Dalle lettere all'aldilà fino all'incontro con il papa: intervista a Edith Bruck
L'autrice ungherese, testimone della Shoah, scrive ai suoi cari che non ci sono più. La missiva più intensa l’ha portata a un incontro speciale con Papa Francesco
Quando ho proposto a Edith di intervistarla (la chiamo per nome, è una figura familiare per me), le ho detto: “Ti va se parliamo solo di cose belle?”. Di tutto ciò che viene naturalmente associato alla sua figura, vale a dire il Male Assoluto, che si è scagliato su di lei e la sua famiglia, ne hanno parlato, giustamente, in tanti. L’ho fatto anche io, in un libro, dedicandole un ritratto. Ma dal momento che il 2021, che verrà ricordato come uno dei più cupi della nostra storia recente, le ha miracolosamente riservato una cornucopia di bellezze (premi, riconoscimenti, ripubblicazione di tutti i suoi libri, e molto altro), una stagione culminata con il dono più inatteso, la visita di Papa Francesco a casa sua, mi sembrava un’occasione gioiosa concentrarmi sul Bene. Come sempre generosa e disponibile, Edith ha accettato, e lo ha fatto con un invito: “Vieni a pranzo?”. L’intervista ideale: una domanda fra un boccone e l’altro (e del buon vino, sempre gradito).
Nell’anno appena trascorso sei stata finalista allo Strega, hai ricevuto il premio Strega giovani, il premio Viareggio Rèpaci per la narrativa, sei stata nominata Cavaliere di Gran Croce dal Presidente Mattarella, l’ambasciatore tedesco Viktor Elbling ti ha conferito l’Ordine al merito della Repubblica federale di Germania (cerimonia emozionantissima…), hai tenuto una lectio magistralis, sei invitata dappertutto, che effetto ti fa tutta questa attenzione?
“Sono molto felice e anche un po’ scombussolata, a volte mi sembra davvero troppo. Il rischio è che mi si metta addosso un velo di santità, la gente ora vuole abbracciarmi, baciarmi, mi tocca come fossi una reliquia, e questo crea un immaginario che non ha nulla a che fare con la realtà… Tempo fa una persona mi ha visto giocare con un Gratta e Vinci (Edith ha una passione per i Gratta e Vinci che le regalano i nipoti Marco e Deborah) e allibita mi ha detto: ‘Ma che fai? Gratti…?’. Era incredula. ‘Tu sei un monumento, non puoi fare queste cose…’. Ecco, un monumento, addirittura!” (Ride di gusto).
Penso a suo marito Nelo Risi, scomparso sette anni fa. Chissà come avrebbe reagito Nelo…
“Nelo rifuggiva dalla folla, dagli eventi pubblici, è sempre stato allergico alle onorificenze, era un uomo molto riservato. Però credo che intimamente ne sarebbe stato felice. Forse suo fratello Dino avrebbe commentato con il suo solito, meraviglioso sarcasmo”.
Tutto questo è cominciato dopo la storica visita di Papa Bergoglio, il 20 febbraio scorso. “Non era mai successa una cosa del genere. Avevo incontrato anche i due Papi precedenti in occasione delle rispettive visite in sinagoga. Ricordo che quando vidi Wojtyla rimasi colpita dalla sua bellezza, aveva un viso luminoso, simpatico. Ero emozionata, avevo riposto molte aspettative su questo incontro, lo immaginavo portatore di una rivelazione, pensavo che la sua Parola mi avrebbe fatto credere in Dio, come nella scena finale di quel meraviglioso film di Dreyer, ‘Ordet’, in cui il potere della Parola riesce addirittura a resuscitare una morta (“Ascoltami tu che sei morta, ispirami la Parola che ridona la vita”). Bene, non mi ha risvegliata… Si è limitato a stringermi la mano dicendo: ‘Piacere di conoscerla’. Ratzinger invece era molto imbarazzato, come congelato, mentre il suo discorso con accento tedesco risuonava in sinagoga… C’era una strana atmosfera. Poi fu la volta di Papa Bergoglio, nel 2016. Il suo fu un discorso molto ispirato. Quel giorno strinse la mia mano con la sua, soffice, calda… e poi mi abbracciò. Cinque anni dopo è venuto a casa mia. Capisci, è venuto lui da me…”.
Istintivamente volgo lo sguardo alla poltrona dove Papa Francesco si è seduto, avrà posato i suoi occhi sulle stesse cose che adesso vedo io, oggetti, libri, fotografie, disposte ordinatamente in questa sala accogliente e luminosa che affaccia sulla silenziosa via Margutta.
“Quando ho visto la sua figura bianca, imponente, riempire il vano della porta, non saprei dire perché, ma sono scoppiata in un pianto dirotto”.
Seduta a tavola accanto a noi annuisce Olga, figura fondamentale della famiglia Risi: ha cresciuto mio figlio Tano, poi si è occupata di mia suocera, la madre di Marco, poi di Nelo fino alla fine dei suoi giorni, e adesso è l’insostituibile ombra di Edith. C’era anche lei quel giorno.
“Ho voluto raccontare quella giornata straordinaria scrivendo una lettera immaginaria a Nelo. Volevo metterlo al corrente di quanto accaduto nella nostra casa. ‘Caro, il 21 aprile avresti compiuto 101 anni, mi piacerebbe sapere la tua reazione in presenza di un ospite inimmaginabile…’. Gli racconto i preparativi febbrili, l’indecisione sulla scelta del vestito adatto (con un pizzico di pungente umorismo yiddish del genere: “Non dire niente a tuo fratello Dino che ci raffredderebbe subito con una delle sue solite battute”…), come salutarlo, cosa offrirgli, dove farlo sedere… Il tono da commedia teatrale dell’inizio si stempera più avanti con delle riflessioni sul significato che avrebbe avuto una visita del genere se fosse avvenuta nei tempi più bui…”.
Da qualche anno Edith ha inaugurato una nuova fase della sua prolifica scrittura attraverso l’elaborazione di lettere indirizzate in un aldilà popolato dai suoi cari: il marito Nelo, la madre Berta (la nave di Teseo, in aggiunta agli altri titoli, ha ripubblicato “Lettera alla madre” uscito a gennaio). La missiva più intensa e densa di significati l’ha rivolta a Dio, e fu proprio quella lettera a portare Papa Francesco in casa sua.
“Il senso di colpa dei cattolici e la richiesta del perdono sono arrivati troppo tardi purtroppo, e adesso sento tutt’intorno una corsa a rimediare a quell’imperdonabile ritardo. La visita di Papa Francesco ha mosso il mondo cattolico, ora i sacerdoti mi abbracciano, mi cercano…”.
Cos’è cambiato nella tua vita?
“I ritmi della mia vita ora sono molto faticosi, ho tanti impegni, inviti, e siccome non so dire di no, viaggio, prendo treni, rispondo alle domande. E mi stanco molto. Io però non sono affatto cambiata, sono sempre la stessa persona, anche se la mia identità viene talvolta messa in crisi da alcune cerimonie eccessive che mi allontanano da me stessa e dalla realtà… Quando sento parlare di me mi sembra di essere in un altrove. Ma di chi stanno parlando?, mi chiedo. Chi sono io? Oppure quando il mio nome viene preceduto dall’aggettivo ‘sopravvissuta’, spesso usato come sostantivo: La Sopravvissuta. Un marchio indelebile che io per prima ho contribuito a diffondere, e che viene prima di ogni altra cosa. Ma io sono una moglie, una brava cuoca, ho amato, ballato, riso e scherzato! E sono una scrittrice”. (Io credo lo sia più di ogni altra cosa, mai visto una dedizione alla scrittura più totale della sua…).
“Quando mi chiedono ‘Come fai? Dove trovi la forza?’, rispondo che sono i ragazzi la mia fonte di energia. Quando vado nelle scuole e parlo con loro mi commuove la loro attenzione, il loro bisogno di conoscenza. Per me è un dovere rispondere alle loro domande, anche se a volte ometto di raccontare certe cose perché non voglio rovesciare il male sulle loro spalle. Ma la parola è importante, così come lo sono i filmati di repertorio. I film di finzione invece no, non si possono fare film sulla Shoah, anche se belli come ‘Schindler’s list’ di Spielberg o come ‘Il pianista’ di Polanski, credo sia profondamente sbagliato affrontare questo tema attraverso opere di finzione. Io ho promesso che avrei parlato, raccontato, e finché potrò continuerò. I giovani mi scrivono tantissime lettere e cerco di rispondere a tutti, anche se…”.
Anche se?
“Non vedo quasi più niente, e questo per me è un grande dolore perché sono sempre stata una grande lettrice. Però continuo a scrivere. Potrei farlo anche da cieca. Scrivo a mano su dei quaderni, come ho sempre fatto. Ho un rapporto molto fisico con la scrittura, devo sentire il peso del quaderno sulla mia pancia… dalla pancia mi escono i pensieri e sulla pancia li trascrivo. E’ una scrittura femminile, la mia. Senza dubbio”.
Che vuol dire scrittura femminile?
“Gli uomini hanno una scrittura più mentale sulla quale esercitano un controllo, le donne sono istintive, viscerali, appunto”.
Tu hai sempre scritto in italiano preferendolo alla tua lingua, l’ungherese, perché?
“La mia lingua mi fa soffrire, la associo a ricordi troppo dolorosi. In realtà avevo cominciato a scrivere il mio primo libro (“Chi ti ama così”, Marsilio) in ungherese, poi ho perduto il manoscritto nei miei vari spostamenti e quando ho deciso di riscriverlo ho adottato l’italiano. Da allora non ho più smesso. Non ho nessuna nostalgia dell’Ungheria, e non ho voglia di andarci, tantomeno adesso, con Orbán al potere”.
Il legame con il suo paese, del quale “non provo nostalgia”, si rivela però nell’amore per i grandi poeti ungheresi che Edith ha tradotto: Miklós Radnóti (che non ebbe la sua stessa fortuna e a soli 35 anni morì fucilato da nazisti ungheresi. In tasca aveva un taccuino con le sue ultime poesie, ritrovato anni dopo nella fossa comune in cui era stato gettato il corpo), e Attila József, del quale mi chiede di leggere a voce alta Ode, a detta di Edith “la più bella poesia d’amore mai scritta”.
“Attila scrisse questa poesia per una donna che non lo amava. Lui aveva un’anima inquieta, cupa, un equilibrio psichico instabile. Si suicidò a soli trentadue anni gettandosi sotto un treno. I grandi poeti muoiono così… E quella donna, che io conosco, si mise con un altro poeta che in seguito sposò, preferì scegliere quello sano… Una sera lei e il marito sono venuti a cena da me e io avrei voluto urlarle in faccia: ‘Come hai potuto non amare Attila? Come hai potuto…?’”.
Vola il pensiero a Primo Levi, amico di Edith.
“Mi aveva telefonato quattro giorni prima di morire. Sembrava perso, smarrito. ‘Era meglio ad Auschwitz’, mi disse, ‘lì almeno c’era speranza’. Ero molto arrabbiata quando ho saputo che aveva deciso di mettere fine alla sua vita. Mi sono sentita molto sola”.
Ci abbiamo girato intorno, o forse è l’Argomento che ha girato intorno a noi. Ingenua io che ho sperato di schivarlo, di mettere una parentesi alla Storia. Non è possibile non parlarne. Impossibile che Edith non lo faccia. L’Argomento, il Tema, l’Indicibile si presenta inesorabile a fine chiacchierata, quasi come un monito, e Edith lo governa come ha sempre fatto. Come Sisifo che porta la sua pietra sulle spalle, lei si carica il suo, di peso, e ne parla con tale intensità, ripetendo parole che ho già ascoltato, che abbiamo già ascoltato, ma il cui senso si fortifica solo attraverso la ripetizione. E dunque affiorano i ricordi…
“Fra tutti i momenti brutti che assillano la mia memoria e che non mi abbandoneranno mai, vorrei ricordare la bambina che sono stata, che ha resistito fino all’ultimo senza farsi mai schiacciare dalla disumanità. Ne ho vista tanta di crudeltà attorno a me, e non solo da parte dei nostri carnefici. Anche fra quelli come me, nei campi in cui sono stata prigioniera, ho visto gente strapparsi il cibo dalle mani, ho visto i più forti prevaricare i deboli, e malgrado ciò non ho mai coltivato l’odio né la vendetta. Quando finalmente ci hanno liberati, insieme a mia sorella abbiamo dovuto aspettare cinque lunghi mesi prima di essere rimpatriate, gli ungheresi erano stati gli ultimi a partire verso i campi di sterminio e furono gli ultimi a tornare a casa. Il nostro viaggio di ritorno ebbe inizio su un treno che trasportava carbone, e insieme a noi salirono cinque soldati ungheresi, cinque collaborazionisti… Dopo un momento di esitazione decidemmo di spartire il nostro poco cibo con loro, mettemmo da parte il nostro rancore e dividemmo il pane con i nemici… Lì, seduti insieme sul carbone. E’ stato uno dei momenti più commoventi della mia vita. Quel gesto, compiuto da due ragazzine, era l’esempio di come dovrebbe comportarsi un essere umano”.
Con Edith ci siamo viste a ridosso di una data importante, il 27 gennaio, che da sempre la vede protagonista di testimonianze e incontri. Ma quest’anno, la Giornata della Memoria ha avuto inizio con la visita all’amico più prezioso. Papa Francesco aveva espresso il desiderio di rivedere Edith Bruck, e così, nel giorno più simbolico, si sono ritrovati. Questa volta è stata lei ad andare, portando in dono il suo ultimo libro, un volume di poesie di Radnóti da lei tradotte e un pane fatto in casa da Olga (“Il pane perduto") che hanno condiviso un boccone per uno. Il Papa ha ricambiato con una medaglia realizzata per lui a Gerusalemme e uno scialle bianco che le ha delicatamente posato attorno alle spalle: “Questo è per il caldo, perché ora fa freddo”.
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