IL FOGLIO DEL WEEKEND
Cinema e teatri a piena capienza, ma finora politici ed esperti sono stati troppo paternalisti
Durante questa pandemia molti scienziati hanno avuto fretta di schierarsi a favore di misure sprovviste di giustificazione sperimentale. E la classe politica spesso li ha seguiti. Ma la frase "ce lo chiede la scienza" è apodittica e per essere pronunciata richiede un'adesione fideistica
Questa settimana finalmente cinema e teatri hanno potuto ricominciare a operare a piena capienza. Ogni tentativo di apertura, parziale o più ambiziosa che fosse, ha trovato una forte ostilità nei mesi scorsi da parte di gruppi ed esponenti politici che si sono nascosti dietro gli “scienziati”. L’idea che le persone comuni hanno maturato di quanto avvenuto in questi mesi è probabilmente che il pensiero scientifico sia intrinsecamente paternalista: che gli scienziati sappiano cosa è meglio per noi, e si appellino ai politici affinché ce lo impongano. Gli scienziati probabilmente sono d’accordo. Purtroppo, gli effetti non tardano a manifestarsi. Se si presta un po’ di attenzione alla retorica impiegata da NoVax/NoGreenPass, si osserva però sin da ora un effetto preoccupante. In questi mesi ha prevalso un racconto per cui “la scienza” prescriverebbe, a priori, comportamenti prudenti e in buona sostanza contrapposti a un complesso di altri fattori (dall’economia al desiderio di divertimento dei giovani) considerati essenzialmente irresponsabili e in qualche modo frivoli.
Siamo implicitamente tornati a una delle più antiche metafore della storia del pensiero: quella che distingue nettamente ragioni della “mente” e ragioni del “corpo”, le seconde grasse e volgari, essenzialmente peccaminose, le prime pure e intellettuali. E’, a veder bene, un ritorno a Platone, il quale era sicurissimo che una polis, per essere sicura e felice, dovesse “distribuire onore e disonore nel modo giusto. E il modo giusto è di mettere i beni dell’anima prima e più in alto nella scala […] e di assegnare un secondo posto ai beni del corpo; e il terzo posto a soldi e proprietà” (Le leggi). Prima la scienza, poi, al limite, le istanze di socializzazione dei ragazzi, e da ultimo le “ragioni dell’economia”. Se dobbiamo stare a come si struttura, ancora in questi giorni, il dibattito pubblico su Covid-19, gli scienziati, specialisti sovente di tutt’altre discipline solo tangenzialmente legate allo sviluppo della situazione pandemica, sembrano essere convinti di avere conoscenze speciali e decisive in generale per decidere della pandemia, e ritengono che la decisione politica debba adattarsi alle loro previsioni e prescrizioni. Chi li contraddice è contro la scienza, e rischia il linciaggio di chi pensa che la scienza sia un sistema monolitico di credenze dogmatiche.
Uno scienziato politico come Robert Dahl nel suo libro “La democrazia e i suoi critici” (1989) ha usato la teoria cognitivista sulla razionalità limitata per delegittimare ogni appello a una presunta razionalità totalizzante a cui avrebbero accesso gli scienziati in virtù delle loro competenze. Per carità, è chiaro che gli scienziati hanno a disposizione alcune conoscenze scientifiche rilevanti per quanto sta avvenendo; a differenza delle persone comuni sanno qual è la differenza fra un virus e un batterio, ma in molti casi le loro sono conoscenze di carattere generale, e non sanno nulla di preciso (non è questione di ragionare solo sulla diffusione del contagio, per esempio, ma di un contagio che avviene in un certo modo in un certo contesto e non di altri) e avanzano semplicemente tesi più o meno plausibili, che comunque dovrebbero e dovranno essere sottoposte a un vaglio critico. In qualche modo, essi presumono che i loro concittadini, che scienziati non sono, non saranno in grado di “controllare” i propri “impulsi”, che li conducono pressoché naturalmente verso il pericolo e la malattia indipendentemente dalle indicazioni che vengono loro date. Non entra, in questo quadro, nemmeno la possibilità che i singoli individui possano provare, ciascuno con le conoscenze imperfette di cui dispone, a pensare a quali rischi sia opportuno prendere e nemmeno che possano emergere per così dire “dal basso”, confusamente e senza essere guidati da nessuno leader intellettuale, euristiche e strategie di comportamento che vengono alle prese col virus. Gli esperti si piccano di padroneggiare tutte le discipline ma si tengono alla larga dalla storia, che insegnerebbe loro che tenere la distanza o mostrare ribrezzo verso malati e malattie sono tattiche pre-razionali, e neppure intenzionali, le quali però allontanano dalle infezioni le persone, forse più efficacemente di quanto facciano le prediche ben intenzionate dei medici. Potrebbe essere a causa della scarsa attenzione che la politica ha manifestato in passato per la scienza che, durante la pandemia, la comunità scientifica italiana non ha fatto onore alla funziona sociale e culturale che la scienza da sempre svolge in occidente, quale motore di libertà. Ma non è solo in Italia, che la “scienza” è stata comunicata o usata più come una religione, che come un sapere critico e trasparente.
Esattamente come lo scienziato segue regole e procedure nel confronto con i suoi pari, nelle arene più proprie della ricerca e del dibattito scientifico, dovrebbe capire che esistono delle buone prassi da seguire anche quando si entra in contatto con la pubblica opinione. La maleducazione fa ormai parte della retorica politica, ma non necessariamente è una buona scelta per chi deve ragionare su un’emergenza sanitaria. Nei mesi scorsi e tuttora, sono assai frequenti atteggiamenti poco rispettosi delle persone comuni da parte di scienziati, che irridono o peggio chiunque sia esitante a vaccinarsi, senza capire che molti di costoro sono solo persone semplici, bersagliate da messaggi contraddittori (e influenzate da amici e parenti che sono i più ascoltati nella comunicazione sui rischi sanitari), che devono elaborare incertezza e paura, e sarebbero gestibili da una comunicazione adeguata, basata su simpatia e fiducia, con un medico. Ahiloro e ahinoi, durante la pandemia, gli scienziati sono caduti essi stessi vittime dei più scontati bias di senso comune. Spesso si sono schierati con grande sicurezza a favore di misure che non avevano una giustificazione sperimentale. Le comunicazioni contraddittorie sono continuate e il problema ovviamente non sono le informazioni incomplete, il fatto che a un certo punto non si sapesse o gli esperti non sapessero come stavano le cose – sbagliare è normale di fronte a fatti molto complessi – ma che malgrado questo andassero in televisione giusto per apparire e contraddirsi. Inoltre, nel caso delle decisioni sulle percentuali di riempimento sono state prese decisioni a loro volta contraddittorie senza alcuna trasparenza.
Ci si chiede in base a quale criterio siano state così a lungo penalizzate le discoteche e perché nelle indicazioni del Cts pur al 35 per cento (portato al 50 per cento dal governo) e con l’obbligo di green pass ci si può togliere la mascherina solo sulla pista da ballo ma la si deve calzare quando ci si muove nel resto del locale. Qualche settimana fa John Ioannidis, il quale è stato oggetto di critiche per aver scritto che larga parte delle decisioni prese contro la pandemia erano arbitrarie o non supportate da prove di efficacia, ha pubblicato un saggio nel quale sostiene che i valori mertoniani della scienza sarebbero stati cancellati durante la pandemia. Il suo articolo ha trovato risalto in Italia, visto che si tratta di una requisitoria contro una presunta deriva della scienza condizionata da interessi personali e privati, ovvero rifiuto dello scetticismo, della condivisione e dell’universalismo come valori che possono promuovere una ricerca sana. In realtà le cose sono un po’ più complesse. Come sanno quasi tutti coloro che hanno studiato un corso di base di Sociologia della scienza, nel 1942, il sociologo Robert Merton, sulla base dei suoi studi della scienza in contesti storici diversi, cioè in ambiti democratici e totalitari, scriveva che l’ethos dello scienziato, per cui la sua attività concorre al progresso conoscitivo, si fonda su quattro pilastri che formano l’acronimo CUDOS (Communalism, Universalism, Disinteredness, Organized Skepticism). Si trattava di un’etica che valorizzava inclusivamente la creatività e la comprensione scientifica nel lavoro di ricerca.
Con la diffusione della Big science ha preso forma una scienza cosiddetta post accademica, che sarebbe permeata da un ethos che John Ziman ha racchiuso nell’acronimo PLACE (Proprietary, Local, Authority, Commissioned, Expert), ovvero influenzata da condizionamenti personali, gerarchici, politici e industriali. L’ecosistema nel quale si formano le scoperte scientifiche è più complesso: nel bene e nel male. Pochi anni dopo il saggio di Merton, il presidente Eisenhower temeva che, in un mondo nel quale l’inventore solitario era stato soppiantato da grandi laboratori di ricerca e le libere università diventavano sempre più mostri burocratici, al punto che “un contratto pubblico diventa praticamente un sostituto della curiosità intellettuale”, le politiche pubbliche potessero essere “catturate” dall’élite scientifica. Ma la scienza post accademica non coincide solo con gruppi che cercano di drenare risorse pubbliche a proprio vantaggio (che pure, esistono). Essa è anche un arcipelago di istituzioni differenti, non più legate necessariamente alle norme mertoniane e neppure a un certo cliché del ricercatore, tipicamente universitario, che consentono di recepire e intercettare stimoli, necessità e, perché no, idee anche da parte di altri attori sociali.
Il guaio è che forse i primi a non accorgersene sono gli scienziati stessi, i quali operano in questo ecosistema nuovo e complesso ma continuano a pensare la scienza e il proprio ruolo con cliché vecchi quanto la Storia della filosofia. Il controllo della pandemia è venuto da una serie di sinergie creative fra industria farmaceutica e ricerca o finanziamenti dal fronte pubblico, che hanno prodotto a “velocità curvatura” (Warp Speed), una serie di vaccini, di cui quattro approvati per sicurezza ed efficacia. L’idea che si potesse fare anche meglio senza l’industria è un bias del senno di poi, ma molti scienziati ci tengono a dire che alla fine Big Pharma è guidata dal profitto, che questo non è bene, che il vaccino è un bene comune, etc. Si tratta di pensieri e intenzioni buone, ma sono altrettanto una buona cosa le preghiere o la carità, che tuttavia come cure hanno un’efficacia relativa. L’idea che gli scienziati tendono ad avere di sé stessi come sacerdoti di un rito esoterico e allo stesso tempo democratico è discutibile, così come lo sono affermazioni apodittiche come “lo dice la scienza”, che paradossalmente richiede così un’adesione fideistica. Dan Kahan, psicologo forense a Yale e uno dei massimi studiosi della comunicazione, si è chiesto se le persone intelligenti sono un pericolo per la democrazia. Il suo argomento non coincide con quelli di Dahl, ma si basa sul fatto che in tutti gli esperimenti che ha effettuato, quando le persone si trovano di fronte a questioni politicamente controverse in America (cambiamento climatico, vaccinazioni, controllo delle armi, etc.) si osserva che gli scienziati ricorrono al ragionamento motivato più delle persone comuni. Vale a dire che gli scienziati manipolano i dati per piegarli ai loro pregiudizi, più delle persone comuni. La sua conclusione è che si deve proteggere la scienza dagli ambienti che la inquinano trascinandola in controversie.
La comunicazione della scienza non dovrebbe mirare a una “alfabetizzazione scientifica”, ma a evitare che gli scienziati possano alterare, supportando pregiudizi e ragionamenti motivati, il quadro delle conoscenze generali, che è necessario per un buon funzionamento della democrazia. Molto spesso in questi mesi qualsiasi nuova limitazione alla libertà è stata giustificata dicendo che, in uno Stato di diritto, esistono numerosissimi vincoli alla nostra libertà. Questo è vero: ma si tratta, o si dovrebbe trattare, di vincoli che in qualche modo consentono una “eguale libertà”, la più ampia azione possibile dell’uno compatibile con quella dell’altro. Si tratta anche di vincoli al potere arbitrario, che è la maggiore minaccia alla libertà di ciascuno: è ciò che mette in discussione la possibilità di immaginare, ognuno di noi, il suo percorso di vita, le sue decisioni giuste o sbagliate ma sue, nel momento in cui un’autorità esterna può, con un tratto di penna, scegliere al suo posto.
Lo stato di diritto si basa, come molti concetti scientifici, su un’idea controintuitiva: quella per cui la libertà emerge dai vincoli in modo spontaneo e autoregolato, se il diritto è imparziale e i cittadini sono uguali davanti alla legge. E’ quello che avveniva nella scienza anche prima che nella società in generale: senza un potere sovraordinato, l’arbitrio messo al bando e tutti gli attori che si impegnano a rispettare la logica e le prove. Sarebbe paradossale e tragico se la scienza, che ha forse ispirato il modello dello stato di diritto, diventasse strumento per imposizioni politiche anche arbitrarie. Storicamente questo ruolo lo ha sempre svolto la pseudoscienza, soprattutto nei regimi totalitari, mentre nelle democrazie liberali, come nella scienza, le procedure prevalgono, per tutti, sull’arbitrio.