La regina delle orchestre: i Berliner Philharmoniker a Roma

Roberto Raja

Il prodigio del suono, l’attualità di una grande tradizione, lo sguardo in avanti. Storia del più importante ensemble sinfonico tedesco, esibitosi in chiusura del RomaEuropa Festival

Un collettivo di straordinarie individualità. Un collettivo formidabile nelle intenzioni e nei risultati. Basterebbe questo, parlando di musica, a fare dei Berliner Philharmoniker una grande orchestra sinfonica. Ma nel diamante sonoro si riflette un di più di storia, cultura, orgoglio e spirito di corpo e  sguardo  al futuro, pure, che gli dà una caratura unica. Su invito dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia e dell’Ambasciata tedesca, i Berliner Philharmoniker con il loro direttore principale, Kirill Petrenko, arrivano domani sera al Parco della musica, a Roma, per il concerto di chiusura di RomaEuropa Festival. In programma la Terza sinfonia, “Scozzese”, di Felix Mendelssohn Bartholdy e la Decima di Dmitri Shostakovich. Mancano dall’Italia da diciassette anni (sempre nella sala Santa Cecilia l’ultimo concerto, diretto da Simon Rattle), anche se i ricordi del pubblico italiano andranno forse più facilmente un poco più indietro, al memorabile ciclo beethoveniano del 2001: sei serate all’auditorium di via della Conciliazione con Claudio Abbado sul podio, e poi alla tournée d’addio dello stesso Abbado come direttore principale, nel 2002, che toccò Palermo, Napoli, Firenze, Ferrara, Brescia e Torino.


I Berliner arrivano a Roma sulla soglia dei 140 anni di storia: tanti ma tutt’altro che un record per un complesso strumentale. L’Orchestra nazionale di Santa Cecilia è solo di una decina d’anni più giovane, e nascono molto prima, entrambe nel 1842, la Filarmonica di Vienna e la New York Philharmonic. Per non parlare della più antica di tutte, la Staatskapelle di Dresda, attiva senza interruzioni da quasi mezzo millennio. Ciò che caso mai stupisce è il progetto artistico e imprenditoriale che anima sin dall’inizio i Berliner e la rapidità con cui hanno imposto la loro classe strumentale.


Tutto cominciò con un atto di ribellione. Sottopagati, stanchi di un’attività frenetica e poco gratificante, nella primavera del 1882 una cinquantina di strumentisti della Bilse Kapelle, un’orchestra d’intrattenimento che si esibisce a Berlino e dintorni, non rinnovano il contratto e si mettono in proprio, formando una società cooperativa indipendente: pensano che la capitale del giovane impero guglielmino meriti una vera orchestra sinfonica, come hanno da tempo Dresda, Lipsia, Amburgo. Eleggono anche un direttore, Ludwig von Brenner, sotto la cui guida debuttano in estate al Flora, all’aperto, su quella che era una pista di pattinaggio. E subito dopo, tra settembre e ottobre, un tour da paura: quaranta concerti in quaranta giorni in 26 città della Germania. Indipendenti, uniti in cooperativa, si scelgono il direttore, viaggiano molto con i loro strumenti: si chiamano, ancora per poco, Ex Cappella Bilse ma il marchio identitario è già quello dell’orchestra che conosciamo. Che compare per la prima volta in locandina come Philharmonisches Orchester il 17 ottobre di quel 1882.


In mancanza di mecenatismo privato e istituzionale nella Berlino dell’epoca, l’indipendenza però comportava seri rischi finanziari per l’orchestra, che decise così di affidare gli aspetti organizzativi e amministrativi all’impresario Hermann Wolff. Un’altra scelta quanto mai azzeccata: Wolff e la sua agenzia, retta alla sua morte dalla moglie, sono stati determinanti per i successi dell’orchestra, fino a che nel 1935 i nazisti interruppero ogni attività della Wolff & Sachs (la famiglia era di origini ebraiche). Wolff ha l’intuizione di proporre come direttore stabile un musicista che si è formato alla scuola pianistica di Liszt e a quella direttoriale di Wagner, di cui ha diretto la prima del Tristano e Isotta. E’ Hans von Bülow, e ha già la fama del costruttore di orchestre: con una disciplina che si sarebbe detta toscaniniana, ha fatto dell’orchestra di una cittadina di provincia, Meiningen, uno dei complessi sinfonici più agguerriti della Germania. Nel 1887 debutta sul podio della Filarmonica di Berlino come direttore stabile: un trionfo. (La storia va avanti, a volte si ripete nei dettagli: prima di arrivare a Berlino, Kirill Petrenko dal 1999 al 2004 è stato direttore principale della Hofkapelle di Meiningen). 


Bülow dura cinque anni alla testa dei Filarmonici, poi è costretto a lasciare per problemi di salute. Nel frattempo ha innalzato lo standard qualitativo dell’orchestra, ha provato e diretto nella nuova Philharmonie, ristrutturata e trasformata in vera e propria sala da concerto, ha visto, una sera di novembre del 1887, i suoi orchestrali diretti per la prima volta da una donna: Mary Wurm, una giovane pianista, allieva di Clara Schumann, salita sul podio per dirigere una sua composizione. 


Dopo un intermezzo con Richard Strauss, che era anche un compositore già affermato ma le cui proposte esecutive per i gusti conservatori dei berlinesi suonavano fin troppo innovative, fu di nuovo Wolff a fare, con Arthur Nikisch, la mossa che avrebbe garantito l’affermazione definitiva dei Berliner Philharmoniker nel panorama musicale internazionale. La crescita dell’orchestra è continua, anche nella discontinuità della direzione. Ungherese di nascita, appena tornato dall’America dove aveva guidato per quattro anni la Boston Symphony, Nikisch è per molti versi l’opposto di Bülow: meno assillante sul lavoro di preparazione, si affida di più all’estro del momento; empatico con i musicisti, ne valorizza le individualità, tanto da fare dell’orchestra di solisti uno dei caratteri in cui si riconosce ancora oggi l’identità dei Berliner; l’interpretazione perde un poco del rigore classico del predecessore a vantaggio di una maggiore sensualità. La sua grande sensibilità, in breve, conquista il cuore degli orchestrali. Il repertorio si allarga a Ciaikovskij, Berlioz, Mahler, Bruckner. Accanto ai solisti già famosi “emergono giovanissimi il violinista Heifetz (a undici anni), il violoncellista Casals, i pianisti Schnabel, Rubinstein, Arrau, Kempff”, nota Enzo Beacco nella sua Storia delle grandi orchestre.


All’inizio dell’era Nikisch, molto prima delle esasperazioni degli anni Trenta, i Berliner Philharmoniker, volenti o no, possono già rappresentare qualcosa di più della loro musica e della loro cultura. Nel giugno del 1896, su richiesta di Guglielmo II suonano all’incoronazione dello zar Nicola II a Mosca. Nel 1897, quando sono ancora aperte le ferite della guerra franco-prussiana, affrontano cinque delicate serate a Parigi, che comunque si risolvono con un grande successo. Più vicina nel tempo, resta memorabile la trasferta in Urss del 1969, un anno dopo che i carri armati del Patto di Varsavia hanno invaso la Cecoslovacchia: Herbert von Karajan dirige a Mosca la Decima di Shostakovich – la sinfonia che Petrenko proporrà domani al pubblico romano. Si dice che il compositore dalla platea alla fine addirittura sorrise, mentre venivano scanditi in coro il suo nome e quello di Karajan.


La vocazione internazionale dell’orchestra ha anche risvolti meno politici. Se le frequenti e capillari tournée, che oggi ci sembrerebbero difficili per chiunque, servono a far conoscere l’orchestra e a portare il suo verbo musicale in giro per la Germania e l’Europa, nei primi anni Dieci del secolo scorso i Berliner scoprono un’altra loro vocazione, che sulle prime potrebbe sembrare in contrasto col loro imprinting sostanzialmente conservatore di custodi di una grande tradizione – Mozart, Beethoven, Brahms, il Romanticismo, lo Zeitgeist racchiuso nella sala da concerto. E invece gli si sposa benissimo, ancora ai nostri giorni. E’ la vocazione alla modernità, rappresentata dalla tecnologia. Nel novembre del 1913, guidati dalla bacchetta di Nikisch, i Berliner Philharmoniker effettuano la prima registrazione integrale di una sinfonia, la Quinta di Beethoven, manco a dirlo. Oggi la si trova con facilità anche su YouTube.  Se poi con un balzo temporale si sfiorano appena le registrazioni e le dirette dei concerti trasmesse per radio negli anni a ridosso della Seconda guerra mondiale, viziate dagli intenti del ministero del Reich per l’Educazione del popolo e la Propaganda, si arriva al 1982, anno del primo compact disc messo in commercio: è la Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss, suonano i Berliner Philharmoniker diretti da Karajan. Quando infine anche il cd comincia a morire lentamente e la musica liquida si impone come nuova realtà, ecco che i Berliner si inventano, prima di tutti in una forma così organizzata, prima del lockdown che ha chiuso per quasi due anni le sale e i teatri, la realtà parallela dei concerti in streaming. Dalla Philharmonie al salotto di casa con la Digital Concert Hall. 


Nikisch, il direttore di quella Quinta lenta e inquietante, su cui si è depositata fatalmente la polvere degli anni, rimane alla testa dei Berliner dal 1895 al 1922, quando muore per un’influenza. Gli succede Wilhelm Furtwängler. Il nuovo direttore ha un gesto di difficile lettura ma un enorme carisma unito alla straordinaria capacità di cogliere l’architettura complessiva dei capolavori del repertorio sinfonico classico e romantico: Beethoven, Brahms, Bruckner su tutti. Furtwängler propone anche alcuni autori contemporanei, come Schönberg e Hindemith, ma a caratterizzare presto il suo regno alla Filarmonica sono gli inciampi della storia. Dal 1903 l’orchestra ha formalizzato la sua natura di autogoverno nella struttura di una cooperativa legale, in cui ogni musicista attivo è azionista. Negli anni Venti, quando i Berliner sono già considerati la migliore orchestra della Germania, la crisi del dopoguerra si fa sentire anche per loro. Cercano sovvenzioni, sono disposti a un compromesso sulla loro indipendenza, sembrano trovare un accordo ma tutto viene vanificato dalla crisi del ’29. Ancora qualche anno sull’orlo della sopravvivenza e poi, nel ‘33, la svolta, o il vicolo cieco. E’ Goebbels a capire subito che l’orchestra può essere un eccezionale strumento di propaganda culturale per il regime: in novembre, meno di un anno dopo l’ascesa di Hitler al potere, i Berliner sono ufficialmente nominati Reichsorchester, e poco dopo vendono tutte le loro azioni al Reich tedesco: da proprietari della società diventano suoi dipendenti. Ma la società, l’orchestra, è salva. Sul filo di questa ambiguità si gioca tutto il rapporto dei Berliner Philharmoniker con il nazismo, fino alla caduta della capitale (un’analisi puntuale è in L’orchestra del Reich di Misha Aster, edito in Italia da Zecchini). Furtwängler stesso ebbe atteggiamenti contraddittori: la ribellione nel 1934 (con le dimissioni per il divieto di rappresentare l’opera di Hindemith Mathis der Maler) e il ritorno in carica l’anno successivo. L’acquiescenza con Goebbels e la difesa dei membri ebrei dell’orchestra, quattro, indotti poi comunque ad andarsene. Una – ma una sola – partecipazione sul podio al consueto concerto per il compleanno del Führer, nel ’42 (angoscia stridente: sceglievano naturalmente il meglio, la Nona di Beethoven, e filmavano. Anche questo su YouTube). Forse, chi riuscì a sciogliere davvero l’intreccio perverso che si era creato tra responsabilità individuali e collettive, tra la musica e il regime, senza rinunciare al leggendario “spirito comunitario” dei Berliner, fu Hugo Kolberg, grande violinista, spalla dell’orchestra dal 1934. Aveva una moglie ebrea, nel ’39 lasciò i Berliner per l’America dove lavorò come spalla per le orchestre di New York, Cleveland e Chicago. Vent’anni dopo, divorziato dalla moglie ebrea, vinse una causa di riparazione di guerra contro il governo tedesco e a 60 anni tornò tra i Berliner per l’ultimo lustro della sua vita professionale.


Con i russi quasi alle porte di Berlino, i Filarmonici suonarono ancora alla metà di aprile del 1945. Il 26 maggio furono pronti a esibirsi per il loro primo concerto dopo la guerra. Sui leggii c’era anche l’Ouverture del Sogno di una notte di mezza estate: si poteva finalmente ridare voce a Mendelssohn. 
Furtwängler, sospeso dalla direzione stabile della Filarmonica, fu reintegrato dopo un processo nel 1952. Non aveva mai preso la tessera del partito nazionalsocialista, diversamente da Karajan, il grande rivale che, dopo un breve intervallo in cui l’orchestra si era affidata al giovane Celibidache, prese il suo posto quattro anni più tardi. E’ anche questa una storia d’amore lunga e contrastata, almeno nel finale: grazie al carisma e all’autorevolezza del direttore, allo stile e al fascinosissimo colore che infonde al suono dell’orchestra, ma anche grazie alla diffusione del disco e dei mezzi di riproduzione sonora, il prestigio e la fama dei Berliner si espandono a livello globale. Karajan regna per oltre trent’anni. Poi qualcosa deve cambiare perché nulla cambi. Arrivano sul ponte di comando un italiano, Abbado, un inglese, Simon Rattle e infine il siberiano-viennese Petrenko. Non più direttori a vita, ma sul podio abbastanza per segnare un’epoca. Del resto, in 139 anni di storia si sono succeduti dieci direttori principali. I Papi, nello stesso periodo, sono stati uno di più.

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