La tv delle imposture: sul piccolo schermo i teoremi giudiziari diventano affascinanti
Finalmente tre magistrati picconano il circo mediatico-giudiziario e condannano la spettacolarizzazione del dolore: il caso Pipitone e il processo sulla trattativa stato mafia
E venne il giorno in cui qualcuno, invece di lasciarsi sedurre, smascherò la grande impostura. Tre magistrati picconano il circo mediatico-giudiziario, condannano la spettacolarizzazione del dolore, prendono le distanze dai fabbricatori di verità fasulle.
Sarebbe auspicabile che quanto accaduto nell’inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone, avvenuta a Mazara del Vallo, nel Trapanese, fosse solo l’inizio. Chissà, al momento è purtroppo l’eccezione che conferma la regola della manipolazione dell’opinione pubblica.
Il procuratore di Marsala Vincenzo Pantaleo e i sostituti Roberto Piscitello e Giuliana Rana hanno chiesto l’archiviazione per quattro indagati. Sono Anna Corona, mamma di Jessica Pulizzi, la ragazza processata e assolta con sentenza definitiva per il rapimento, e Giuseppe Della Chiave. Due nomi divenuti familiari al grande pubblico su cui i media si sono concentrati in maniera ossessiva e compulsiva negli ultimi mesi. Mordi e fuggi, invece, è stata la ribalta degli altri indagati per cui si chiede di chiudere il caso. Si tratta di due turisti romani, marito e moglie, trascinati in un vortice psicologico che a confronto la sindrome di Stendhal è un banale raffreddore. Sono stati sbugiardati dopo una manciata di trasmissioni. Sembravano potere offrire la svolta investigativa ed invece sono il simbolo di quanto pericolosi siano gli effetti del circo mediatico-giudiziario. Pericolosi perché allontanano dalla verità e dispendiosi in termini di uomini e risorse, anche economiche, utilizzate per verificarne le fantasticherie. Si sono messi nei guai da soli, ma alla fine hanno ritrattato e non c’è più ragione di indagarli.
L’ultima parola spetterà al giudice per le indagini preliminari. Leggendo la richiesta di archiviazione per una volta non si assiste alla corrispondenza di amorosi sensi fra giornalisti (opinionisti e conduttori) e pubblici ministeri. Niente atteggiamento ruffiano, sdolcinato e prossimo all’adulazione nei confronti dei pubblici ministeri.
Se si vuole fare passare per vera una teoria strampalata occorre il crisma della tv. Più aumenta il numero i passaggi televisivi e più la teoria diventa affascinante. Il telespettatore finirà per crederci, senza se e senza ma. Prendete il processo sulla Trattativa Stato-mafia, crollato con la recente sentenza di appello emessa dai giudici di Palermo. Per anni i magistrati hanno tenuto in mano i fili della narrazione, monopolisti delle ospitate nei talk show. Hanno scritto libri, più o meno autobiografici, e sceneggiato racconti in cui si auto proclamavano depositari della verità al di là di ogni ragionevole dubbio. Prima di entrare in scena, dietro le quinte dei programmi televisivi, gli hanno cucito addosso il costume da supereroi impegnati nella battaglia del bene contro il male. Obiettivo: stanare i nemici della Repubblica, coloro che hanno contribuito al massacro di uomini e donne durante la stagione stragista di Cosa Nostra. Non solo mafiosi, ma anche politici e carabinieri. Si è finito per attribuire ai pubblici ministeri il merito di avere portato la luce nelle tenebre. La televisione è inquisitoria, un colpevole fa più audience di un innocente. Ed è per questo che si dà spazio sempre e solo ai rappresentanti dell’accusa. Più che a programmi di approfondimento si assiste a requisitorie senza contraddittorio. Rarissime le voci critiche, subito marchiate come conniventi.
Giornalisti, commentatori e conduttori si sono piaciuti da subito. Gli uni funzionali agli altri. Il loro è stato prima un colpo di fulmine e poi un amore durevole, cementato puntata dopo puntata, giunto fino alle segrete stanze della camera di consiglio del processo di primo grado sulla trattativa, laddove, in Corte di Assise, partecipano anche i giudici popolari. Sono comuni cittadini scelti a sorteggio che prima e durante il processo hanno vissuto, come tutti, di pane e tv. Non c’è stato un solo programma con un canovaccio diverso dalla narrazione della lotta fra i buoni, sempre e solo i magistrati, e i cattivi. Una litania andata avanti per un decennio in Italia, fin dalle origini dell’inchiesta sul presunto patto sporco fra politica e boss, mediato dai carabinieri. Di tanto in tanto i palinsesti inserivano un approfondimento giusto per evitare che qualcuno, magari, nel frattempo si svegliasse dal torpore. I giudici popolari sono stati condizionati fino al midollo. Il meccanismo ha retto fino a pochi giorni fa, quando è stato mandato in frantumi dal verdetto di appello. E’ accaduto qualcosa, nel frattempo, che neppure i più inguaribili trattativisti avevano messo in conto e cioè che un giudice del rito abbreviato e poi la Corte di Cassazione assolvessero l’ex ministro democristiano Calogero Mannino. All’improvviso c’era una tesi accusatoria da difendere con le unghie e con i denti, ma mancava colui, l’ex politico democristiano, che secondo la Procura palermitana, la trattativa aveva avviato. Dei politici in verità nel processo era rimasto il solo Marcello Dell’Utri, personaggio che torna utile in tutte le stagioni per via del marchio di mafiosità sancito, questo sì, con una condanna passata in giudicato. Gli adepti della confraternita della trattativa attendono le migliaia e migliaia di pagine delle motivazioni che saranno scritte nei prossimi mesi per tornare ad issare i loro stendardi in tv. Vuoi che non ci sia un concetto, una frase, un avverbio a cui aggrapparsi. Ma sarà solo questioni di auditel e non di giustizia.
Proprio come per la storia senza verità della piccola Denise, scomparsa la mattina del 1° settembre 2004 mentre giocava in strada, davanti alla sua casa di Mazara del Vallo. L’indecorosa messinscena di un’emittente televisiva russa ha ridato fiato al circo mediatico-giudiziario made in Italy. Prima dell’estate è apparsa sul piccolo schermo una ragazza, Olesya Rostova, spacciata senza pudore per Denise. Hanno trasformato il dolore di una madre, Piera Maggio, in un thrilling a puntate, rinviando il più scontato dei finali: non si trattava della bambina siciliana che nel frattempo è diventata donna. Tutti a scandalizzarsi in casa nostra, a prendere le distanze dalla tv trash. Eppure nel frattempo, così scrivono i pubblici ministeri nella richiesta di archiviazione, in Italia montava “la suggestione e la pericolosa interazione dei media con l’indagine in corso”.
Il circo mediatico ha finito per sostituirsi alle forze dell’ordine e ai magistrati con risultati imbarazzanti. Mattina, pomeriggio e sera: sulle reti nazionali impazzano i talk show. Gli inviati battono ogni centimetro quadrato di Mazara del Vallo a caccia dello scoop. Saltano fuori piste e nuovi testimoni. Si grida al complotto e ai depistaggi. Le trasmissioni si contendono Maria Angioni, il pubblico ministero che per primo si occupò del caso. Oggi lavora lontano dalla Sicilia, racconta di anomalie investigative accadute nel 2004, sotto i suoi occhi di pm titolare del fascicolo. I pm la convocano e le sue dichiarazioni vengono bollate come false, tanto da essere finita sotto processo. Avrà tempo e modo di fare valere le proprie ragioni. Ed è in questo contesto che, scrivono i pubblici ministeri, “mitomani d’ogni sorte e personaggi in cerca d’autore, purtroppo, si inseriscono indebitamente in questa vicenda ed è forte il rischio che persone del tutto innocenti vengano consegnate all’opinione pubblica come mostri da sbattere in galera”.
Angioni non ha smesso di cercare Denise. Rintraccia prove e indizi sul web. Fa parte di una chat nella quale a un certo punto una donna ha scritto di avere visto Denise allontanarsi sullo scooter di Giuseppe Della Chiave il giorno del rapimento. Almeno stavolta la bufala è stata smascherata subito, visto che l’avvistamento era collocato a Pescara. Insomma sarebbe servito un motorino volante o meglio il teletrasporto.
Domanda e offerta si incrociano alla perfezione nella televisione del dolore. C’è chi cerca una notizia inedita e chi è pronto ad offrirla. Con l’aggravante di essere disposto a tutto, anche a mentire, pur di ritagliarsi un ruolo in una vicenda che non gli appartiene e da cui la lucidità dovrebbe tenerlo lontano. Ma è proprio la lucidità che si è persa. I media non raccontano gli eventi, non li scoprono con meritevoli inchieste, ma li provocano rimestando sugli argomenti. Come nel caso della coppia di turisti romani che irrompe all’improvviso sulla scena. I talk show parlano da giorni dell’hotel Ruggero II. E’ l’albergo dove all’epoca dei fatti lavorava Anna Corona, diventato uno dei luoghi del mistero, nonostante tutto ciò che avvenne lì, diciassette anni fa, sia stato scandagliato nelle vecchie inchieste e nei processi celebrati. Le telecamere si accendono, i criminologi hanno lasciato le poltrone degli studi televisivi o dei salotti di casa con le belle librerie a fare da sfondo. Adesso sono collegati in diretta dall’albergo. Non è un caso, qualcosa ribolle. Ed ecco spuntare i testimoni, marito e moglie. Quel maledetto giorno di settembre di diciassette anni fa alloggiavano nell’hotel. Ricordano ogni dettaglio. La donna era scesa nella hall per chiedere degli asciugamani puliti. Sentì urlare una voce femminile: “Perché l’hai portata qui?”. Parlava in dialetto ma, come d’incanto, lei che è romana riusciva a comprendere il siciliano. Chi e cosa era stata portata in hotel? In sottofondo c’ero lo straziante pianto di una bambina. D’un tratto la mano di una donna ha aperto la tenda che separava la hall dalla stanza sul retro. Il pathos aumenta, costringe i famelici ad andare oltre. Era la mano di Anna Corona e accanto a lei c’era la piccola Denise. Nessun dubbio, nessuna esitazione. La donna ha riconosciuto i volti mostrati dalla televisione. La svolta che tutti sperano arriva da un’allegra famiglia, c’erano anche i figli, in vacanza in Sicilia, e viene annunciata urbi et orbi. Perché tacere particolari così rilevanti per tutti questi anni? La risposta della turista è da manuale sociologico: “Questa consapevolezza è sorta nell’ultimo mese, a seguito del martellante riferimento al rapimento di Denise Pipitone da parte dei media che non fanno altro che enfatizzare adesso proprio talune delle circostanze di cui io sono stata testimone oculare”.
Testimone oculare dalla memoria cortissima, dunque. Le certezze vacillano. Basta tracciare bancomat e carte di credito per scoprire che il giorno in cui diceva di trovarsi in vacanza in Sicilia la donna era a fare la spesa in un supermercato a Roma. Quando viene riconvocata dai pubblici ministeri confessa di essersi inventata tutto: “Ho maturato un grosso dispiacere per il sequestro della bambina e ne ho fatto un caso personale. Sono stata martellata da trasmissioni televisive che non fanno altro che parlare del sequestro di Denise e ho ritenuto che fosse giusto fare quello che ho fatto”.
Giusto per chi? Per la legge del gossip e della morbosità, che fa del dolore un sentimento da manipolare. La frase che chiude il verbale di sommare informazioni è tranciante: “Non so per quali ragioni mi sono inventata una storia che non sta in piedi. Sono dispiaciuta per quello che è successo e andrò da uno psicologo per verificare le cause di quanto accaduto”. E’ un corto circuito quello in cui è piombata la donna. La mente si popola di storie, fantasmi e colpevoli. La manipolazione dell’opinione pubblica è compiuta. Qualcuno, però, almeno stavolta non ha scimmiottato la grande impostura.