice, "lo sono tutti". Anche Ronconi, eterea divinità barbuta, creatore di spettacoli lunghissimi e architettonici. “Beh, sì, nonostante fosse uno impassibile, che notoriamente non si scomponeva mai. E però uno dei primi lavori che ho fatto con lui, sapendo il suo perfezionismo, volevo fare la perfettina anche io. Serviva uno specchio e io portai un vero specchio da bagno, e lui inorridì”.

 

In altri casi, invece, materiali sempre reali, come nell’Ignorabimus di Arno Holz, leggendario spettacolo degli anni Ottanta, “in cui c’erano un vero muretto di mattoni, e vere strade di marmo e vero asfalto, perché lui voleva che il fruscio del vestito della protagonista, Marisa, fosse diverso, che strofinasse sull’uno o sull’altro”. So che chiamava Marisa anche lei, nei momenti di magra. “Marisa quando era arrabbiato, Marghe quando era in buone: ma non è che si arrabbiasse, è che si incupiva se gli sembrava di non riuscire a trasmetterti la sua idea”.

 

“Lui cominciava dallo spazio e poi arrivava alla regia. Pensava in pianta, e poi sopra costruiva lo spettacolo”. Partendo spesso da suggestioni tipo sciarade. “Non era facile capire cosa volesse. Ci sono registi che ti dicono benissimo quello che vogliono, magari anche ti danno una fotografia, la Cavani era così. Ronconi no, buttava lì delle frasi tipo: ‘Siamo in un cinema parrocchiale degli anni Cinquanta’, per i Dialoghi delle carmelitane di Bernanos. Oppure: per Il caso Makropoulos l’indicazione era: ‘in ogni pensione del mondo c’è una passatoia rossa’".

 

"O ancora:  per la Lucia di Lammermoor, l’ultimo spettacolo che abbiam fatto insieme, opera ambientata in Scozia in un giardino, io arrivo preparatissima sui giardini, e lui subito si innervosisce. ‘Ma che giardino e giardino! Dev’essere un concentrazionario’. E dietro, tutta la corte del Maestro: ah, certo, un concentrazionario! Sicuro! Ma nessuno, me compresa, aveva ben capito cosa intendesse. Poi capimmo che voleva uno speciale campo di concentramento. Per un’Arianna a Nasso, c’era il tema dell’isola, lei è una prigioniera su un'isola. Lui arrivò e disse: dev’essere ovviamente Jackie Kennedy a Skorpios. Così per mesi io vado con la mia assistente alla biblioteca Sormani, non c’era Internet all’epoca, e ci mettiamo a studiare tutti i rotocalchi, Stop, Novella 2000, Gente”. 

 


Quindi anche Ronconi non era ossessionato solo dall’“alto”. “No, per niente. Leggeva di tutto, da Vanity Fair a testi di economia. E poi era un uomo che sapeva riconoscere le intelligenze. Una volta c’era il presidente di Artemide, Gismondi, che s’era messo in testa di fargli disegnare una lampada. Timidamente li facemmo incontrare. Rimasero chiusi dentro per un’ora e mezza. Alla fine trovammo Ronconi che gli leggeva Ossi di seppia”. Però l’Arianna a Nasso kennediana non andò mai in porto. “No, alla fine lui cambiò idea perché l’isola di Skorpios in quelle foto sembrava solo un ammasso di sassi. Quindi facemmo invece un’isola ispirata a Böcklin. 'Bene, e adesso che abbiamo l'isola, che le facciamo fare?', dice il Maestro. Finì con un'isola rotante, sotto c’erano tipo trentacinque motori elettrici che la dovevano muovere lentissimamente, perché il fatto che girasse lo si doveva percepire solo dopo un po’. Certo,  molti spettacoli oggi non si potrebbero più fare, ma non per soldi, anche per i rischi, per la sicurezza”. 

 

Io mi ricordo ancora l’Incredibile Pasticciaccio fatto a Roma all’Argentina coi palazzoni che si squadernano sugli attori. “Oh, beh, ma non abbiamo mica inventato niente. E' solo una ripresa delle  macchine teatrali seicentesche",  taglia corto Palli, che, si è capito, coltiva l’asciuttezza, oltre al gusto della ricerca, affinato in anni di enigmi ronconiani, e che  la occupa di notte, nei meandri dell'Internet. "Sono molto nerd", sussurra, abbassando gli occhi, come una colpa, chissà però quanto si diverte, nel suo antro. 

 

"Sa cosa piaceva molto a Ronconi? La moda. Anche a me", dice, e mi porta nel  guardaroba sospeso che farebbe invidia alla Ferragni, “ma  Ronconi era un super esperto: lui normalmente viaggiava sempre con un minuscolo valigino, ma quando andavamo a Tokyo si portava tre valige. E sapeva tutto: ah, quello è un Miyake, quello è un Yamamoto".

 

“Tokyo mi piace molto”, dice Palli, “e anche Milano”. “Mi piace il cemento”. Come il cemento? “Beh,  io sono nata in campagna, in Svizzera, con le mucche, mio padre mi portava a vedere il fiume, per un po’ ero pure convinta di voler fare la veterinaria. Se sto in città è perché voglio andare in giro, prendere un aperitivo, vedere due negozi, un museo. O andare da McDonald’s, che adoro. Non è che voglio guardare gli alberi. Se voglio guardare gli alberi vado in campagna.  Poi tutta questa mania di piantare alberi dappertutto in città… non è mai stato dimostrato che servano a qualcosa".


Eh, però i suoi quasi colleghi architetti han detto che bisogna andare tutti nei borghi. “Mah, i borghi: io ho delle assistenti che stanno fuori Milano, prendono il treno per venire, son mica tanto contente”. Lei insegna anche all’università della Svizzera Italiana. “Curiosamente, proprio nel palazzo dove sono nata. In Ticino se eri cattolico partorivi alla clinica S. Anna, se eri laico alla maternità cantonale di Mendrisio. Che poi è diventata università”. Famiglia? “Di Pura, dove stava anche Benedetti Michelangeli. Parente Natale Palli, l'aviatore che pilotava l'aereo di D'Annunzio nel volo su Vienna. Mio papà architetto, lavorava per il governo svizzero. E poi un nonno insegnante, e una zia pure insegnante. Avevano messo su un doposcuola gratuito per i figli degli italiani che emigravano in Svizzera".

 

Adesso insegna pure lei. “Beh, si, insegno più che altro un mestiere”, butta lì, senza tante smancerie. Dicono che sia molto severa. “No. Sono molto esigente. Se fai l’università sei un privilegiato e devi lavorare. E’ come andare in fabbrica. Non è che vieni lì a fare gli esami e prendere la laurea. Nessuno nella vita ti farà lavorare per la laurea, ma per quello che sai fare. E poi noi non siamo mica artisti. E’ un lavoro come un altro il nostro, è come un architetto, hai un committente, devi rispettare i costi, non siamo mica i Cattelàn.  Se hai pensato un cornicione di quindici centimetri c’è quello delle luci che ti dice, fallo di dieci che ci devo mettere una luce”. Eh però la Scala, Ronconi, l’aristocrazia teatrale.

 

“Ma non c’è solo la Scala. C’è anche Amici. Come Amici? “Il nostro compito è insegnare a fare tutto. Io per esempio ho una passione per l’Opera più che per la prosa, ma insegniamo anche a fare una vetrina per la Rinascente". Certo saper fare l'Opera aiuta, "Se uno è in grado di progettare uno spazio di venti metri per venti, la dimensione tipo del palco, che cambia per cinque atti, che dentro ci stanno cinquecento persone tra coro, attori e orchestra, poi può fare qualunque cosa. Una mia allieva è andata a X Factor, e sono ben contenta”.

 

Anche lei ha fatto tante cose.  “Non è che da piccola volevo fare la scenografa, no. Disegnavo abbastanza bene e son andata all'Accademia. Ma frequentavo di più la classe di scultura, con Alik Cavaliere, che poi mi ha detto: è ora che ti trovi un lavoro serio, lo scultore non è un lavoro da donne”.  Finisce da Gae Aulenti, che sta realizzando il museo d’Orsay. Sarà stata felice. Ride. “Mah, insomma. Facevo la colorista, come si diceva una volta, prima che inventassero il render. Coloravo i progetti. Ero un render umano”.

 

E poi Parigi. Un sogno. “Ma io l’ho sempre odiata Parigi. Son sporchi. La baguette mi fa schifo. La moquette al cesso mi fa schifo. No, Parigi proprio no. E’ un posto così finto. Tutti mi dicono, ah, che bella, Parigi, io l’ho sempre detestata. Così romantica. Così Disneyland. Poi così razzisti con gli italiani. Io non litigo mai ma lì ho fatto certe litigate. Un anno stavamo facendo la Fedra, e dovevo telefonare a Ronconi che stava in hotel ad Atene, allora vado alla Borsa dove avevano tutti gli elenchi telefonici del mondo, prendo quello di Atene ma qualcuno aveva strappato la pagina. Vado dall’addetta, faccio una timida rimostranza, e quella: ah, les italiens! Ils sont toujours polemiques! Ma quale italiana, io son svizzera, e in Svizzera non le strappiamo le pagine!”. 

 

A Parigi vive una specie di luna di miele col marito, che stava facendo la gare d’Orsay insieme alla Aulenti. “Ma per un po' ci molliamo, così finalmente posso tornare a Milano. Tutti dicono che mi ha mollato lui, ma non è mica vero, son scappata io”.  "Ma sa invece qual è una delle cose più divertenti che ho fatto? La mostra per i vent’anni di Striscia la Notizia”. Ma come! Non è possibile. Sì, alla Triennale. Io e la mia assistente eravamo molto scettiche di incontrare Antonio Ricci, poi siamo diventati amici. “La strega confederata”, la chiama lui.  

 

“Eravamo tutti e due sospettosissimi, lui di incontrare una parruccona scenografa col sopracciglio alzato, lei di incontrare un cialtrone televisivo, non so. Comunque, un trionfo: cinquantamila visitatori. Una coda che arrivava da Cadorna. Ricci è molto colto, è un grande collezionista, ha lo stesso tipo di intelligenza di Ronconi”. Ma qui i cavalli nitriscono, tipo Frankenstein Junior. “A un certo punto ha pure presentato un mio libro a Striscia. La mia signora delle pulizie ha fatto una foto e me l’ha mandata, io la giro a (e nomina una signora milanese importantissima) e quella mi dice: ma la tua colf è bravissima col photoshop!”.

 

Intanto suona il telefono e parte a tutto volume la suoneria di “Heidi”. “Heidi, Heidi, ti sorridono i montiiii”. E’ il marito da Dubai. Riattacca. Parliamo un po’ di teatro, di coscienza civile, di urgenza? Macché. “Il vero grosso problema”, dice lei, "è di chi magari fa vari lavori, gli eventi, la moda, e anche il teatro. E adesso sta a casa". “Spero che si ricominci presto”. Però senza drammi. “Il Covid è stato anche un modo per raccontare l’Opera in un modo diverso. Per esempio Martone, col suo Barbiere e la sua Traviata televisivi, è stato bravo, son molto belli. Magari hanno fatto avvicinare al teatro un pubblico nuovo. E poi qualcosa cambierà, sì, i teatri stanno cercando opere con meno coro, meno attori”.

 

Su una cesta intanto due gatte ronfano. “Il primo gatto che è arrivato era uno scottish regalato da Ronconi. Ma quando è morto, la moglie e la figlia che vede qui erano disperate, non mangiavano più, allora la mia veterinaria mi ha detto: ne prenda un altro. Insomma abbiamo preso quest’altro gatto. Lui è gigante, un bisonte, e loro due lo odiano. Abbiamo dovuto transennare tutti i buchi: però queste due hanno ritrovato un nuovo motivo per alzarsi la mattina, tipo Olindo e Rosa: fare la guerra al nuovo gatto. Sono rinate”.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).