Verso l'Eliseo
Éric Zemmour, il provocatore
L’intellettuale reazionario più divisivo di Francia, tira dritto. Ecco perché la sua candidatura alle presidenziali spaventa Macron
Anche il più sulfureo dei suoi amici di lunga data, Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front national, gli ha “consigliato amichevolmente” di lasciar perdere, di continuare a fare il giornalista e a scrivere libri. “Le sue attività di polemista sono in contrapposizione con una candidatura alla presidenziali, perché il polemista taglia nel profondo, nella carne viva, mentre il candidato alle presidenziali è un guaritore, una persona aggregante”, ha dichiarato il padre di Marine Le Pen. Ma non c’è verso di far cambiare idea a Éric Zemmour, l’intellettuale reazionario più divisivo di Francia, star dei salotti catodici di area sovranista, santino dei populisti d’oltralpe e campione di incassi nelle librerie con i suoi saggi incendiari, dove nel titolo o nella quarta di copertina c’è sempre un “déclin” o un “suicide” da denunciare. Dopo l’estate, salvo ripensamenti assai improbabili, ufficializzerà la sua candidatura all’Eliseo, convinto di avere le sue chance di intercettare quel raggio di voti che va dai delusi del gollismo ai disillusi del lepenismo, di trasformare i suoi lettori, tantissimi, in elettori.
“Sogna di essere come Bonaparte sul ponte d’Arcole”, riassume un consigliere del presidente Macron. Di più: Zemmour sogna di salvare la Francia dal “grand remplacement”, la sua ossessione, la battaglia di una vita. Teorizzata dallo scrittore Renaud Camus, che negli anni Settanta era un’icona del movimento gay, mentre oggi è l’ideologo degli identitari che militano per la remigrazione coatta e senza distinzione di tutti gli immigrati, la “grande sostituzione” sarebbe quella delle popolazioni arabo-africane, prevalentemente di confessione musulmana, ai danni dei cosiddetti “français de souche”, i francesi autoctoni, bianchi, di religione o quantomeno di cultura cattolica. La colpa di questa grande mutazione etnico-culturale, afferma Zemmour, è tutta della legge sui ricongiungimenti familiari di Valéry Giscard d’Estaing, dello ius soli e della politica senzafrontierista delle élite francesi, affette dall’odio di sé e impegnate in una corsa a perdifiato per decostruire la nazione. “La Francia sta subendo un’ondata migratoria spaventosa, una trasformazione della popolazione inedita nella storia di questo paese e l’incredibile sostituzione di una civiltà da parte di un’altra. La Francia vede la morte in faccia”, ha tuonato a maggio su Cnews davanti all’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, prima di aggiungere: “Dobbiamo affrontare questo grave problema (…) Quando la Francia era occupata, rischiava meno”. Cnews, il canale all-news del gruppo Canal Plus, di proprietà del magnate bretone Vincent Bolloré, è diventato rifugio e amplificatore del Zemmour-pensiero.
Dal lunedì al venerdì, tra le 19 e le 20, va in onda il talk show politico più amato dalla galassia sovranista francese, “Face à l’info”. Più che un ring dove si scontrano opinioni differenti, la trasmissione è un pulpito catodico dove il giornalista del Figaro cannoneggia senza limiti contro l’islam, gli immigrati, la gauche e le femministe, i suoi bersagli di sempre, spostando sempre più lontano l’asticella dell’estremismo. Lo scorso settembre, sollecitato dalla presentatrice Christine Kelly sulla questione dei “mineurs isolés”, i giovani immigrati entrati nel territorio non accompagnati e senza la protezione di una famiglia sul suolo francese, ha reagito così: “Non hanno niente da fare qui, sono tutti ladri, assassini, stupratori. Devono essere rimandati indietro”. Dinanzi a una Kelly visibilmente imbarazzata e assai infastidita da ciò che aveva appena sentito, Zemmour ha aggiunto: “Non bisogna lasciar entrare nessuno. Lei forse pensa ai bambini che soffrono. Io, invece, penso alle donne che vengono stuprate da questi giovani, alle persone assassinate da questi individui, ai francesi picchiati e traumatizzati da loro”.
L’anchorwoman di Cnews ha preso subito le distanze e chiesto al polemista di assumersi la responsabilità di quelle uscite: Zemmour ha risposto che lui, a differenza degli altri, si assume “sempre” la responsabilità delle sue frasi choc. Una delle prime a sobbalzare dalla sedia all’ascolto di quelle parole è stata la ministra per le Pari opportunità e la Diversità, Élisabeth Moreno, che su Twitter ha denunciato “l’uscita abietta e razzista” e immediatamente sollecitato il Consiglio superiore dell’audiovisivo (Csa), l’authority televisiva francese. Lo scorso 4 giugno, in seguito alla denuncia presentata da Philippe Grosvalet, presidente del dipartimento della Loira-Atlantica, il Csa ha condannato Cnews a una sanzione pecuniaria di 200 mila euro, perché Zemmour, si legge nel comunicato, ha “incitato all’odio” e “veicolato stereotipi particolarmente infamanti nei confronti dei minori isolati”.
Non si tratta della prima condanna per questo figlio della banlieue parigina (è nato a Montreuil, a est della capitale, nel 1958) e di due “pieds noirs”, come venivano chiamati i francesi che fuggivano dall’Algeria decolonizzata per posare le loro valigie sui marciapiedi dell’Esagono in cerca di riscatto e libertà (il padre, morto nel 2013, era un autista di ambulanze, la madre ha fatto sempre la casalinga ed è la figura più importante della sua vita). Nel febbraio 2011, Zemmour è stato condannato per incitamento alla discriminazione razziale per aver detto durante la trasmissione “Salut les terriens!” che “la maggior parte dei trafficanti di droga sono arabi e africani, è un dato di fatto”, e che dunque la sinistra aveva poco da lamentarsi se i poliziotti della République controllavano senza sosta i figli dell’immigrazione invece dei petits blancs. Nel 2018, è stata la Corte d’appello di Parigi a emettere una sentenza di condanna per incitamento all’odio religioso verso i musulmani, dopo che Zemmour, durante la trasmissione “C’est à vous”, su France 5, aveva dichiarato che “tutti i musulmani”, anche se alcuni non lo dicono ad alta voce, considerano i jihadisti “dei bravi musulmani”. Due anni dopo, per aver affermato durante la “Convention de la droite”, raduno della destra identitaria organizzato da Marion Maréchal e dal magazine conservatore L’Incorrect, che i musulmani sono gli “ex colonizzati divenuti colonizzatori” e che le loro djellaba sono come “le uniformi degli eserciti di occupazione”, il giornalista del Figaro è stato nuovamente condannato per incitamento all’odio.
“Questo weekend è stato segnato da una riunione di cui non voglio citare il nome, ma che mi ha colpito per la violenza e i toni di alcune frasi pronunciate. Questa presunta convention ha dato luogo a discorsi che trovo nauseabondi e profondamente contrari all’idea che abbiamo della Francia e della République”, commentò l’allora primo ministro Édouard Philippe. Molti, anche in quella destra che come Zemmour ha De Gaulle e Napoleone come padri nobili, hanno preso le distanze dal polemista di origini berbere: perché non si tollera l’intollerabile. Chi invece continua a infischiarsene delle condanne e delle crociate anti Zemmour è Vincent Bolloré, oggi il principale datore di lavoro e protettore del chroniqueur di 62 anni.
Nell’ottobre 2019, dopo che Rtl, la prima radio di Francia, mise fine a qualsiasi forma di collaborazione con il pamphlettista a causa della radicalizzazione delle sue posizioni, fu Bollò a scommettere tutto su Zemmour, a offrirgli uno spazio di primo piano su Cnews, una rampa di lancio per spiccare il volo mediatico (e politico), nonostante i malumori della redazione. “Hanno in comune un odio verso i benpensanti, il conformismo e il socialismo”, assicura un fedelissimo del capo di Vivendi. Il sodalizio Bolloré-Zemmour fa tremare soprattutto Macron e la macronia in vista delle presidenziali del 2022, anche perché ora l’uomo d’affari bretone si è preso pure Europe 1, una delle radio più influenti di Francia: dalla rentrée di settembre, diventerà la succursale radiofonica di Cnews, un ventilatore di populismo ventiquattro ore su ventiquattro, nel quadro di una più ampia strategia, che è quella di creare un maxi-polo catodico del sovranismo, una sorta di “Fox News francese”. Ma in attesa di stravolgere la linea editoriale di Europe 1, Bolloré brinda agli indici d’ascolto da capogiro registrati da “Face à l’info”: ogni sera, dai 700 mila ai 900 mila telespettatori restano incollati allo schermo per sentire Zemmour, mentre mena sciabolate contro “i tartufi puritani passati da ‘Je suis Charlie’ alle leggi contro le fake news, dall’irriverenza alla riverenza”. I numeri hanno permesso di ridurre il gap con la rivale storica, Bfm.tv, di proprietà di Patrick Drahi e di idee macroniste, e a Bolloré di tornare al centro dei giochi mediatici dopo anni nelle retrovie. “Canal Plus è lo strumento della sua rivincita e il luogo da cui assapora la sua nuova posizione di influenza”, spiega Marianne.
Alcuni giorni fa, il settimanale Le Point ha scritto che lo “Smiling Killer”, come viene soprannominato a Parigi Bolloré, potrebbe avere un ruolo anche nella pubblicazione del prossimo saggio di Zemmour, un libro-manifesto a sostegno dell’ormai certa candidatura, in un’uscita dopo l’estate, probabilmente a novembre. Perché Albin Michel, editore storico del polemista, ha appena stracciato il contratto che li legava in ragione dei suoi progetti presidenziali, e al suo posto potrebbe subentrare una delle case editrici appartenenti al gruppo Editis (Plon, Le Cherche-Midi, Robert Laffont…), in mano al finanziere bretone. La direzione di Editis, per ora, ha smentito formalmente, ma non sarà certo una sorpresa se Zemmour entrerà a far parte della scuderia prima o poi. Per diversi anni, quando seguiva la droite da cronista politico, è stato un pupillo di Grasset (“Le livre noire de la droite”, sulla decadenza della destra dopo la fine del gollismo), poi, dopo un passaggio chez Denoël (“Le premier sexe”, pamphlet corrosivo contro la “devirilizzazione” della società francese), è diventato la punta di diamante di Albin Michel, l’autore di bestseller da 500 mila copie (“Le suicide français”, pamphlet sulla distruzione della Francia sotto il peso dell’islam, dell’immigrazione di massa, della globalizzazione selvaggia e dell’indifferenziazione sessuale) e di ritratti impietosi delle presidenze socialiste (“Un quinquennat pour rien”, sul mandato di François Hollande). Ora basta, però, anche Albin Michel non ci sta più ad accostare il suo marchio a un profeta di apocalissi e guerre civili sanguinose, a un “piromane che continua a soffiare sul fuoco”, come lo ha definito Libération.
Anti liberale viscerale, nostalgico dell’Ancien Régime e bonapartista fino al midollo, Zemmour farebbe carte false per uscire oggi stesso dall’Ue. “Vuole essere la sintesi tra destra ed estrema destra. Il declino francese ha il suo candidato: Éric Zemmour, quasi 63enne”, scrive l’Obs. È stato bocciato due volte al concorso per entrare all’Ena, la fucina della classe dirigente: una ferita ancora aperta, un’enorme frustrazione che, secondo molti, spiega il suo astio profondo verso le élite e la cosiddetta “enarchia”. Al Figaro, alcuni suoi colleghi, dicono che è già “in campagna” per le presidenziali. Ogni settimana pranza con gruppi di imprenditori pronti a finanziarlo, il fan club “Génération Z” tappezza le città francesi con i manifesti “Zemmour président”, lo scorso 15 aprile è sbarcato pure su Tik Tok, e il 18 giugno, in occasione dell’ottantunesimo anniversario dell’appello del ‘40 sulle onde della Bbc, ha visitato la casa di De Gaulle a Lille. “Le 500 firme? Non sono un problema. I soldi? Non sono un problema. Non c’è un partito? I partiti sono morti”, risponde il suo entourage a chi si interroga sulla fattibilità della candidatura. Robert Ménard, attuale sindaco di Béziers in quota sovranista, ha detto che il suo amico Zemmour “commetterebbe un errore colossale se si candidasse”. “Non credo che lo farà. È troppo intelligente”, ha aggiunto Ménard, quasi per autoconvincersi. Marion Maréchal, invece, assicura di aver “visto nei suoi occhi il virus della politica. È completamente preso”.