Il foglio del weekend
Il coraggio ci salverà dai disastri della cancel culture
Nel 2020 Bari Weiss si è dimessa dal New York Times. Ha accusato il giornale di farsi dettare la linea dagli utenti su Twitter. Ora svela i segreti della Rivoluzione culturale e dei suoi adepti codardi
Questo articolo è apparso sul numero di novembre di Commentary con il titolo “We Got Here Because of Cowardice. We Get Out With Courage”
Molte persone vogliono convincervi del fatto che per essere in grado di capire il movimento woke e la sua visione del mondo serva un dottorato, una laurea in Legge o molto tempo libero da impiegare leggendo densi testi sulla teoria critica. Non è così. Dovete semplicemente credere a quello che vedete e a quello che ascoltate.
Lasciatemi fare una breve introduzione sulle convinzioni di base della rivoluzione woke, piuttosto chiare a chiunque sia disposto a guardare oltre gli hashtag e il gergo. Si comincia con lo stabilire che le forze della giustizia e del progresso sono in guerra con l’arretratezza e la tirannia. E in questa guerra le normali regole del gioco devono essere sospese. Di certo questa ideologia sosterrebbe che quelle regole non sono solo ostacoli alla giustizia, ma veri strumenti di oppressione: gli strumenti del padrone. E gli strumenti del padrone non possono smantellare la casa del padrone. Quindi quegli stessi strumenti non basta sostituirli, ma vanno ripudiati. E così facendo, la persuasione – cioè lo scopo dell’argomentazione – è sostituita dalla gogna pubblica. La complessità morale è sostituita dalla certezza morale e i fatti sono sostituiti dai sentimenti. Le idee sono sostituite dall’identità. Il perdono è sostituito dalla punizione. Il dibattito è sostituito dalla diretta cancellazione dei contenuti. La diversità è sostituita dall’omogeneità di pensiero. L’inclusione dall’esclusione.
In questa ideologia, la parola è violenza; ma la violenza, quando è esercitata dalle persone giuste nel perseguimento di una giusta causa, non è per niente violenza. In questa ideologia, il bullismo è sbagliato, a meno che tu non stia bullizzando le persone giuste; in quel caso è molto, molto giusto. In questa ideologia, l’educazione non consiste nell’insegnare alle persone il pensiero critico, ma nel rieducarle a cosa pensare. In questa ideologia, il bisogno di sentirsi al sicuro batte il bisogno di parlare sinceramente. In questa ideologia, se non fai il tweet giusto o non condividi lo slogan giusto, tutta la tua vita potrebbe essere rovinata. Basta chiedere a Tiffany Riley, preside di una scuola del Vermont che è stata licenziata perché ha detto che sostiene la causa dei neri ma non l’organizzazione Black Lives Matter.
In questa ideologia, il passato non può essere capito da solo, ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. E’ il motivo per cui le statue di Grant e Washington vengono tirate giù ed è il motivo per cui William Peris, docente della Ucla e veterano dell’Aeronautica, è stato indagato per aver letto in classe, ad alta voce, la “Lettera dalla prigione di Birmingham” di Martin Luther King.
In questa ideologia, le intenzioni non contano. Questo è il motivo per cui Emmanuel Cafferty, un operaio ispanico della San Diego Gas and Electric, è stato licenziato per aver fatto quello che qualcuno credeva fosse un gesto della mano da suprematista bianco – in realtà si stava scrocchiando le dita fuori dal finestrino della sua auto.
In questa ideologia, le pari opportunità sono sostituite dall’uguaglianza del risultato, usato come metro della correttezza. Se tutti non finiscono una gara allo stesso tempo, allora deve essere il percorso a essere difettoso. In pratica, l’argomentazione per sbarazzarsi dei test attitudinali per i college. O dei test di ammissione per le scuole pubbliche come la Stuyvesant di New York o la Lowell di San Francisco.
In questa ideologia, siete colpevoli per i peccati dei vostri padri. In altre parole: voi non siete voi. Siete solo un misero avatar della vostra razza o della vostra religione o della vostra classe. Ecco perché ai bambini di terza elementare di Cupertino, in California, è stato chiesto di valutare se stessi in termini di potere e privilegio. In terza elementare.
In questo sistema, siamo tutti collocati ordinatamente su una scala che va da “privilegiato” a “oppresso”. Siamo classificati da qualche parte su questa scala secondo diverse categorie: razza, genere, orientamento sessuale e censo. Poi ci viene assegnato un punteggio complessivo, basato sulla somma di queste categorie. Avere privilegi significa che il tuo carattere e le tue idee sono contaminate. Per questo, mi ha raccontato un liceale di New York, agli studenti della sua scuola viene detto: “Se sei bianco e maschio, se vuoi parlare sei il secondo della fila”. E’ considerata una normale e necessaria redistribuzione del potere.
Il razzismo è stato ridefinito. Non si tratta più di una discriminazione basata sul colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è un qualsiasi sistema che dia esiti diversi tra gruppi razziali. Se esiste una disparità, come ha spiegato il sommo sacerdote di questa ideologia, Ibram X. Kendi, allora è razzismo. Secondo questa nuova visione totalizzante, siamo tutti o razzisti o antirazzisti. Per essere una brava persona e non una persona cattiva, bisogna essere “antirazzisti”. Non c’è neutralità. Non esiste il “non razzista”.
E poi la cosa più importante: in questa rivoluzione, se sei scettico nei riguardi di questa ideologia radicale allora sei un eretico. Coloro che non si attengono a ogni singolo aspetto di questa fede sono additati come bigotti, subiscono boicottaggi e il loro lavoro è sottoposto a un esame politico. L’Illuminismo, come ha detto il critico Edward Rothstein, è stato sostituito dall’esorcismo. Quella che chiamiamo “cancel culture” è in realtà il sistema giudiziario di questa rivoluzione. E l’obiettivo delle cancellazioni non è semplicemente quello di punire la persona che viene cancellata. L’obiettivo è mandare un messaggio a tutti gli altri: fai un passo falso e sei il prossimo.
E ha funzionato: un recente studio del Cato ha rivelato che il 62 per cento degli americani ha paura di esprimere le sue vere opinioni, quasi un quarto degli accademici americani approva l’estromissione di un collega nel caso in cui abbia un’opinione sbagliata su temi come l’immigrazione o le differenze di genere. E quasi il 70 per cento degli studenti è favorevole a denunciare un professore se dice qualcosa che gli studenti trovano offensivo, secondo un sondaggio del Challey Institute for Global Innovation.
Perché così tante persone, e soprattutto così tanti giovani, sono attratti da questa ideologia? Non è perché sono stupidi. Oppure perché sono fragili, o qualsiasi cosa la Fox voglia farvi credere. Tutto questo ha preso piede sullo sfondo dei grandi cambiamenti della vita americana – la lacerazione del nostro tessuto sociale; lo smarrimento della religione e il declino delle organizzazioni civiche; la crisi degli oppioidi; il collasso delle industrie; l’ascesa delle grandi aziende tecnologiche; le successive crisi finanziarie; il discorso pubblico tossico; il debito studentesco soffocante. Un’epidemia di solitudine. Una crisi di significato. Una pandemia di sfiducia. Ha avuto luogo al fondo del declino del sogno americano dentro a quella che sembrava la battuta finale: le disuguaglianze nella nostra presunta equa, meritocrazia liberale truccata a favore di alcune persone e contro altre. E così via.
La Rivoluzione Woke è stata incredibilmente efficace. Si è presa con successo le più importanti e positive istituzioni della vita americana: i nostri giornali. Le nostre riviste. I nostri studios di Hollywood. Le nostre case editrici. Molte delle nostre aziende tecnologiche. E sempre di più il capitalismo americano. Proprio come in Cina sotto il presidente Mao, i semi della nostra rivoluzione culturale si possono rintracciare dentro all’accademia, la prima delle nostre istituzioni a essere stata influenzata. E le nostre scuole – pubbliche, private, parrocchiali – sono sempre di più il terreno di reclutamento di questo esercito ideologico.
Vale la pena raccontare alcune storie. David Peterson è un docente d’arte allo Skidmore College, nord di New York. Nella febbrile estate del 2020 è stato accusato di “avere una condotta odiosa che minaccia gli studenti neri di Skidmore”. Di cosa si trattava? David e sua moglie, Andrea, sono andati ad assistere a una manifestazione a favore di agenti di polizia. “Dati i dolorosi eventi che continuano a svolgersi in tutta la nazione, ci siamo sentiti obbligati ad andare a vedere in prima persona quello che stava succedendo all’interno della nostra comunità”, ha detto al giornale studentesco di Skidmore. David e sua moglie sono rimasti per venti minuti ai lati della manifestazione. Non hanno tenuto in mano cartelli, non hanno partecipato a nessun canto: hanno solo guardato. Poi se ne sono andati per l’ora di cena. A causa del crimine di aver ascoltato, la classe di David Peterson è stata boicottata. E’ apparso un cartello sulla porta della sua classe: “STOP. Se entri in questa classe stai attraversando le transenne del campus e rompendo il boicottaggio contro il professor David Peterson. Questo non è un ambiente sicuro per gli studenti emarginati”. Poi l’università ha aperto un’indagine sulle accuse di pregiudizi dentro a quella classe.
Dall’altra parte del paese, alla University of Southern California, un uomo di nome Greg Patton è docente di Comunicazione aziendale. Nel 2020, Patton stava tenendo una lezione sulle “parole di riempimento”, come “umh” e “like”, per il suo corso sulla comunicazione manageriale. Si è scoperto che la parola cinese con cui si traduce la parola inglese “like” ha un suono simile alla parola che inizia per “n” (nigger, ndr). Gli studenti hanno scritto allo staff e all’amministrazione della scuola accusando il loro professore di “negligenza e disinteresse”. Hanno aggiunto: “Siamo costretti a combattere con la nostra esistenza nella società, sul posto di lavoro e in America. Non dovremmo essere costretti a combattere per la nostra condizione di pace e benessere mentale” a scuola. In un mondo normale, basato su dati di realtà, ci sarebbe solo una risposta a una tale presa di posizione: avete sentito male. Ma non è stata questa. La risposta è stata: “E’ inaccettabile che la facoltà usi in classe parole che possono emarginare, ferire e danneggiare la sicurezza psicologica dei nostri studenti”, ha scritto il preside, Geoffrey Garrett. “Comprensibilmente, questo ha causato grande dolore e turbamento tra gli studenti, e per questo sono profondamente dispiaciuto”.
Una degenerazione che non ha avuto freni neppure nelle scuole superiori. A un training obbligatorio all’inizio di quest’anno nel distretto scolastico unificato di San Diego, Bettina Love, una professoressa che crede che i bambini imparino meglio da insegnanti della stessa razza ha accusato gli insegnanti bianchi di “ammazzare lo spirito dei bambini neri e mulatti”, e li ha esortati a sottoporsi a una “terapia antirazzista per educatori bianchi”.
Le scuole pubbliche di San Francisco non sono nemmeno riuscite ad aprire durante la pandemia, ma il consiglio ha comunque deciso di rinominare 44 istituti – incluse quelle intitolate a George Washington e John Muir – prima di sospendere il progetto. Nel frattempo, uno dei membri del consiglio ha dichiarato che il merito era “razzista” e “trumpiano”.
Di recente, il dipartimento dell’Istruzione dello stato ha inviato agli insegnanti dell’Oregon un programma educativo per insegnanti dal sesto all’ottavo grado chiamato “percorso per un equo insegnamento della matematica” – finanziato dalla Bill and Melinda Gates Foundation. Il programma informa gli insegnanti che, quando insegnano matematica, la supremazia bianca viene fuori se “il rigore scientifico si manifesta solo nella difficoltà”, e se “i problemi inventati e discorsivi vengono usati di più rispetto a quelli puramente matematici tenendo in considerazione le esperienze vissute dagli studenti”.
Un’istruzione seria è l’antidoto a questa ignoranza. Frederick Douglass disse: “L’educazione significa emancipazione. Significa luce e libertà. Significa elevazione dell’anima dell’uomo alla luce gloriosa della verità, l’unica luce grazie alla quale gli uomini possono essere liberi”. Parole altisonanti che sembrano comunicate da una galassia lontana. L’educazione oggi è sempre più dove il dibattito, il dissenso e la scoperta muoiono.
Questo è anche molto sbagliato per i bambini. Perché crea un ambiente ostile per quelli considerati “privilegiati”: i ragazzi sono fin troppo intimiditi per partecipare. Mentre in quelli ritenuti “oppressi” inculca una visione straordinariamente pessimistica del mondo, dove gli studenti sono addestrati a percepire malizia e bigottismo in tutto ciò che vedono. Viene loro negato il diritto di modelli e aspettative identici. Viene loro negata possibilità di credere nelle loro capacità di agire e di avere successo. Come ha detto Zaid Jilani: “Non si può avere potere senza responsabilità. Negare alle minoranze la responsabilità delle proprie azioni, sia buone sia cattive, non farà che negarci il potere che giustamente meritiamo”.
Come siamo arrivati a questo punto? Ci sono molti fattori che determinano la risposta: la decadenza delle istituzioni; la rivoluzione tecnologica e i monopoli che ha creato; l’arroganza delle nostre élite; la povertà; la morte della fiducia. E tutte queste cose dovrebbero essere analizzate, perché se non ci fossero non avremmo né l’estrema destra né i rivoluzionari culturali che stanno diventando così rumorosi in America.
Ma c’è una parola su cui dovremmo soffermarci di più, perché ad essa ci riconduce ogni vittoria del movimento radicale. Questa parola è codardia. La rivoluzione è stata accolta quasi senza resistenza da coloro che hanno titoli come presidente, leader, preside davanti a loro nome. Il rifiuto degli adulti di dire la verità, il rifiuto di dire di no agli sforzi per minare la missione delle loro istituzioni, la paura di farsi una cattiva reputazione e il fatto che questa paura prevalesse sulle loro responsabilità – ecco come siamo arrivati fin qui.
Ognuno di noi ha sicuramente pensato: questi contestatori hanno qualche merito! Questa istituzione, questa università, questa scuola non sempre ha rispettato i suoi principi! Siamo stati razzisti! Siamo stati sessisti! Non siamo stati sempre illuminati! In parte lo riconosco: troveremo un compromesso. Ma questo ragionamento si è rivelato ingenuo come quando Robespierre pensava di poter evitare la ghigliottina.
Pensate a ciascuno degli esempi che ho condiviso qui e a tutto quello che già conoscete. Affinché questa storia finisse diversamente serviva che la persona in carica, il capo, l’amministratore del giornale o della rivista o del college o del distretto scolastico dicesse: no.
E visto che la codardia è ciò che ha permesso tutto questo, allo stesso modo, la forza che può fermare questa rivoluzione culturale è riassumibile in una parola: coraggio. E il coraggio spesso viene dalle persone che non ti aspetti.
Come Maud Maron. Maron è una liberal da sempre, che è sempre andata per la sua strada. Lavorava per Planned Parenthood; era assistente di ricerca alla scuola di Legge di Kathleen Cleaver, l’ex Pantera Nera; e un’osservatrice di sondaggi per John Kerry in Pennsylvania durante le elezioni presidenziali del 2004. Nel 2016, è stata una collaboratrice regolare della campagna di Bernie Sanders. Maron ha dedicato la sua carriera a Legal Aid: “Per me, essere un difensore pubblico è più di un lavoro”, mi ha detto: “E’ ciò che sono”. Ma le cose sono cambiate quando, l’anno scorso, Maron ha parlato appassionatamente e pubblicamente dell’illiberalismo che attanaglia le scuole pubbliche di New York frequentate dai suoi quattro figli. “Sono molto aperta su ciò che sostengo”, mi ha detto. “Sono a favore dell’integrazione. Sono a favore della diversità. E rifiuto la narrazione secondo cui i genitori bianchi sono da biasimare per i fallimenti del nostro sistema scolastico. Mi oppongo alla proposta del sindaco di eliminare i test di ammissione per scuole come la Stuyvesant. E credo che parlare di razza sia razzista e non dovrebbe essere insegnato a scuola”. Ciò che è seguito a questo apparente reato di pensiero è stata una caccia alle streghe del Ventunesimo secolo. Maron è stata calunniata pubblicamente dai suoi colleghi. L’hanno chiamata “razzista, e pure apertamente”. Hanno detto: “Ci vergogniamo che lavori per la Legal Aid Society”. La maggior parte delle persone si sarebbe allontanata e avrebbe trovato tranquillamente un nuovo lavoro. Non Maud Maron. Quest’estate, ha intentato una causa contro l’organizzazione, sostenendo che è stata costretta a lasciare Legal Aid a causa delle sue opinioni politiche e della sua razza, una violazione del Titolo VII della legge sui diritti civili. “La ragione per cui mi hanno perseguitato è che ho un punto di vista diverso”, ha detto. “Questi ideologi hanno cercato di rovinare il mio nome e la mia carriera, e stanno facendo lo stesso con altre brave persone. Non ci sono abbastanza persone che si alzano e dicono: è sbagliato fare questo a un altro. E tutto questo non si fermerà fino a quando non ci sarà qualcuno che si oppone”. Questo è coraggio.
Il coraggio è anche quello di Paul Rossi, l’insegnante di Matematica della Grace Church High School di New York che ha posto delle questioni su questa ideologia durante una riunione Zoom per soli bianchi tra studenti e docenti. Pochi giorni dopo, tutti i consiglieri della scuola sono stati obbligati a leggere un rimprovero pubblico rivolto a lui, a voce alta, a ogni studente della scuola. Non volendo rinnegare le sue convinzioni, Rossi ha raccontato tutto: “So che mettendo il mio nome su questa cosa rischio non solo il mio posto di lavoro ma la mia intera carriera di educatore, perché la maggior parte delle scuole, sia pubbliche che private, è ormai prigioniera di questa ideologia arretrata. Ma essendo testimone dell’impatto dannoso che ha sui bambini, non posso rimanere in silenzio”. Questo è coraggio.
Il coraggio è Xi Van Fleet, una mamma della Virginia che ha subìto la rivoluzione culturale di Mao da bambina e ha parlato al consiglio scolastico della contea di Loudoun in una riunione a giugno. “State addestrando i nostri figli a detestare il nostro paese e la nostra storia”, ha detto davanti al consiglio scolastico. “Essendo cresciuta nella Cina di Mao, tutto questo mi sembra molto familiare.... L’unica differenza è che hanno usato il censo invece della razza”.
Gordon Klein, un professore della Ucla, ha da poco fatto causa alla sua stessa università. Perché? Uno studente gli ha chiesto di valutare gli studenti neri con “maggiore indulgenza”. Lui si è rifiutato, visto che una tale preferenza razziale violerebbe le politiche antidiscriminatorie della Ucla (e forse anche la legge). Ma i responsabili della Scuola Anderson della Ucla hanno lanciato una denuncia per discriminazione razziale contro di lui. L’hanno denunciato, bandito dal campus, controllato le sue email, e alla fine sospeso. Poi è stato reintegrato – perché non aveva fatto assolutamente niente di male – ma ormai la sua reputazione e la sua carriera erano già state gravemente danneggiate. “Non voglio vedere la vita di nessun altro distrutta come hanno cercato di fare con la mia”, mi ha detto Klein. “Pochi hanno la forza d’animo per combattere la cancel culture. Io ce l’ho. Si tratta di mandare un messaggio a ogni meschino tiranno là fuori”.
Il coraggio è Peter Boghossian, che si è recentemente dimesso dal suo incarico alla Portland State University, scrivendo in una lettera al suo rettore: “L’università ha trasformato un bastione del libero pensiero in una fabbrica di giustizia sociale i cui gli unici input sono la razza, il genere e il vittimismo, e l’unico output è la lamentela e la divisione… Mi sento moralmente obbligato a fare questa scelta. Per dieci anni ho insegnato ai miei studenti l’importanza di vivere secondo i propri princìpi. Uno dei miei è quello di difendere il nostro sistema di istruzione liberale da coloro che cercano di distruggerlo. Chi sarei se non lo facessi?”. Chi sarei se non lo facessi?
George Orwell disse che “quanto più una società si allontana dalla verità, tanto più odierà coloro che la dicono”. In un’epoca di bugie, dire la verità è un rischio. E ha un costo. Ma è un nostro obbligo morale. E’ nostro dovere resistere alla folla in quest’epoca di pensiero di massa. E’ nostro dovere pensare liberamente in un’epoca di conformismo. E’ nostro dovere dire la verità in un’epoca di menzogne. Questo coraggio non è l’ultimo o l’unico passo per opporsi a questa rivoluzione – è solo il primo. Dopo di che devono arrivare le valutazioni oneste sul perché l’America era vulnerabile, e un impegno più forte nel ricostruire l’economia e la società in modi che ancora una volta offrono la vita, la libertà e la ricerca della felicità al maggior numero di americani. Ma cominciamo con un po’ di coraggio.
Coraggio significa, prima di tutto, il rifiuto incondizionato della menzogna. Non dire falsità, né su se stessi né su nessun altro, non importa il conforto che ci viene offerto dalla massa. E non accettare le bugie che ti vengono offerte. Se possibile, rifiutate a gran voce le affermazioni che sapete essere false. Il coraggio può essere contagioso, e il vostro esempio può servire come mezzo di trasmissione. Quando vi viene detto che alcune caratteristiche, come la dedizione e la puntualità, sono un’eredità della supremazia bianca, non esitate a confutarlo. Quando vi dicono che le statue di personaggi come Abraham Lincoln e Frederick Douglass sono offensive, spiegate che sono eroi nazionali. Quando vi dicono che per le minoranze in questo paese “nulla è cambiato”, non disonorate la memoria dei pionieri dei diritti civili dandogli ragione. E quando vi dicono che l’America è stata fondata per perpetuare la schiavitù, non prendete parte alla riscrittura della storia del paese. L’America è imperfetta. L’ho sempre saputo, come tutti noi – e gli ultimi anni hanno scosso il mio credo come nient’altro nella mia vita. Ma l’America e noi americani siamo tutt’altro che irredimibili.
Il motto del giornale antischiavista di Frederick Douglass, The North Star – “Il diritto non è di sesso – la verità non è di colore – Dio è il padre di tutti noi e tutti siamo fratelli” – deve rimanere nostro. Possiamo ancora sentire la forza di quel cavo elettrico di cui parlava Lincoln 163 anni fa – quello “in quella Dichiarazione che collega i cuori degli uomini patriottici e amanti della libertà, che collegherà quei cuori patriottici finché l’amore della libertà esisterà nelle menti degli uomini di tutto il mondo”. Ogni giorno sento persone che vivono nella paura nella società più libera che l’umanità abbia mai conosciuto. Dissidenti dentro a una democrazia, che parlano con un linguaggio ambiguo. Questo è ciò che sta accadendo adesso. Cosa succederà tra cinque, dieci, vent’anni, se non parleremo e difenderemo le idee che hanno reso possibile la nostra vita?
Libertà. Uguaglianza. Dignità. Questi sono i valori per cui vale la pena lottare.
Bari Weiss è una giornalista e scrittrice americana, ha lasciato l’incarico nella redazione degli editoriali e delle opinioni del New York Times nel luglio del 2020 e ora ha creato un “baby media”, come lo definisce lei, che si chiama “Common Sense”.