IL FOGLIO DEL WEEKEND
La scrittura del caos: intervista a Colum McCann
Raccontare le vite altrui attraverso il romanzo, senza offendere nessuno. E poi la potenza del linguaggio che sfida Israele e Palestina, l’Afghanistan e quella fotografia di James Foley. Una chiacchierata con lo scrittore statunitense
A metà della conversazione, mentre il sole cala sul giardino di Mantova facendolo diventare arancione, Colum McCann posa lo sguardo sul bordo del tavolino a cui siamo seduti e dice: “Devo raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta da nessuna parte, non tutta quanta”. Tra questa e la frase che segue passa un secondo, forse meno, ma è un tempo lunghissimo in cui mi preparo ad ascoltare. Sono tanti i pensieri che possono farsi strada dentro un secondo: quello che mi attraversa la testa prima che lui ricominci a parlare è uno stormo di uccelli migratori.
“Scriverò di James Foley”. Gli chiedo di ripetere. Quel James Foley, il giornalista americano decapitato dall’Isis in Siria? “Sì. In un paio di occasioni ho detto che vorrei scrivere di sua madre, ma la verità è che voglio scrivere anche di James. Poco dopo il suo assassinio, nel 2014, vidi una foto in cui leggeva ‘Questo bacio vada al mondo intero’”. Il libro è quello con cui McCann vinse il National Book Award nel 2009: un romanzo corale composto da una serie di racconti con protagonisti assai diversi l’uno dall’altro (un missionario irlandese emigrato nel Bronx, una prostituta di nome Tillie, una donna ricca dell’Upper East Side che ha perso un figlio nella guerra del Vietnam…), e che però ruotano tutti attorno a un evento ben preciso accaduto nel 1974, ovvero la camminata del funambolo Philippe Petit tra le Torri Gemelle. Nel testo l’11 settembre 2001 viene nominato solo una volta e per caso, eppure l’opera ne è una grande allegoria, ed è ovviamente ispirata a quel momento (il suocero di McCann, tra l’altro, è uno dei sopravvissuti).
“James Foley fu catturato poco dopo quello scatto. Quando l’ho visto è stato come se avessero risucchiato l’ossigeno dalla stanza. Non te lo sto raccontando per dirmi bravo, bravo perché leggeva il mio libro, ma perché sono rimasto molto colpito, ho pianto, per un po’ non ho più dormito”. Siamo entrambi commossi e ci fermiamo un istante per bere un bicchiere d’acqua. Che bella la luce di Mantova, diciamo; quante cose da guardare in questo giardino. Ci sono dei ragazzi che vanno avanti e indietro in bicicletta sulla ghiaia, io ho paura che il rumore possa coprire le sue parole e gli avvicino il registratore, ma quando lui riprende il filo loro scompaiono e tutto torna silenzioso, come per magia. “Dopo qualche tempo ho mandato una lettera alla madre di Foley, le ho detto che mi sarebbe piaciuto scrivere di lui, magari anche di lei: non le è mai arrivata. Alla fine ho scritto ‘Apeirogon’, cioè una cosa completamente diversa”. “Apeirogon” (uscito da poco per Feltrinelli nella traduzione impeccabile di Marinella Magrì, che ha tradotto anche i suoi precedenti) è un libro in effetti molto diverso anche da “Questo bacio vada al mondo intero”, per ambientazione e per tutto: è la storia vera di due padri, uno israeliano e uno palestinese, le cui figlie sono vittime di un attentato a dieci anni di distanza l’una dall’altra. Funziona come una sorta di opera mondo: è diviso in mille e uno canti in omaggio a “Le mille e una notte”, che secondo Borges era il grande poema senza fine dell’umanità, e narra la vicenda da più punti di vista possibili, come suggerisce il titolo (l’apeirogon è un poligono con un numero infinito di lati, e su due di questi a un certo punto ricompaiono anche Philippe Petit e George J. Mitchell, il diplomatico di TransAtlantic). “Insomma, un giorno sono stato invitato a parlare di ‘Apeirogon’ nella scuola che Foley aveva frequentato da ragazzo, e mi hanno detto: sai che c’è una foto di lui che legge ‘Questo bacio vada al mondo intero’? E io ho detto che sì, lo sapevo, che tengo appesa la foto sulla porta del mio ufficio, e che tutte le sere lo saluto prima di uscire”.
Quel libro è stato pubblicato dodici anni fa, e ha portato con sé cose incredibili, cambiando la tua vita e quella della tua famiglia. Cosa provi nei suoi confronti? Ti senti un’altra persona o in fondo potresti riscriverlo domani? “Ci penso con molto affetto e mi sembra impossibile che siano passati dodici anni, ma sono anche convinto che se domattina andassi a fare un giro nel South Bronx incontrerei Tillie. Certo, viveva nel 1974 ed era un personaggio inventato, però per me è ancora viva. Potrei rifarlo uguale? Non lo so. Credo che certe cose, per come le ho scritte, in questo clima culturale non sarebbero più possibili. Per esempio scrivere nella voce di una prostituta nera di trentotto anni, Tillie appunto. Dubito che oggi mi sarebbe consentito. E questo mi mette addosso una grande tristezza. Non voglio aprire un dibattito sull’appropriazione culturale, ma vorrei dire una cosa: non tutto è mancanza di rispetto, esiste anche una forma di celebrazione delle vite altrui che non va temuta, che viene dall’ascolto e che fa parte della libertà creativa. Mi ero impegnato molto per raggiungere quella voce e penso mi sia riuscita bene. E so che è ancora dentro di me, da qualche parte”. Come l’avevi raggiunta? “Ho fatto ricerche per mesi, letto centinaia di articoli di cronaca, passato le notti ad andare in giro nel Bronx a parlare con tutti: con gli ubriachi, con le prostitute, con la polizia, cercando di capire come potesse esprimersi lei. Tutto viene dal linguaggio, anche i personaggi. Pensa all’Ulisse di Joyce: in fondo cos’è? E’ una giornata nella vita di un uomo che cammina per Dublino, eppure diventa un compendio dell’esperienza umana. Il linguaggio è musica, e la musica è più importante del significato. Con la lingua cerchiamo di capire cosa vuol dire essere qualcun altro, o essere in un altro tempo e in un altro luogo, e questa è un’azione magica. A volte mi immagino come una macchina fotografica della lingua: voglio che il mio lettore sia dentro quell’apparecchio e si muova con me, e che tutte le luci, le ombre e le sfumature che da lì si possono percepire trovino spazio”. In “Apeirogon” dici che Rami Elhanan, uno dei due protagonisti, dentro di sé ha nove o dieci israeliani che combattono tra loro. Quanti Colum McCann ci sono dentro di te e quanti di loro sono irlandesi? “E’ un pensiero fantastico e anche una domanda a cui non so rispondere. Ma proviamoci. Gli irlandesi che ho dentro sono un gruppone: il selvaggio, il nevrotico, il silenzioso; il dublinese e quello della contea di Derry che è la contea di mia madre nell’Irlanda del Nord; poi ci sono l’irlandese pazzo e quello canterino. Ma ho in me anche molta New York”. McCann si è trasferito a New York nel 1994, e lì vive tuttora, con la moglie e i tre figli. Gli chiedo quale sia la sua ora preferita in quella città dove la luce cambia continuamente. “Direi la mattina presto, quando il chiarore inizia a farsi spazio nel cielo. E anche il crepuscolo, l’ora magica in cui le luci collidono le une con le altre”. Che bel modo di dirlo: si torna al linguaggio che porta avanti le cose. “In irlandese c’è una parola stupenda per quel momento dopo il tramonto in cui l’oscurità a poco a poco si espande: gloaming”. Lo scrive su un foglio di carta, cancella, lo scrive meglio. “E’ l’ora in cui escono gli spiriti. E ha assolutamente a che fare con il mio mestiere: ovvero la luce, il buio, e il caos che c’è in mezzo”. Questa sugli spiriti è una risposta che potrebbe dare solo un irlandese. “Credo di sì. E’ una cosa che ci influenza molto. Quei momenti di confine sono anche le ore in cui mi sento più vivo e più lucido”.
Anni fa avevi contribuito al primo numero della rivista letteraria Freeman’s, intitolato “Arrival”, con un breve saggio, stupendo, in cui scrivevi: “Se condensiamo la nostra vita come un liquido sul fuoco, l’unica cosa che non possiamo far evaporare è il nostro paese d’origine”. Ecco, mi piacerebbe sapere quali sono i modi, le piccole cose, in cui senti che l’Irlanda da te non evaporerà mai. “Be’, è che proprio non evaporerà mai. In questo penso di somigliare a Joyce, anche se è pericoloso paragonarsi a Joyce, ma ecco, lui diceva: ‘Sono stato via dall’Irlanda talmente a lungo che adesso sento la sua voce in ogni cosa’. A volte penso di essermene andato per poterla ricordare; e che se fossi rimasto, forse, non le vorrei bene come gliene voglio ora”.
A ventun anni, nel 1986, McCann partì in bicicletta da Cape Cod, in Massachusetts, con la sua ragazza dell’epoca; da lì arrivarono in Florida e poi a New Orleans, dove per mantenersi lavorarono come camerieri in un ristorante affacciato sul Mississippi. Si lasciarono poco dopo. Lui racconta di non averla più sentita, ma che negli anni ogni tanto l’ha pensata. Nel frattempo era già ripartito alla volta del Texas, del Messico, e poi di nuovo su, fino al New Mexico e alla California. “Il giro durò un anno e mezzo e io mi aprii al mondo. Se fossi tornato a Dublino avrei potuto lavorare come giornalista e sarebbe andato tutto bene: magari adesso avrei una bella vita anche là, chissà, ma invece decisi di fare questa cosa pazza, e sono tante le persone che all’epoca non mi capirono. Io però dovevo andare, dovevo fare, e sentivo che era giusto così”. Perché hai deciso di rimanere in America anche dopo? “Perché ho incontrato quella che poi è diventata mia moglie ed è accaduta la vita. A un certo punto ci siamo anche trasferiti in Giappone per diciotto mesi”. Come vi siete incontrati? “A Long Island. E’ andata così: finito il viaggio in bicicletta, andai in Texas a lavorare in un carcere minorile. Nel frattempo scrissi due romanzi orribili, orrendi, che non sono mai stati pubblicati. Uno si intitolava ‘Zio Saccarina’ e l’altro ‘I lama delle terre selvagge’, titoli terribili e libri ancora peggio. Li mandai comunque a degli editori, e c’era un agente a New York che si mostrò vagamente interessato. Comunque eccomi in Texas, povero in canna, ma a un certo punto un amico irlandese mi propose di andare con lui a Long Island dove un altro suo amico aveva una casa e gli aveva detto: vieni quando vuoi, porta chi vuoi. E io accettai. Il bello degli americani è che sono molto generosi in questo senso, molto aperti. E insomma andai e la conobbi lì, perché lei è di lì. Poi sono tornato in Texas e per un anno e mezzo è stata una storia a distanza, anche se ci scrivevamo lettere quasi tutti i giorni. Alla fine si è trasferita da me e ci siamo sposati. Ma se a ventun anni mi avessero detto che sarei rimasto negli Stati Uniti, o che un giorno sarei stato in questo giardino di Mantova a farmi intervistare… Com’è successo? Se uno ci pensa, è incredibile dove va l’esistenza”. Forse c’è una traiettoria segreta, solo che nessuno la sa in partenza. E proprio la traiettoria è un elemento fondamentale nei libri di McCann: che si tratti di Philippe Petit che cammina su un filo teso tra due punti, o degli stormi di uccelli che migrano nei cieli del medio oriente descritti all’inizio di “Apeirogon”. Gli chiedo se c’è qualcuno a cui fa leggere ciò che scrive mentre lo sta scrivendo: chi è che lo aiuta, nel caso, ad aggiustare il tiro. “Una volta era mio padre, fino a prima che morisse, sei anni fa”. Suo padre Sean fu calciatore e in seguito giornalista sportivo. Nell’archivio del New York Times è conservato l’annuncio del matrimonio di Colum con la moglie Allison, che si sposarono quando avevano ventisette e venticinque anni rispettivamente. In questi annunci, un vezzo frequente nelle famiglie bene della costa Est degli Stati Uniti (come quella di lei, che appunto viene da Long Island), di solito si cita qualche elegante elemento biografico; da lì si legge che il padre della sposa è socio in uno studio legale di New York (e sarà quel padre che l’11 settembre riuscirà a sopravvivere all’attentato alle Torri Gemelle e, sotto choc e ricoperto di cenere, percorrerà a piedi il lungo tragitto dalle torri fino a casa di Colum e Allison nell’Upper East Side). Si legge anche del padre di Colum, e quelle righe del 1992 dicono: “Oggi in pensione, è stato reporter per il Dublin Times, e ora scrive libri sulla coltivazione delle rose”.
“Mi è mancato molto confrontarmi con lui mentre scrivevo ‘Apeirogon’. A un certo punto però è venuto da me il mio figlio di mezzo, che all’epoca aveva diciassette anni e adesso ne ha ventuno, e mi ha chiesto se poteva leggere il romanzo a cui stavo lavorando. E lì ho pensato: ecco, questa è una cosa grossa. Dopo un paio di settimane è tornato da me e mi ha detto: ‘Papà, la struttura è un po’ confusionaria, ma capisco perché l’hai immaginato così: vuoi che il lettore si arrenda a questa confusione, così da concentrarsi sulla storia che racconti e non sulle questioni politiche tra Israele e Palestina’. E aveva ragione, ma è lui ad averlo capito, mica io. Quanto alla traiettoria, a me interessa ogni cosa che una storia può contenere. Ultimamente penso molto a quella che la scienza chiama la teoria del tutto. Certo, nel mondo ci sono una serie di forze fondamentali, la gravità, e tante altre cose. Però mi chiedo: c’è la possibilità che una storia, una qualsiasi, possa essere la teoria del tutto? Che ogni cosa possa stare lì dentro? Io credo di sì. Saranno anche gli atomi a tenere insieme il mondo, ma le storie non sono da meno”. Si sta facendo tardi, tornano i ragazzini sulle biciclette. Gli faccio un’ultima domanda. In “Apeirogon” ripeti spesso: quando dividi la morte per la vita trovi un cerchio. Perché? “Nemmeno io so davvero che cosa vuol dire. Ci ho pensato molto negli anni in cui scrivevo il libro, era una frase che mi tornava in mente di continuo: quando dividi la morte per la vita trovi un cerchio. Penso abbia a che fare proprio con le storie, con ogni cosa che viviamo. Se dividi la morte per la vita troverai queste storie, un’immagine dall’alto di tutto ciò che è successo e sta succedendo. Non so bene che cosa significhi e non so neanche se voglio capirlo, ma so che lì dentro c’è una verità, e che mentre quella frase mi tormentava mi sembrava l’unica cosa possibile nell’universo”.
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