Il Foglio Weekend
Con Draghi sul treno per Kiyv. Cronaca surreale di tre giorni embedded
Il viaggio in treno con il premier e poi sul pratone di Zelensky. Tra storia, stories, Agatha Christie e Santa Marinella
Che film, l’Ucraina. Inizia come un “Airport 2022” o disaster-movie sull’Appia. Cerasa mi dice se voglio partire a seguito della storica visita di Draghi: sarà una cosa tranquilla, in giornata, col volo di Stato, bisogna mandare ‘una penna’, a quel punto dico sì, va bene, in giornata, non ho mai preso il volo di Stato, fico, ma lui adesso mi dice no, sono tre giorni, e parti tra due ore. Non so nulla, non sono mai stato in un teatro di guerra, nemmeno in un teatrino: prenderanno i telefoni? E le carte di credito? Le prese elettriche? Non ho tanta voglia. Ma dai! E’una cosa storica. Draghi e Macron e Scholz a Kyiv! La Peduzzi: sarà come Carrère con Macron. Vabbè. C’è odore di sòla.
Corro a prelevare e mi butto in un taxi. A quel punto mi scorre davanti l’Appia (Nuova) bombardata e arsa e penso che potrei fare delle stories da qui e taggarmi a Mariupol e nessuno se ne accorgerebbe. “Devi farti trovare al Trentunesimo stormo”, dice il direttore. Cioè all’Aeronautica militare. Confido che il tassista abituato a politici ghiotti di voli di Stato conosca la strada. Macché. “Trentunesimo cheee?”. Ma come: non l’ha mai portata neanche la Casellati? Niente. Mentre siamo incolonnati nel traffico verso Ciampino (e dico: sì, sì, siamo arrivati, a Cerasa), penso che saggio che era Claudio Martelli che aveva preso casa sull’Appia (Antica) per dormire un po’ di più al mattino - dichiarava - per arrivare ai voli di Stato. All’aeroporto tra turisti in ciabatte Ryanair e tassisti che li braccano chiediamo del Trentunesimo stormo, alla fine ce lo indicano. Il tassista ormai partecipe del mio andare in Ucraina embedded è tutto eccitato, mi scarica davanti al terminal militare, “in bocca al lupo dotto’”. Dentro ci sono già alcuni colleghi, sono gentili con me, sono un gruppo compatto, sono appena tornati da Israele il giorno prima sempre con Draghi, c’è anche chi non è proprio mai tornato a casa. “Ma Gigi sta ancora a Ramallah?”, chiede uno a un altro. C’è una chat con la portavoce di Draghi e i colleghi. Ah, ho dimenticato di dire che non si sa nulla del viaggio, perché è top secret per ragioni di sicurezza. Non sapremo dunque dove atterreremo, se andremo a Kyiv o Odessa, in che hotel dormiremo, quando torneremo. Chiedo nella chat se si può avere il programma. Nessuno mi risponde. Capisco di aver fatto la prima clamorosa gaffe da novellino: questi viaggi sono segretissimi, gestiscono tutto i servizi, eccetera. Mi preparo dunque al viaggio segreto. Entriamo in una saletta, quella dei viaggi di Stato, arredata in stile Canottieri Aniene: trumeau finto antico, divani Chesterfield, tappetone persiano. C’è un bar: bancone di travertino sormontato da grande aquila blu, lo stemma del Trentunesimo stormo. Sul bancone una linea di caffè in capsule “Aeronautica militare” compatibile con Nespresso. Anche una moka. Forse in concorrenza con quella degli Alpini.
Spugnato azzurro alle pareti. Finalmente ci imbarcano. Ovviamente non facciamo controlli. Su ogni sedile c’è un bello zainetto, alternati verdi e neri, e io penso, ah, che carini, un bel gadget dell’Aeronautica militare, tipo trousse Ferragamo-Alitalia. Invece è un giubbetto antiproiettile del peso di trenta chili, con elmetto accluso, che dovremo portare una volta arrivati alla “destinazione”, così viene chiamata. A bordo dell’Airbus A319 configurazione “corporate jet” ci sono trenta posti, sedili di velluto azzurro, spaziosi ma manco tanto. Niente di lussuoso. Una buona premium economy. Armiamo gli scivoli, eccetera. Sono un po’ deluso, ammetto. Uno steward militare dice che partiamo perché “la personalità è a bordo”, che sembra uno slogan per la nuova Ita. Decolliamo. E dico: ma Draghi, cioè la personalità, dov’è? Un altro collega mi prende in giro: “Eh, sta a pilotà”. Prendo la carta plastificata che c’è nella tasca del sedile davanti, e invece che esserci scritto Lufthansa o American Airlines c’è scritto Aeronautica Militare, vedo la conformazione del volo, scopro che oltre ai nostri posti c’è un super salottone a prua, dove sta lui! La personalità! Le due dimensioni sono suddivise dalla radica che a un certo punto comincia a rivestire tutto da terra a piedi. Un tunnel di radica conduce al salotto dove stanno il premier, il consigliere diplomatico, i membri dello staff più ristretto, che salgono dall’entrata davanti, quindi non condividono niente con noi premium economy di velluto. Con noi però ci sono anche diversi Carabinieri in tuta da combattimento nera, hanno armi serie, sono del Gis, il Gruppo intervento speciale, sono solo 89 in Italia e partecipano alle missioni più devastanti; sono in grado di intervenire in 4 ore in qualunque angolo del paese. Chissà che vite. A stemperare la tensione arriva la portavoce del premier che saluta i giornalisti, poi dice: “mi dicono che abbiamo un letterato a bordo!” Del Foglio!”. Tutti i colleghi giornalisti seri si guardano intorno alla ricerca del letterato del Foglio. Alzo la mano e dico: sono io, con lo stesso imbarazzo di quando il primo giorno di liceo la prof di lettere chiese se c’era qualche figlio di agricoltore. Il viaggio procede tranquillo: vado in bagno, anche il water è di (finta) radica, lo steward militare inizia a servire la cena. La differenza rispetto agli altri aerei è che chiama tutti “dottore” e “dottoressa”. Osservo i colleghi giornalisti seri. All’inizio mi chiedo come siano così in forma facendo una vita che li porterà a mangiare in continuazione schifezze. Sono anche lettori forti. Uno legge Isherwood, uno addirittura Brodsky.
Intanto dalla personalità manco un saluto. Non si pretende qui Reagan che si mette in tuta o il presidente Pertini con Bearzot o De Mita che giocava a carte con un tizio che poi per premio fu messo a capo di una municipalizzata. Ma almeno un salutino. Niente. “Renzi stava qua tutto il tempo con noi”, sospira un collega, e qui vale specificare che non siamo sullo sfortunato Air Force Renzi, l’aereo comprato quando era premier e che fu protagonista del leggendario video di Di Battista e Di Maio qui a Ciampino (ah, i bei tempi antikasta!). Questo è un Air Force Draghi, più piccolo, modesto. “Draghi style”, dice sempre il collega. “Pensa che ieri a Tel Aviv alla cerimonia in ricordo dell’olocausto niente, non ha fatto neanche una piega. E a Sommacampagna! Per la strage nella scuola. Una bambina gli porge una rosa, lui la prende e si gira dall’altra parte”. L’atermico è così. Peggio di Elisabetta con lady Diana. “Ecco il lago Balaton!”, risponde un collega esperto. Piano piano filtrano le indiscrezioni sulle prossime tappe. E in che hotel dormiremo? Ma come non lo sai? Ma quale hotel. "Staremo in treno. Come in treno? Sì, non lo sai? Draghi con Scholz e Macron hanno organizzato un unico treno su cui staranno tutti loro, e pure noi, e poi torneremo indietro”. Mortacci. Atterriamo alle 20,15 in quello che scopriamo essere l’aeroporto polacco di Rzeszów. A terra contraeree antimissile, e un Airbus come il nostro ma più grande da cui sta scendendo Macron e un altro con la scritta Luftwaffe sempre rilassante, è Scholz (non si sapeva se Scholz avrebbe partecipato, per via della ritrosia a impegnarsi contro Putin). L’Airbus comunque pare una delle migliori realizzazioni europee. Ma i francesi precisini hanno un secondo aereo, un piccolo Falcon. I cortei partono, noi abbiamo sei macchine davanti e quattro dietro, prendiamo un’autostrada verso non si sa dove. Draghi è già sceso ed è in capo al corteo, noi ultimi nel pulmino che fa fatica a star dietro alle macchine.
Alle dieci cominciamo a vedere macchine e camion incolonnate a fianco della strada: da qualche mese, dice un collega serio, la coda è per entrare, e non più per uscire. Ci stiamo avvicinando al confine con l’Ucraina. Intanto pare che il treno, il treno europeo su cui tutti passeremo due notti, si è rotto, quindi hanno cambiato convoglio. Il corteo si ferma in aperta campagna, nel buio pesto di un paesino, dove dalle villette dei polacchi perplessi ci guardano mentre decine di soldati con mitra spianati ci aprono la strada. Arriviamo finalmente a un binario tra i campi, sperduto nel nulla, ecco il nostro vagone. Saliamo: è un treno tirato a lucido alla bell’e meglio ma vecchio, tipo regionale per Santa Marinella, con una locomotiva vecchissima e dei vagoni più bassi e altri più alti, poi capiremo perché. Dopo un po’ partiamo. La prima parte è destinata ai tedeschi – del resto, locomotiva d’Europa – poi i francesi e infine, in netta minoranza, noi. I colleghi seri dicono che questo summit così scenografico, i leader che sfrecciano nella notte su un treno da Agatha Christie sia stato fortemente voluto da Macron, e gli altri si sono adattati in fretta. Il treno però inopinatamente parte nella direzione opposta, dunque siamo noi la locomotiva.
Il film qui, tra treni nella notte e mistero, diventa un “Cassandra Crossing” o anche un Lubitsch d’annata – che Macron abbia alle spalle all’Eliseo la scritta, come Billie Wilder, “cosa avrebbe fatto Lubitsch?”. A bordo, prendiamo possesso delle cuccette condivise, linde e ordinate e essenziali, un lenzuolino, una copertina, che serve, fa fresco, il treno è boccheggiante, andrà a sessanta all’ora. Facciamo una pausa lunghissima per il controllo passaporti prima per entrare in Polonia e poi in Ucraina. Le controllore, tutte donne, sono bionde, hanno una specie di iPad sofisticatissimo per controllare i documenti. Non parlano nessuna lingua straniera tranne russo e ucraino. Ciondoliamo un po’, chiacchieriamo, siamo due o tre per cabina, qualcuno dice: “se c’era Berlusconi qua con le controllore…”. Qui viriamo sul Renzo Montagnani. Alle 23:43 preceduto da tre agenti di scorta e seguito da quelli del Gis passa Draghi spedito, nel corridoio. Dove andrà? Ma da Macron, è chiaro. Allora decidiamo di aspettarlo, dovrà pur tornare nella sua cabina. Passa un tempo enorme, il treno continua a sferragliare verso una destinazione che non conosciamo, si chiacchiera. Uno a bordo con noi, militare o Servizi o scorta, dice che dobbiamo stare tranquilli, “siamo fuori dalla portata balistica russa”. Ah, meno male. “Se poi mandano i missili è un altro discorso. Ma quelli di solito li intercetta la contraerea. Di solito. Poi, certo, se arrivano dal mar Nero…”. Ci mancavano i missili dal mar Nero. L’attesa spasmodica di Draghi che ripassi sull’interregionale di Stato, più la velata paura che un missile dal mar Nero arrivi proprio in testa a noi, e il sobbalzare del vetusto convoglio rendono impossibile dormire. Alle due, sento degli “eccolo eccolo”, salto in piedi in pigiama e salto fuori giusto in tempo per essere respinto dentro da una enorme manona, la manona di una scorta che mi rimbalza dentro. E il consigliere diplomatico e il capo del protocollo velocissimi che seguono. Tutti noi: buonasera presidente. E lui: “Buonasera”, dice con la voce agnellesca, senza interrompere il passo. “Buonanotte presidente”. “Buonanotte”. Il convoglio nel convoglio sparisce verso la vettura draghesca. Atermico e infaticabile: è appena tornato da Israele, a 74 anni. Chissà cosa lo muove.
E chissà cosa si sarà detto con Macron e Scholz, cosa avranno mangiato. E qui bisognava fare come i vecchi cronisti, scender giù nella steppa o travestirci da bigliettai e penetrare nelle retrovie? Anche no, magari facciamo qualche story con l’elmetto (ma manca una scritta “press”, mannaggia). Poi si saprà dalle foto rilasciate dallo staff che si sono incontrati in un vagone-salotto (ecco la carrozza speciale, più bassa delle altre). E’ la 5, ed era dai tempi di Carlo Scognamiglio presidente del Senato che non si vedeva un treno speciale nella politica italiana. Ogni tanto la portavoce di Draghi viene da me e mi dice: “ha trovato ispirazione?”. Io balbetto qualcosa e lei penserà che sono il letterato del Foglio fesso. Altre fermate nella notte in punti imprecisati: a un certo punto salgono due soldatini ucraini, non parlano nessuna lingua, si aspetta tantissimo, cosa sarà, missili dal Mar Nero, formalità diplomatiche? No, a un certo punto gli salgono su un tupperware con dentro un’insalata di patate. Il treno riparte, i due militi, dall’aria né triste né allegra, più perplessa, si mettono a dormire accanto alla mia cuccetta.
Alla mattina, alba livida che comincia alle 5, siamo nel nulla, la carrozza odora di patate e di aglio, per avere un caffè con la hostess timida dobbiamo dire coffee, caffè, niente, bisogna indicare con la mano, fare il gesto della tazzina. Si riprende un po’ coi Carabinieri del Gis prestanti e giovani. Sale un’ennesima scorta della scorta. Parla ai soldati. Nessuno capisce nessuno. Questi ucraini però dovranno migliorare l’inglese, e speriamo che non scoppi un fraintendimento o un attentato qui perché finirebbe malissimo, nella babele ferroviaria e linguistica.
Arriviamo a Kyiv e lì ecco una clamorosa realtà a due facce. Prima, una città che risplende di gioventù ed energia – si prevedeva pioggia, invece splende un fresco sole da cartolina. Orto botanico, Dominos pizza e specialty coffees e un “Mafia Karaoke” e ben cinque Mc Donalds nella città che vuole a tutti i costi rinascere. Io penso ai missili del mar Nero. Ma in dieci minuti dove si andrà? Ma l’altra faccia di tutto questo fulgore, faccia cupa e sinistra, arriva presto, quando col presidente romeno Ioannis (qui perché strategicamente fondamentale per consentire i transiti sul suo territorio) Draghi Macron e Scholz – e noi appresso - arrivano a Irpin, che sembra un’opera di Kiefer, luogo già pronto a diventare un memoriale dell’Olocausto ucraino, tra palazzi bombardati e ponti abbattuti e distributori di benzina sventrati; nuovo memoriale europeo, è il secondo che Draghi visita in due giorni.
E qui sindaci e amministratori locali mostrano a lui e agli altri capì di stato e di governo l’orrore vero, l’horror puro, gli interni delle case carbonizzate e le cucine coi vetri in frantumi e le parabole satellitari fuse. I russi sostengono che questo sia una specie di Cinecittà, falsificata dagli ucraini come set dell’orrore. Se così fosse sono bravissimi, c’è persino un fetore diffuso forse di carcasse d’animale che accresce l’idea di essere veramente all’inferno. Una cosa in particolare mi colpisce, la quantità di scorte che è ulteriormente aumentata, ogni leader ha attorno a sé duplici o triplici cordoni di agenti. I Gis ora indossano una specie di alta uniforme guerriera, una muta da sub ancorata a qualunque tipo di arma e trasmettitore che si può immaginare e per ore la mia visuale contempla mitra, pallottole, auricolari, grilletti. I francesi hanno oltre a tutto l’armamentario bellico, anche la leggendaria valigetta coi codici nucleari di cui si favoleggia. Dopo un po’ mi manca il fiato. Una cosa in particolare colpisce il premier, invece. Una macchina, scheletro di macchina, teatro di barbara uccisione di una madre con due bambini assassinati dentro. Il premier si ferma allora e parla per due minuti coi cronisti, un’eternità nel minutaggio draghesco. Dice che due sono le cose da fare. Da una parte fermare la guerra. Dall’altra ricostruire. E qui si dilunga, sulla ricostruzione, e si entusiasma per un dettaglio, spiega che gli ucraini come sempre all’avanguardia hanno una specie di database degli edifici da ricostruire, case uffici palazzi. È entusiasta. È come se “l’atermico”, come è chiamato non solo per l’assenza del cappotto in guardaroba, si abbandonasse e utilizzasse questa “technicality” per esprimere la sua altrimenti inespugnabile commozione. Recupera l’atermia poi al palazzo presidenziale con Zelensky.
Qui, passiamo alla fantascienza, siamo a “Mars attacks”. Il palazzo di Zelensky è una via di mezzo tra una sede di Scientology e un set di Sissi. Già reggia rococò disegnata dal solito italiano al servizio degli Zar, andata bruciata in un incendio, rifatta a fine Ottocento, dentro sembra tutta nuovissima, con marmi e disegni vagamente massonici e vetrinette illuminate che espongono bazooka d’oro, mitra di bronzo, gagliardetti inneggianti a “legge, ordine, disciplina”. Saranno in vendita? I Romanov sono celebrati anche in pannelli nella hall principale – mentre importanti visitatori occidentali come Clinton e Merkel sono girati verso il muro; nel piccolo atrio stazionano una signora che sembra una governante, un bambino e un adulto. Personale di servizio? Improbabili addetti al protocollo? Spie? Famigli? Intanto per entrare decine, centinaia di piccoli – di statura e anche di età – Zelensky tutti uguali, in mimetica, che non parlano nessuna lingua, ti perquisiscono e ti fanno consegnare il telefono e ti danno un gettone col simbolo ucraino dorato per poi riprenderlo (poi te lo ridanno, il telefono, in un sacchetto di carta blu con lo stemma ucraino dorato. Non si capisce se il simbolo ucraino sia usato ovunque, sui palazzi, sui treni, sui negozi e sulle banche, qui a Kyiv, in un’opera di branding senza precedenti, o colpisce noi solo perché fino a sei mesi fa ne ignoravamo le fattezze).
Vago per il giardino. Parlo con due ragazzi tedeschi, lei fotografa freelance e lui di una tv tedesca, vivono qui, dicono che chiaramente è la nuova Berlino. Dopo ore di attesa i quattro leader, compreso il romeno, escono a parlare nel giardino. Sento una pulsione irrefrenabile a farmi un selfie con Zelensky, ma non sarebbe mai possibile. Però capisco d’essere vicino a una celebrità globale, forse LA celebrità globale di oggi. Dove siamo dunque? E’ un film? E’ tutto reale? In questo pratone di questa reggia nel centro sperduto dell’Europa, siam venuti su un treno speciale, nella notte, per incontrare un attore protagonista di una serie che trattava di un attore che diventa leader. Zelensky dal vivo è piccolo, più piccolo di Draghi e Macron (uno e settanta contro 1,73 degli altri due), ma oltre alla magliettina ormai “iconica”, ha i bicipiti allenati dalla palestra, e un’aria da bambino. Rispetto agli altri due prende la luce in un altro modo, ha quella speciale iperrrealtà delle celebrity. Macron invece ha una leggera cotonatura dei capelli.
Il non aver chiuso occhio accresce in me la percezione di surrealtà del tutto. Per fortuna dei pappataci giganti nel prato ubertoso e ulteriori allarmi antiaerei (mar Nero… dieci minuti) ci tengono svegli. Dalle traduzioni simultanee non si capisce niente, sono fuori tempo, traducono Draghi mentre parla Zelensky, “praticamenteee”… “praticamenteee”. Lost in translation. “Insomma lo vuol capire che non parlo inglese” mi dice una guardia. Sembrano quasi seccati da tutta questa attenzione. Comunque impreparati a questo scenario, a essere il paese più cool del mondo.
Dopo, pausa in un hotel del centro, ma mica per dormire, giammai, camera prenotata per farsi una doccia, ricaricare i telefoni, una ogni tre giornalisti, e lì si entra in un altro film ancora, Grand Draghi Hotel, nella hall ci sono solo diplomatici, scorte, gente con l’auricolare, il resto saranno Servizi. Di nuovo Lubitsch, o Wes Anderson. Io mi faccio la doccia e mi metto a letto per riposare dieci minuti scordandomi completamente degli altri due compagni di stanza, che scrivono e mangiano merendine. Una cosa interessante dei giornalisti di guerra o di esteri che scopro è infatti che sono molto essenziali. Noi abituati a scrivere di cazzate ogni tanto ci facciamo il viaggio-stampa “nella splendida cornice”, dove tutto è organizzato e spesato, invece qua no. Tutto a carico delle testate. Non sono previste pranzi e cene, ti devi arrangiare. Loro mangiano le merendine avanzate. La mattina non c’è breakfast. Loro dicono: ah, vero, non c’è niente da mangiare. E ricominciano a lavorare. A cena dico: ma non è prevista una cena? “Forse qualcosa sul pullman”. Io dico: ordiniamo un club sandwich. Mi guardano come se fossi un pericoloso turbocapitalista. Anche il pulmino che ci porta in giro è molto spartano. Ed è sempre l’ultimo nei cortei. Quindi quando incastrati nel traffico delle vostre città vedete cortei con le macchine e le sirene dietro non bestemmiate ma sorridete all’ultimo pulmino, sono i giornalisti, stanno combattendo una battaglia che non potete sapere, stanno mangiando merendine da tre giorni.
Ottenuto il club sandwich, la cameriera non sa calcolare il prezzo in euro o dollari e non so come si chiama la valuta ucraina ma mentre mi sto rilassando arriva un messaggio nella chat di missione: “immediatamente scendete nella sala B2 per conferenza stampa di Draghi”. Imprevista, io salto fuori dal letto e ci precipitiamo giù. Chiamiamo l’ascensore che si spalanca gettandoci una dozzina di canne di mitra in faccia tipo cartone animato. Sono i tedeschi. Scendiamo infine giù per la conferenza finale e poi risaliamo sul pullmino, poi alla stazione centrale di Kyiv, sirene, convoglio blindato fino al binario, e via.
Questa volta mi impasticco e dopo altre undici ore sferraglianti arriviamo in un’altra stazione polacca di confine, Przemyls, la città dove Salvini è stato respinto e sbertucciato dal sindaco. Accanto al nostro scalcagnato treno ecco un modernissimo Frecciarossa ucraino (ennesimo stemma). Metropolitana d’Europa, la prossima volta magari prendiamo quello. Fuori, rieccoci sul convoglio blindato per l’aeroporto. E pensiamo ai poveri diplomatici italiani in Polonia, sede tradizionalmente placida, che improvvisamente devono gestire tutto questo via vai (di nuovo Salvini e pure il Dibba passeranno di qui. Senza nemmeno la gloria di quelli a Kyiv. Ma la Polonia gioca brutti scherzi, come quando a fine carriera un diplomatico la scelse come sede, e venne eletto Wojtyla). Ma qui, adesso, mentre cala la tensione, a un certo punto un’autobotte si frappone tra noi e le altre auto del corteo, i Gis si alzano in piedi e si mettono in allerta, la macchina della polizia dietro scatta in avanti e blocca l’autobotte, arriviamo a Rzeszów. Sul volo di ritorno, un collega serio dice che la Cina ha ormai scoperto e accettato ufficialmente l’esistenza degli Ufo, e sarà fake news per destabilizzare l’occidente ma immediatamente penso che allora tutto torna nella surrealtà del tutto, dopo il Covid la guerra, e adesso che la guerra forse sta per finire, gli extraterrestri, e mi sembra perfetto e giusto che il primo disco volante atterri nel pratone di Zelensky, e lì un ET a discutere con l’uomo più celebre del pianeta, il leader in t-shirt, mi sembra perfettamente logico. Draghi sale sulla scaletta verso il suo salottino. Un Gis chiede all’altro: le armi le imbarchiamo o le mettiamo in stiva?
Nella soffitta di Anne Frank