IL FOGLIO DEL WEEKEND

Dalla legge Zan alla corsa per il Quirinale, il paradiso dei franchi tiratori

Francesco Cundari

Guerriglia parlamentare con vista sul Colle. Miseria e nobiltà dei parlamentari che usano e abusano del voto segreto

Forse con la sola eccezione del capo corrente, con il quale del resto ha qualcosa in comune, non c’è figura della politica italiana che goda di una fama più sinistra del franco tiratore. Abituato a muoversi nell’ombra – proprio come il suo quasi omologo di partito – l’ultimo partigiano della libertà parlamentare e della lotta contro ogni vincolo di mandato sa già, prima ancora di cominciare, che gli sarà negato ogni merito e addossata ogni colpa. Comunque vadano le cose, nulla gli verrà riconosciuto, ma tutto gli sarà addebitato. 

Ciò non di meno sa anche di poter contare sulla stima di ogni sincero democratico (se non per lui personalmente, per la sua alta funzione) e sull’odio imperituro di tutti i democratici insinceri, che sono ovviamente molti di più. Un’ostilità che si manifesta nella forma di un’incessante gragnuola d’insulti proveniente da giornali e televisioni di ogni ordine e grado, pronta a ripresentarsi puntualmente tutte le volte, in vista d’ogni occasione importante. A cominciare, naturalmente, dall’elezione del presidente della Repubblica, che è in fondo per i franchi tiratori quello che il congresso rappresenta per le correnti. E così, all’avvicinarsi della scadenza, quando stanno ormai per partire gli inviti al gran ballo del Quirinale, e ogni grande elettore ha già cominciato a provare l’abito buono, la maschera più intonata e il pugnale che meglio si adatta al vestito, ecco ripartire, preventivamente, la solita tiritera ipocrita contro il parlamentare che agisce nell’ombra ed esprime il suo voto sfuggendo al controllo di capigruppo e capi partito. 

Fenomenologia del franco tiratore

Eppure la sua funzione è essenziale, paragonabile a quella di certi fastidiosi insetti, di cui tutti si lamentano, ma senza i quali l’intero ecosistema perderebbe il suo equilibrio, la catena alimentare si spezzerebbe e l’umanità non potrebbe vivere e prosperare. Il franco tiratore, in altre parole, è la zanzara della democrazia. Lo scarafaggio provvidenziale che tutti disgusta e tutti serve con uguale, profonda e immeritata dedizione. E proprio per la ragione che da sempre induce incolti e prepotenti a dirne male: perché fa saltare ogni calcolo e rende impossibile ogni previsione, facendo impazzire i ragionieri della politica e gli strateghi del potere, imbrogliando i loro conti e rimescolando continuamente le carte. Ma a ben vedere non fa altro che evidenziare qualcosa che era già lì. Non crea niente che non fosse già presente sul tavolo della politica e non distrugge nulla che non fosse già morto. 


Questo non significa, naturalmente, che le sue vittorie siano sempre giuste e degne di essere lodate. Al contrario. Autentico guardiano del libero arbitrio, sa che solo conservando e difendendo la stessa possibilità del male è consentito preservare il bene supremo della libertà. Dalle autorizzazioni a procedere per Bettino Craxi nel 1993 al ddl Zan nel 2021, passando per l’elezione di quasi tutti i presidenti della Repubblica dal 1948 a oggi, il franco tiratore dice semplicemente che il re è nudo, che la maggioranza è solo una minoranza presuntuosa, che l’accordo che si voleva imporre – magari anche con le migliori intenzioni del mondo, quasi sempre con le migliori intenzioni del mondo – semplicemente non stava in piedi. Che i ragionieri hanno fatto male i conti.


Resta il fatto, tuttavia, che non tutte le votazioni sono uguali. E certo non tutte meriterebbero di essere effettuate a scrutinio segreto. Nel caso di un voto sulle autorizzazioni a procedere, come fu quello di Craxi, la segretezza è fondamentale, e sarebbe impensabile fare diversamente, da ogni punto di vista: costituzionale, politico, morale. Nel caso del voto sul ddl Zan – che non era nemmeno un voto sul merito, ma sull’ordine dei lavori – si sarebbe potuto e forse anche dovuto evitare. 


Non esiste, insomma, una regola valida sempre e comunque. Un Parlamento in cui ogni decisione venisse presa a voto segreto sarebbe altrettanto inutile e pericoloso di uno in cui ogni decisione venisse presa a voto palese. La democrazia muore nell’ombra, come si dice, ma anche sotto i riflettori degli inquisitori, in quella “casa di vetro” che è non per nulla la formula preferita di tutti i populisti, e corrisponde in verità alla mania del controllo tipica dei sistemi autoritari. La democrazia prospera nella penombra. Fiorisce in un clima mite. Il franco tiratore è la sentinella chiamata a difenderne le mura, soprattutto, dai nemici interni, che vorrebbero smontarle per innalzare templi a se stessi. Nei momenti di crisi, in cui non manca mai di riprendere il fucile e aguzzare la mira, facendo strage di illusioni, leadership e strategie, il franco tiratore finisce così per sobbarcarsi il lavoro più ingrato (quello che tanti dei suoi viziati colleghi, allevati nella bambagia degli studi televisivi, non vogliono più fare). 


Non c’è allora leader politico che non lo additi alla pubblica esecrazione, come esempio supremo di doppiezza e di viltà, come traditore e rinnegato, sfidandolo provocatoriamente a uscire dal nascondiglio e a mostrare il suo volto, con la stesse parole e la stessa sfrontatezza con cui ogni tiranno della storia, quando ha sentito il potere sfuggirgli di mano, si è sempre rivolto ai guerriglieri che lo assediavano, o agli ufficiali disobbedienti, o ai semplici imboscati. 


E chissà che un giorno uno di questi eroici disertori, obiettori di coscienza e renitenti alla leva di partito nei più immani e insensati conflitti parlamentari del secolo, non si risolva a prendere carta e penna, una buona volta, per scrivere una lettera simile a quella immaginata un tempo da Boris Vian. Chissà che non l’abbia già scritta, a qualcuno di quegli insaziabili, incontentabili, eterni candidati a tutto, che pur di tornare in vetta sono stati capaci di mandare al macello interi partiti, e senza neanche riuscire nell’intento (nel caso nessuno lo avesse ancora fatto, mi permetto di suggerire qui un possibile incipit: “In piena facoltà, mon cher non-presidente, le scrivo la presente, che spero leggerà”).


Intanto, se nessuno dei maggiori leader della Democrazia cristiana, partito che ha dominato la scena politica per tutto il primo quarantennio repubblicano, è mai riuscito a raggiungere la posizione più alta e più ambita – e non che non ci abbiano provato, eccome – il merito è di chi, ogni volta, nel segreto dell’urna, ha tradito le consegne di partito e difeso strenuamente l’equilibrio e la divisione dei poteri. Quali siano le ragioni per cui lo hanno fatto non ha ovviamente alcuna importanza, e anzi c’è da scommettere che ognuno di loro ne avesse ogni volta una sua particolare, e raramente delle più nobili. Motivo in più per ammirare l’infinita saggezza dei padri costituenti e del perfetto equilibrio assicurato dalla procedura e dall’insieme di pesi e contrappesi da loro previsti, che non ha mai consentito a nessuno di fare cappotto, nemmeno ai leader del partito di maggioranza che ha governato il paese per mezzo secolo.

Da Fanfani ad Andreotti, ecco chi ha dovuto cedere ai franchi tiratori

Da Amintore Fanfani a Giulio Andreotti, lunghissima e illustre è infatti la lista dei potenti che sono stati disarcionati, o hanno dovuto comunque cedere il passo, dinanzi al luccicare delle canne di fucile in cima agli scranni di Montecitorio. Eserciti apparentemente invincibili sono stati tenuti in scacco per settimane, condottieri leggendari hanno dovuto scendere da cavallo, increduli e sbigottiti come Serse di fronte alle Termopili. Il record conservato negli annali sono le ventitré votazioni che furono necessarie per eleggere Giovanni Leone nel 1971. Per essere precisi, e dare la misura degli estremi cui si arrivò, il 24 dicembre del 1971 (ci mancava poco che i parlamentari saltassero la cena di Natale). E la volta precedente, per eleggere Giuseppe Saragat, ce n’erano volute appena due di meno.


Ma certo erano altri tempi, altri partiti e altri leader, se pensiamo che nel 2013, per quattro scrutini andati a vuoto, tra l’abbattimento della candidatura di Franco Marini e quella di Romano Prodi, con i famigerati centouno, sembrava dovesse crollare la Repubblica. Le Camere circondate, il lancio delle monetine (proprio come ai tempi di Craxi), il delirio nelle piazze romane, in televisione, sui social network. I giornalisti a lutto, i leader di quasi tutti i partiti in processione da Giorgio Napolitano per chiedergli in ginocchio di ricandidarsi e salvare l’Italia dall’abisso. Crisi conclusa con la sua rielezione al sesto scrutinio. 


Insomma, quella che è rimasta nella memoria come l’interminabile agonia di un sistema ormai ingovernabile, incapace di eleggere il capo dello stato, a conti fatti si rivela una delle elezioni più brevi nella storia della Repubblica. Imparagonabile non solo, ovviamente, alle ventitré votazioni di Gronchi e alle ventuno di Saragat, ma pure alle sedici che nel 1978 furono necessarie per Sandro Pertini e nel 1992 per Oscar Luigi Scalfaro. E al di sotto anche delle nove con cui nel 1962 fu eletto Antonio Segni.


E non è che allora, per la democrazia, fossero tempi più facili. Certo le minacce e i pericoli da fronteggiare, che richiedevano unità e compattezza da parte dei partiti e delle istituzioni, non erano meno gravi, chessò, in quel luglio 1978 in cui fu eletto Pertini, a neanche due mesi dall’omicidio di Aldo Moro, nel pieno dell’attacco terrorista alla democrazia.


Forse il punto è che allora i leader erano più abituati al confronto e alla mediazione, sapevano che per andare avanti non bastava la popolarità e a volte poteva essere persino d’impaccio, avevano imparato sin da piccoli l’arte del compromesso e l’importanza del basso profilo. E quando se ne dimenticavano, o s’illudevano di poterne fare a meno, magari perché inebriati da una qualche improvvisa serie di vittorie elettorali o congressuali, politiche e personali, c’era sempre qualcuno – il leader di un minuscolo partito alleato, il capo di una corrente che non arrivava al 5 per cento – che in un modo o nell’altro, con le buone o con le cattive, lo riportava sulla terra. Forse il problema è che nella politica di oggi non mancano i tiratori, ma la franchezza.


E forse non deve stupire che in questi tempi impazziti, in cui l’analfabetismo democratico si diffonde più rapidamente del Covid, persino tra i liberali non manchi mai chi si dica prontissimo, fingendo magari di scherzare, a fotografare il proprio voto e inviarlo al leader di turno, a garanzia della propria fedeltà. Sarebbe davvero un gran finale, magari con i magistrati, a quel punto, a chiedere di controllare i tabulati e invalidare l’elezione, mettere i sigilli al Parlamento, chiudere il Quirinale, per affidare infine le sorti della Repubblica a un qualche curatore fallimentare.


Mi pare comunque degno di nota il fatto che cercando le origini dell’espressione si scopra che al francese “tirailleur”, nel dizionario militare italiano del 1833, corrisponde la voce “Bersagliere”. Vale a dire: “Soldato che combatte spicciolato o a branchi fuori della fronte del battaglione, dello squadrone, o dell’esercito per assaggiare le forze dell’inimico, commettere i primi colpi, sostenerne l’impeto con vivo fuoco, stancheggiarlo, pizzicarlo”. 


Quanto al “franco”, è sempre bene ricordare che, sebbene l’espressione “franco tiratore” si dice derivi dalla guerra franco-prussiana, l’aggettivo qui non sta per “francese”. Sta per “libero”.

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