Il foglio del weekend
Ogni 7 anni una partita al buio: Quirinale, lunga storia di intrighi, colpi di scena e bocciature
Lo sfinimento delle votazioni (solo Ciampi e Cossiga furono eletti al primo scrutinio). Nel 1964 si mobilitò pure il Papa per assegnare il Colle a un democristiano. Ecco la cronaca dei backstage che hanno preceduto le incoronazioni
Abbiamo cancellato il sistema proporzionale per sottrarre la formazione del governo alle opache trattative tra i partiti. Abbiamo escogitato persino il modo di mettere il nome del capo della coalizione sulla scheda, inserendolo surrettiziamente nel simbolo dell’alleanza, pur di ottenere un simulacro di elezione diretta del presidente del Consiglio, sperando così di sfilare la sua designazione al rapporto tra Quirinale e Parlamento, cioè alla concertazione tra capicorrente, capipartito e capo dello stato. Nel tentativo di adeguarci a un tempo che ha ormai sepolto uffici e agenzie di stampa a colpi di tweet, fotografi e direttori delle comunicazioni a colpi di selfie, direzioni di partito e vertici istituzionali a colpi di consultazioni in streaming, ci siamo spinti sempre più avanti, ora con fervore ora con rassegnazione, sulla strada della disintermediazione, inseguendo il mito anglosassone della trasparenza e della governabilità. In questo sforzo di adattamento, a dirla tutta, abbiamo partorito non poche mostruosità, a cominciare da quell’obbrobrio, sconosciuto al resto delle democrazie occidentali, che sono le coalizioni pre-elettorali. Abbiamo rinnegato quotidianamente i principi fondamentali della Costituzione e della lingua italiana invocando a gran voce la “democrazia decidente” e il “sindaco d’Italia”. Abbiamo straparlato di superamento della democrazia rappresentativa e di democrazia diretta. Abbiamo promosso, in nome di tali discutibili obiettivi, ogni sorta di strampalata iniziativa politica e legislativa, referendum e campagna di opinione. Questa trentennale furia riformatrice ci ha portato molto in là, cambiando le regole del gioco e il modo di raccontare la partita, e oggi la politica italiana è certo assai diversa da quella che era prima, in quel tempo lontano in cui c’erano ancora la proporzionale, i congressi di partito e il ministero delle Partecipazioni statali. Con un’eccezione.
Un unico bastione, in questi anni, ha resistito a tutti gli assalti e a tutte le tempeste. Un’unica liturgia – la più importante di tutte – è rimasta intatta, pura e incontaminata, e continua a svolgersi oggi esattamente come settant’anni fa: l’elezione del presidente della Repubblica. La messa in latino della politica italiana. Il trionfo della democrazia indiretta. Quel rito al tempo stesso solenne e primordiale, ingessato e violentissimo, che rappresenta in fondo, con tutte le sue contraddizioni, l’orgia dionisiaca del parlamentarismo. Il sanguinoso carnevale in cui tutti i furori e i tutti i fervori repressi durante il resto della legislatura esplodono e si sublimano. Obiettivo indicibile e movente principale di ogni manovra politica, la corsa al Quirinale è la madre di tutte battaglie, la Champions League di tutte le partite che si giocano dietro le quinte, cioè di tutte le partite che contano. Eppure è al tempo stesso qualcosa di cui non si discute, su cui non si svolge alcun dibattito pubblico, di cui l’opinione pubblica è informata solo a mezzo di indiscrezioni e retroscena, su cui quasi non si pronunciano dichiarazioni ufficiali. Elezione cui non ci si candida, gara cui non ci si iscrive e che anzi si può sperare di vincere soltanto a condizione di non parteciparvi (di più: in cui il semplice sospetto di volervi partecipare è condizione sufficiente per essere squalificati), la corsa al Quirinale è uno dei più singolari rituali della Repubblica. Una partita che si gioca interamente dietro le quinte, senza che all’opinione pubblica sia dato di sapere, fino all’ultimo, nemmeno quali siano esattamente gli schieramenti in campo, quali obiettivi perseguano, quali argomenti adoperino.
Alla presidenza della Repubblica non solo non ci si candida, ma ci si arriva perlopiù ostentando la propria renitenza, coerentemente con la narrazione secondo cui si tratterebbe di una carica pressoché onorifica, essendo l’Italia come noto una Repubblica parlamentare, in cui quello del presidente è un ruolo puramente di garanzia. Le parole usate per definirlo dicono già tutto: arbitro, garante, custode (della Costituzione, s’intende). Si direbbe, insomma, al di là delle formalità, un ruolo praticamente ininfluente. Eppure, come ben sanno gli storici, nella memorialistica di tutti i principali leader della Prima Repubblica, dei loro più fidati consiglieri, collaboratori e intermediari, la corsa per il Quirinale occupa sempre il posto principale, al centro di tutte le trame, di tutti i contatti e di tutti i sospetti. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: dai diari del sette volte presidente del Consiglio democristiano Giulio Andreotti, “I diari segreti” e “I diari degli Anni di piombo” (Solferino) alle ormai classiche “Cronache dall’interno del vertice del Pci” (Rubbettino) del dirigente comunista Luciano Barca, dalle note riservate di Antonio Tatò per Enrico Berlinguer (“Caro Berlinguer”, Einaudi) ai diari di Ettore Bernabei curati recentemente da Piero Meucci (“Ettore Bernabei, il primato della politica”, Marsilio). Tante attenzioni e aspirazioni potrebbero apparire in contraddizione con il ruolo di semplice arbitro, con la pura funzione notarile che generalmente si attribuisce alla carica.
Perché mai, ci si potrebbe domandare, leader politici di primissima importanza si affannano tanto per conquistare, preferibilmente per sé, ma in subordine anche per altri, un incarico che sulla carta dovrebbe essere, se non proprio onorifico, diciamo pure scarsamente esecutivo? A onta dei sogni coltivati dai furiosi riformatori degli anni Novanta (e da qualche tenace epigono odierno), si sa infatti che l’Italia non è certo una Repubblica presidenziale.
Significativo al riguardo è l’incipit del saggio introduttivo di Giuseppe Galasso all’imponente opera in due volumi pubblicata dal Mulino nel 2018 (“I presidenti della Repubblica – Il capo dello stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana”), curata con Sabino Cassese e Alberto Melloni: “Tranne, come è ben noto, che per qualche gruppo politico, come quello del partito d’Azione, e per qualche isolata personalità, come Piero Calamandrei, il modello costituzionale che fu presente agli uomini della Costituente escludeva a priori il presidenzialismo”. Alla base dell’impianto fortemente parlamentare della nostra Costituzione stavano diverse ragioni. Certo era “assolutamente dirimente e risolutiva al riguardo l’esperienza di un particolare accentramento di poteri nelle mani di un solo gestore di tali poteri, fornita dal ventennio mussoliniano”. Per lo stesso motivo, nessuna fortuna poteva avere “l’istituzione di una forte premiership”. E giacché “Mussolini, ad abundantiam, si era definito capo del governo e primo ministro”, si ristabilì subito “la tradizionale denominazione di presidente del Consiglio dei ministri, e il governo fu immediatamente concepito e strutturato sul modello di un istituto collegiale”. Ma accanto a queste ragioni storiche vi erano ancor più solide motivazioni relative all’immediato futuro, con due schieramenti profondamente divisi, anche a livello internazionale, che non potevano non considerare prioritaria, nella costruzione del nuovo sistema, la centralità del Parlamento e di tutte le forze lì proporzionalmente rappresentate, in modo da garantire gli sconfitti da ogni possibile tentazione dei vincitori di metterli definitivamente fuori gioco. Eppure riuscirebbe difficile spiegarsi il perché di tante manovre, intrighi e lotte accanite, se davvero al presidente della Repubblica spettasse appena il compito di far osservare le regole del gioco e tagliare qualche nastro. Anche in Germania l’esperienza della dittatura spinse verso la ricostruzione di un regime accentuatamente parlamentare. Sta di fatto che, come ricorda Cassese citando Leopoldo Elia, in Germania sia Konrad Adenauer sia Ludwig Erhard rifiutarono la candidatura alla presidenza della Repubblica federale.
In Italia, nessuno. A modo suo lo ricorda lo stesso Giuseppe Pella al collega di partito Amintore Fanfani, che ha già il suo da fare come presidente del Consiglio e assicura, ovviamente, di non volerne sapere di salire al Quirinale. E così riporta il colloquio nel suo diario, alla data 21 aprile 1962: “Pella mi invita a pensare che solo io posso risolvere il grave problema. Gli ricordo che non cerco nulla e ne ho abbastanza del grave compito attuale. Ma egli insiste, dicendo che così finirà, a meno che non si trovi altra soluzione neutra. Poi conclude: il Quirinale ed una sigaretta non si rifiutano mai”. Si finirà, quella volta, con l’elezione di Antonio Segni, sostenuto da Emilio Colombo e Mariano Rumor, e anche da Aldo Moro, che vedeva nell’elezione di un esponente dell’area più moderata della Democrazia cristiana la necessaria garanzia per poter portare tutto il partito sulla sua linea di apertura a sinistra. E sarà anche l’ultima volta in cui, nonostante tutto, la Dc riuscirà a eleggere il candidato con cui aveva cominciato la corsa. Ma durerà poco. Segni lascia infatti solo due anni più tardi, nel 1964, a causa di un ictus, tra tensioni e accuse (che però emergeranno solo qualche anno più tardi), “tintinnar di sciabole” e voci di colpi di stato imminenti (l’inquietante “Piano Solo” del generale Giovanni De Lorenzo). E pensare che Alcide De Gasperi, colpito dal contrasto tra la gracilità del fisico e l’energia del carattere, amava definirlo “l’ammalato di ferro”.
La sua drammatica uscita di scena apre la strada a Giuseppe Saragat, che già ne aveva insidiato l’elezione due anni prima. Il leader socialdemocratico è un convinto atlantista e un fermo anticomunista, ma anche un fior di antifascista: il 18 ottobre 1943, all’uscita da una riunione clandestina, è stato catturato dai tedeschi insieme con Sandro Pertini (il quale da parte sua non mancherà di ricordare, negli anni successivi, le insistenze di Pietro Nenni per liberare “Peppino”, perché “Sandro tanto al carcere c’è abituato”). In tempi diversi, dopo essere stati insieme in carcere, finiranno entrambi al Quirinale.
Ma l’elezione di Saragat si rivela tutt’altro che una passeggiata. Il fatto è che ad avanzare la sua candidatura sono i cosiddetti partiti laici (Psi, Psdi e Pri), mentre la Dc, che non vuole cedere la posizione, si presenta divisa. Da un lato i sostenitori della candidatura di Fanfani (che evidentemente quella famosa sigaretta non la disdegnava poi tanto), dall’altro, e sono la maggioranza, quelli che al Quirinale vogliono portarci Giovanni Leone. Il 1964 è anche l’anno in cui, in agosto, è morto Palmiro Togliatti. A guidare il partito è ora Luigi Longo, ma le personalità più autorevoli e ascoltate sono due: Giorgio Amendola, che tifa per Saragat, e Pietro Ingrao, che punta su Fanfani. Per venirne a capo ci vogliono ben ventuno scrutini. Leone, che sarebbe stato il candidato ufficiale, ricorderà quei giorni come un “supplizio cinese”. Votazione dopo votazione, per ben quindici esasperanti round, il suo nome è sempre il più votato, ma sempre clamorosamente al di sotto della soglia necessaria: 319 al primo scrutinio, 304 al secondo, 298 al terzo, 290 al quarto. Mentre, curiosamente, il nome di Fanfani ha un andamento inverso: 18 al primo, 53 al secondo, 71 al terzo, 117 al quarto. Per fermarlo interviene addirittura il Papa, Paolo VI, che lo invita tramite diversi ambasciatori, peraltro non sempre bene accolti, a non mettere a rischio la possibilità che al Quirinale vada un democristiano. Ma neanche la ritirata di Fanfani, dopo la decima votazione, è sufficiente a portare il candidato ufficiale sopra la fatidica soglia di 482 voti, maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. E così al quindicesimo giro, è ormai la vigilia di Natale, si ritira. La Dc deve cambiare cavallo, anche perché nel frattempo sta crescendo la candidatura di Nenni, sostenuta da Pci e Psi, ma ci vorranno altre sei votazioni, Natale e Santo Stefano compresi, per venire a capo della faccenda. Saragat si ritira e poi si ripresenta, con una dichiarazione in cui chiede i voti di “tutti i partiti democratici e antifascisti”, che in parte sembra venire incontro alla richiesta dei comunisti (ai quali si era già rifiutato di fare un appello ufficiale all’inizio della corsa) e in parte no (per non perdere i voti della Dc). Ma tanto basta. Il leader socialdemocratico è eletto il 28 dicembre. Il Times titola: “They have chosen the best man in the worst possible way” (“Hanno scelto l’uomo migliore nel peggiore dei modi”).
Ma è ancora niente rispetto a quello che capita la volta successiva, vale a dire nel 1971. Ai nastri di partenza il candidato della Dc è – indovinate un po? – proprio lui: Fanfani. Che questa benedetta sigaretta proprio non riesce a fumarsela. Di nuovo il problema sono le divisioni della Dc. Scrive nel suo diario Bernabei, direttore generale della Rai e strettamente legato a Fanfani: “Si ha l’impressione che i capi della dissidenza siano tra Colombo, Andreotti e Rumor. Forlani tende a indicare solo Colombo e Rumor escludendo Moro e le sinistre. L’on. Fabbri ha visto Leone mentre scriveva sulla scheda ‘Fanfulla’ per cui Leone è stato richiamato da Spagnolli e Andreotti”. L’istantanea è irresistibile, non solo perché sembra di vederlo, Leone, curvo sulla scheda mentre scrive “Fanfulla” con un ghigno soddisfatto che gli increspa i baffetti, con l’aria di chi abbia sognato questo momento per sette lunghissimi anni; ma anche perché, al termine di quell’incredibile carambola destinata a protrarsi per la cifra record di ventitré votazioni consecutive – suprema e crudele giustizia della politica – a essere eletto alla massima carica dello stato sarà proprio lui (ma la ruota continuerà a girare, e sei mesi prima della scadenza del mandato Leone dovrà dimettersi in seguito a una campagna di accuse sul caso Lockheed, condotta principalmente dall’Espresso e dal Partito radicale di Marco Pannella, che molti anni dopo se ne scuserà). Particolarmente illuminante, ripensando a tante più recenti discussioni su quanto i partiti di oggi si facciano influenzare dai social network (o magari fingano, per usarli come alibi), la versione di Bernabei, il 10 dicembre, su come il segretario della Dc, Arnaldo Forlani, in una riunione in casa di Eugenio Cefis, dà conto di un incontro con il segretario del Pci, Enrico Berlinguer: “Ho l’impressione di ascoltare il racconto di un comandante sfiduciato che non crede nella propria battaglia; oppure combatte per un altro esercito. Racconta che Berlinguer (alla prima parte del colloquio assisteva anche Cossutta, l’uomo di Mosca nel Pci) gli ha detto che per Fanfani loro non possono avere più alcuna disponibilità perché la base è stata influenzata dalla campagna che a suo tempo fu fatta per lanciare Moro e la cosiddetta base adesso ritiene Fanfani uomo di destra per le sue affermazioni di voler applicare gli art. 39 e 40 della Costituzione e per gli scritti di quarant’anni fa ripubblicati in questi giorni dal Manifesto come accusa di filofascismo. Berlinguer ha detto che il Pci potrebbe votare per Zaccagnini. Al che Forlani ha replicato facendo i nomi di Leone o Taviani”. La questione degli scritti pubblicati dal Manifesto compare anche nei diari di Andreotti, a proposito di un colloquio con il socialista Giacomo Mancini: “Certo nella base si ha disagio per le citazioni ‘fasciste’ del Manifesto, ma è ben pensabile che ne vengano fuori di analoghe per Moro o De Martino. Dico: ‘E se escludessimo tutti gli ex Pnf?’. Sorride”. La girandola di incontri riservati – che riservati non restano neanche per un secondo – è sempre la stessa, allora come mezzo secolo dopo. Annota il 30 novembre lo stesso Andreotti: “Pajetta: Evangelisti gli ha detto, e pour cause, che Forlani si è incontrato con Berlinguer in casa di Bernabei (Rai). Ergo ‘pro Fanfani’. Non è vero il luogo ma è significativo l’equivoco. Gli chiedo in confidenza se voteranno Fanfani. Dice che potrebbe escluderlo ma non è detto che non possano votare un altro Dc”. Scrive invece Barca, al termine della partita, a proposito di Andreotti: “Ha fatto finta di appoggiare Moro per bloccare Fanfani e appena ottenuto il risultato lo ha abbandonato”.
A oggi, su dodici elezioni presidenziali, abbiamo avuto solo due presidenti eletti al primo scrutinio (Francesco Cossiga nel 1985 e Carlo Azeglio Ciampi nel 1999) e sei entro le prime quattro (tolti Cossiga e Ciampi, tutti alla quarta, quando il quorum scende ed è sufficiente la maggioranza assoluta). Gli altri tutti dalle sei in su. Non per niente, alla vigilia dell’elezione di Sandro Pertini, nel 1978, Vittorio Gorresio osservava: “Come già nel 1964, quando fu eletto Saragat il 28 dicembre dopo tredici giorni di passione presidenziale, il Times di Londra potrà scrivere di nuovo: hanno scelto l’uomo migliore nel peggiore dei modi”. E non aveva ancora visto le Quirinarie sul blog di Beppe Grillo, le manifestazioni attorno a Montecitorio, i parlamentari aggrediti, le monetine e l’infinita scia di rancori e vendette neanche tanto sotterranee originate dallo sbandamento del Partito democratico, che prima manda allo sbaraglio la candidatura di Franco Marini, in accordo con Silvio Berlusconi, in una logica di larghe intese, dopodiché, impressionato dall’altissimo numero di franchi tiratori, passa di colpo alla linea opposta, candidando Romano Prodi, impallinato a sua volta dai famosi centouno (chissà perché quelli di Marini non meritano nemmeno la dignità del conteggio). Così finiranno per implorare Giorgio Napolitano di lasciarsi rieleggere. Al di là dell’uomo scelto di volta in volta, l’idea diffusa che il modo di sceglierlo sia sempre il peggiore non sembra avere intaccato il prestigio dell’istituzione. L’ultima, e l’unica occupata da un politico, per la quale i giornali non utilizzino il gergo delle inchieste di mafia, parlandone anzi in toni che oscillano tra il doveroso rispetto istituzionale e la venerazione. Toni che contrastano particolarmente con quelli abitualmente utilizzati per ministri e parlamentari, leader di partito e capicorrente.
Non che non sia stato investito anche il Quirinale, in forme ricorrenti, da accuse e sospetti più e meno fondati. Dalla campagna che portò alle dimissioni di Leone alle ombre che toccarono Oscar Luigi Scalfaro (respinte con quel famoso “non ci sto” scandito in diretta televisiva), fino al caso più clamoroso, con le intercettazioni di Giorgio Napolitano e il suo interrogatorio al Quirinale, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia (e abbiamo visto com’è finita). Pochi ricordano che la stessa campagna contro la casta, originariamente, era partita proprio da lì, nel 2007. Uno dei capitoli del fortunato libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, che avrebbe fornito tanta materia al nascente Movimento 5 stelle e ai suoi numerosi propagandisti, era dedicato proprio alle spese del Quirinale di Napolitano, paragonato a Buckingham Palace (considerato non solo più economico, ma anche più trasparente). Il Quirinale, tuttavia, ha sempre resistito, e non è mai davvero entrato in quella spirale di delegittimazione, insinuazioni e irrisioni che ha inghiottito partiti e Parlamento. Il trattamento riservatogli dai mezzi di comunicazione è di tutto riguardo, con poche eccezioni (la stampa berlusconiana nei confronti di Scalfaro all’indomani del ribaltone, tra 1994 e 1995, e ovviamente la stampa grillina nei confronti di Napolitano al tempo del processo Trattativa). E così la popolarità dell’istituzione, come quella della maggior parte di coloro che di volta in volta si trovano a guidarla, è quasi sempre altissima. Lo si è visto da ultimo nel 2018, quando Luigi Di Maio han chiesto in piazza la messa in stato d’accusa di Sergio Mattarella, e ventiquattro ore dopo ha dovuto rimangiarsela.
Il primo a cercare un dialogo diretto con i cittadini è stato Giovanni Gronchi, il terzo presidente della Repubblica, eletto nel 1955. Il suo sforzo si scontrava però — come ha notato il linguista Michele Cortelazzo — non solo contro le barriere linguistiche ancora forti nel Paese, ma anche con la tradizione di un’oratoria spesso involuta: il suo discorso di fine anno del 1961 conteneva una frase di ben 118 parole. Preso da un’indicibile nostalgia, sono andato a cercarla (si trova ancora facilmente su YouTube). Eccola: “Quando si è insofferenti della frammentarietà dei provvedimenti e della troppe volte riscontrata tendenza a considerare i problemi per l’urgenza del giorno per giorno, quando si riempiono pagine di libri, di riviste e di giornali e si abbonda nel far materia di conversazioni private o di discorsi pubblici della deficienza di visione organica dei problemi, della conseguente lentezza nel predisporre programmi e piani che inquadrino, dirigendole all’interesse comune, le iniziative private e le pubbliche, ogni anche onesta critica resta vana se oltre al segnalare, chi può e chi deve, in ogni ordine e campo di responsabilità, non cooperi a rimuovere le cause delle deficienze lamentate, posponendo gli interessi personali e di parte a quelli della Nazione” (la riporto integralmente anche perché mia mamma mi rimprovera sempre di usare periodi troppo lunghi e contorti, che risultano più faticosi da leggere per le persone anziane come lei). Auguriamoci che tanta saggezza illumini anche i grandi elettori di domani.
Nella soffitta di Anne Frank