Lawrence Osborne, i romanzi e il film in uscita. Uno "spatriato" di gran lusso

Michele Masneri

E' un Chatwin molto scorretto, oltre che fuoriscala. Osborne, un omone alto due metri, sessant’anni e l’aria consumata di chi ne ha viste di tutti i colori, risponde da una stanza del suo appartamento di Bangkok dove vive da dieci anni. Ma non si dica scrittore di viaggio, per carità.

Lawrence Osborne è forse lo scrittore inglese più interessante in circolazione e interpreta con grande autoironia il cliché dell’espatriato britannico all’estero: esperto d’antica Grecia, di politica e di gin, una grande tradizione che passa da Evelyn Waugh a Graham Greene, di cui è considerato l’erede, a Bruce Chatwin. Ma è un Chatwin molto scorretto, oltre che fuoriscala. Osborne, un omone alto due metri, sessant’anni e l’aria consumata di chi ne ha viste di tutti i colori, risponde da una stanza del suo appartamento di Bangkok dove vive da dieci anni,  scrittore non si dica di viaggio, per carità (“che definizione di merda. Basta essere andati in due posti, non abitare nello stesso per cinquant’ anni, ed ecco che diventi a tua insaputa un travel writer. Ormai bisogna definire tutto,  e se sei solo writer la gente si mette paura”).

 

Lui di sicuro non è mai stato fermo, ha l’orrore del domicilio questo sì chatwiniano: nato a Windsor, “infanzia tipicamente inglese”, prima Cambridge, poi vince una borsa di studio per la facoltà di lingue a Harvard; “la odiavo. Tre ore di greco ogni giorno. Alle otto di mattina. Ma siamo matti?. Poi un ambiente super puritano, capirà, venivo da Cambridge. Dopo un anno di Harvard ho un esaurimento nervoso, spacco tutto nella mia stanza, ritiro tutti i risparmi e prendo un volo di sola andata per Parigi”. E lì? Dopo tre giorni vado alla chiesa americana e trovo un annuncio che dice “prete francese cerca insegnante di inglese”, mi presento, bellissimo appartamento, rue d’Aumale, nel Nono, guardo il tipo, un piccoletto tutto vispo, e penso: quanto tempo posso rimanere prima che mi molesti? Tre mesi, mi dico. Quindi vivo nel magnifico appartamento per tre mesi, asserragliato nella mia camera, nel lusso più sfrenato, entro ed esco dalla finestra. Ma avevo ventidue anni, in fondo”.  

 

 

Poi New York, vent’anni, vita da scrittore, bohème. Le piaceva? “All’epoca sì. Era un posto dove potevi vivere anche essendo povero. Oggi New York fa schifo, è sporca, e poi perché mai dovrei spendere quattromila dollari al mese per un monolocale quando qui per mille sto in duecento metri? Ma forse sono solo io che sto invecchiando”. La pace la trova virando verso est. Prima Istanbul poi Hong Kong poi appunto Bangkok. “Qui ho trovato una vita civile. Posso avere un terrazzo e una persona che si occupa della casa. Qui ho potuto rientrare nella upper middle class. Per un inglese è importante”. L’appartamento in cui sta, col barboncino Whisky e una fidanzata, però è infestato dai fantasmi, proprio come quello del suo ultimo romanzo, “Il regno di vetro”, appena uscito in Italia per Adelphi, storia di expat che vivono in un residence sinistro e lussuosissimo. Le storie di Osborne sono un po’ sempre così, expat appunto, inglesi o americani laconici planati in posti esotici, puniti per qualche verso da una nemesi locale e da tragedie sempre in agguato.

 

Nel suo libro forse più famoso, “The forgiven”, in italiano “Nella polvere”, una coppia di annoiati coniugi britannici parte per una festa in Marocco per raggiungere il palazzo di altri ricchi fuorisede, e lì investe un ragazzo locale, di lì disavventure e tragedie a catena che placano l’invidia del lettore per quei personaggi ricchi e girandoloni in una speciale catarsi elegantemente ospitata dalle copertine pastello Adelphi.  “In thai c’è una parola per definire gli expat, farang, che significa straniero, chiunque sia europeo o americano oppure nero”. Come giargiana in milanese, insomma. “Ah, Milano. Che città… bella non si può dire. Pratica, ecco. Poi c’è il suo editore. “A cui devo tutto nella mia carriera. I miei libri fino a che non son stati pubblicati in Italia mica andavano bene. Finché Matteo Codignola ha comprato e tradotto il mio libro ‘Bangkok’. E sono entrato nel mondo Adelphi. Mai visto un editore così. Un caso unico nel panorama editoriale mondiale. In America le case editrici sono del tutto corporate, il tuo editore se ti dice bene ti porta a cena in un ristorante anonimo, la cena dura 45 minuti, e poi non lo rivedi per tre anni.  Calasso invece veniva a tutti i miei reading”. Si narra anche di colossali bevute, insieme. “Be’, si, molti Negroni, tra Roma e Milano, e poi ai festival. Ah, i festival italiani: voi non ve ne rendete conto ma sono una cosa unica. Centinaia di persone a Pordenone. Se vai al festival di Edimburgo ci trovi sei vecchie signore con gli occhiali con la catenina”.

 

“Ma tornando a noi, io non sono il classico expat”, dice Osborne. “L’expat è uno che ha generalmente fatto i soldi, e si trova in un posto esotico di mare dopo la mezza età, possibilmente per non pagare le tasse”. E lei non le paga? “Scherza? Io pago fino all’ultimo centesimo al terribile IRS, il fisco americano, ovunque mi trovi, anche se apro un bar qui sotto”. Però sta facendo i soldi. I suoi libri ormai hanno un gran successo, e non fanno che essere trasformati in film. In Italia è appena uscito “The forgiven”, e i due coniugi annoiati sono nientemeno che Ralph Fiennes e Jessica Chastain. “Già. E’ stato abbastanza faticoso. Eravamo in Marocco a girare e una settimana prima della fine delle riprese, nel 2020, è arrivato il Covid e dall’America ci hanno fatto tornare immediatamente, sa, le assicurazioni, assicurare un premio Oscar contro il Covid costa milioni. Poi però in piena pandemia il re del Marocco, che è un grande cinefilo e fan della Chastain, ci ha accordato un permesso speciale: solo una decina di persone, gli attori e il regista e pochi altri, sono andati lì nel deserto per finire”. Ah, quindi tutto bene. “No, la troupe si è presa tutta il Covid la prima sera”.  

 

Lui, Osborne, è stato executive producer del film; insomma, davanti alla scelta se vendere i diritti e disinteressarsi, oppure se occuparsene in prima persona, scelta che attanaglia qualunque scrittore corteggiato dal mondo luccicante dell’audiovisivo, lui ha scelto di partecipare. E lì, come si è trovato? Devastato, come una lunga tradizione di scrittori che incontrano Hollywood sulla propria strada, da Fitzgerald a Franzen? Per niente. “Mettiamola così, col cinema e la tv o ti rispettano profondamente, rispettano il tuo romanzo, ed è bellissimo. Oppure non ti rispettano e distruggono tutto. Ma comunque ti ci compri una casa ed è bellissimo uguale”. “Anche per il ‘Regno di vetro’ Apple ha comprato i diritti, e sarà diretto da Alfonso Cuarón”, dice Osborne, poi altri hanno preso quelli de ‘L’estate dei fantasmi’, altro romanzo osborniano. “E’ col cinema e la tv che guadagno, sì. E’ incredibile, tutti vogliono fare cinema e serie oggi. Mi hanno chiamato dal Bhutan, capisce, un regista che poi è saltato fuori che ha preso un Oscar! Un cazzo di Oscar in Bhutan, si rende conto? E ora girerà la mia storia, in Mongolia”.

 

Insomma è finita l’epoca in cui ci si guadagna da vivere coi libri. “Da mò. Inutile spremere le povere case editrici. E del resto, quanto ci metti a scrivere un romanzo? E il giornalismo letterario? No, dai. Io pure ci credevo. Addirittura, coi libri di non fiction”. Prima di azzeccare il successo con i romanzi, ha scritto infatti due saggi molto divertenti, uno sul vino, “The Accidental Connoisseur: An Irreverent Journey Through the Wine World”, e un altro, tradotto sempre per Adelphi, “Il turista nudo”, una storia del turismo dalle sue origini fino all’incubo del viaggiare odierno. “Sono solo cinque anni che riesco a campare decentemente”, dice, nella sua stanza. A proposito, andrà da qualche parte quest’estate? “Non sono mica matto. Non uscirò da questa stanza per nessun motivo. Tranne, forse, per andare in Giappone, a trovare mia nipote che è appena nata, e per una serie che sto facendo”.

 

Ci dica, il viaggio più da incubo che può immaginare? “Uhm”. Ci pensa. “Volo Londra-Australia in economica”. Be’ in effetti la business dovrebbe essere un diritto costituzionale soprattutto per chi è sopra il metro e ottanta. “Poi, se paghi tanto, il viaggio acquista di significato. Per quanto mi riguarda sono due anni che non mi muovo e sto da Dio. Esplorare il mondo, poi, cosa mai è rimasto da esplorare? Forse il Giappone rurale, che sembra di essere  in Arkansas. Io vado solo dove mi pagano, per lavoro. Per il resto dico: state a casa, per Dio!”.  

 

Nel suo libro scrive che il turismo è la principale industria del pianeta, 500 miliardi di dollari l’anno; e che turismo deriva da grand tour, cioè il viaggio che portava in Italia i gentiluomini inglesi, nel 1600. “Infatti inglesi in Italia era sinonimo di turisti all’epoca; e non c’era solo l’arte; “Venezia era la capitale mondiale della prostituzione. La scoperta del rinascimento per i gentiluomini inglesi andava di pari passo con la scoperta del meretricio”. Anche Osborne è appassionato di Italia, un po’ perché ha amici sparsi in ogni dove, “ah, il vecchio marchese Incisa col suo nasone rosso”, “ah, gli eredi di Graham Greene, hanno un castello in toscana, vada, vada a mio nome, hanno una quarantina di stanze che non usano, non si accorgeranno nemmeno della sua presenza”. Adesso, dice, ha scritto un altro romanzo ambientato a Favignana (“che posto! Vogue mi aveva mandato per fare un servizio sulla mattanza anni fa, quando il giornalismo esisteva ancora: son stato lì tre settimane tutto spesato – che tempi –  e due volte al giorno uscivo in barca col rais: ma come punizione divina per tanto spreco mai una volta che i maledetti tonni si siano palesati. Credo sia l’unica volta in cinquant’anni”).

 

Ora vorrebbe una casa nelle Marche. Magari con gli incassi di un altro film. L’Italia si è insufflata a casa Osborne per via materna. “Mia madre a un certo punto abbandona l’università e decide che vuol fare la giornalista, la prendono al Daily Mirror e, a  vent’anni, la spediscono come inviata a Napoli a intervistare Lucky Luciano che era appena stato estradato dagli Stati Uniti. A Roma però viene borseggiata e così arriva a Napoli senza niente. Lucky Luciano la prende in simpatia, la tiene sotto la sua ala e diventano grandi amici. Lei rimane anni; a un certo punto lavora a Cinecittà; poi torna a Londra e si sposa e comincia la sua vita piccoloborghese rimpiangendo per sempre quel periodo leggendario, gli anni Cinquanta a Napoli con Lucky Luciano”. Anche lui ha vissuto in Italia, a Firenze, e in un paesino toscano, con la giovane moglie; “nel 1983 ci siamo trasferiti a Panzano in Chianti. Sognando la Toscana mitologica, quella che avevo visitato da ragazzino”. Ma lì, invece, gli orrori della campagna: “bello agosto, stupendo settembre, poi arriva ottobre, il buio, e poi novembre, l’umidità, e dicembre con la neve. Avevamo avuto la balzana idea di mettere su un frantoio, avevamo degli operai sardi che non venivano mai a lavorare. Bisognava andarli a svegliare ogni mattina”. Com’è finita? “Con una tremenda lite col comune, dicevano che consumavamo troppa acqua, alla fine ce l’hanno tagliata. Cristo, è stato tipo ‘Il signore delle mosche’. Pensare che adesso quella zona è tutto un boutique hotel”. E Firenze? “Era fichissima negli anni Settanta, adesso questo turismo del cazzo l’ha trasformata in un parco a tema con un gruppo sparuto di aristocratici in mezzo che ancora ci abita. Stanno lì tutto il giorno a spettegolare uno dell’altro. E’ come la Tailandia, stessa struttura sociale, tutti conoscono tutti, tutti sono inutilmente snob, e pensano di essere il centro del mondo”.

 

Ma gli eredi di  Greene? Si sa che lo scrittore e spia è il suo animale guida. “Sono amico  dei nipoti, che fanno il vino, appunto, nel castello di Potentino vicino a Montepulciano. Mi hanno regalato qualche suo vestito e un paio di pigiami, che metto e mi stanno alla perfezione”. Anche lei è cattolico, come Greene e come un altro suo idolo, il pestifero Evelyn Waugh. “Ma non credente. Certo, il cattolicesimo in Gran Bretagna rappresenta sempre qualcosa di affascinante, per secoli era bandito. Poi c’è una specie di élite cattolica che se la crede moltissimo. Waugh era interessato alla religione, ma anche alle pompe del cattolicesimo, il papa, Roma… Che pure per me è il posto più magico del mondo. Poi mia madre era irlandese, dunque il patto con mio padre era: i bambini avranno il battesimo”. E questo suo padre com'era? “Era un economista e uno studioso, che a un certo punto inopinatamente ha pensato di mettere su un’azienda, ed è stato ovviamente un totale disastro, perché mentre sproloquiava di business la sua vera passione era scoprire qualche nuovo santo sconosciuto, passavamo ogni weekend a dragare chiese in mezzo al nulla”.

 

Il cattolicesimo è comunque un tema che lo appassiona. “Ah, i cattolici. Ha notato che in America i liberal stanno facendo di tutto per far entrare il maggior numero di latinos possibili? Ma quelli sono tutti cattolici, sono contro l’aborto, voteranno tutti repubblicano. Non capiscono un cazzo, i liberal americani”. Va bene. “Del resto sono i liberal stessi che sono totalmente cristiani. Nietzsche aveva ragione, è una religione secolare. Dogmatici. Definizioni per tutto. Bianco o nero. Si sparerebbero pur di non avere un repubblicano a tavola”.

 

Oltre a Greene e Waugh, chi altro la ispira? “Daphne du Maurier. Scrittrice incredibile. E Patricia Highsmith. Per come fa muovere i personaggi nello spazio. E poi i dialoghi. I dialoghi, lo vedo quando scrivo per il cinema, sono così importanti. Per girare una scena ci metti una giornata, e allora capisci quanto contano. Invece gli scrittori normalmente prendono i dialoghi come spiegoni, come momento in cui dicono: adesso vi mostro quante ne so e quanto sono ganzo. Ma molti scrittori non sono storyteller, non sanno raccontare una storia, pensano al linguaggio, allo stile. Io quando scrivo un dialogo invece lo recito da solo, ad alta voce, per vedere se funziona. Evelyn Waugh diceva: non descrivere: fai muovere il tuo personaggio nello spazio e nel tempo e fallo parlare!”. Senta, ma lei è imparentato con John Osborne il drammaturgo? “Non so, credo che tutti gli Osborne siano imparentati tra loro in qualche modo. Quando vivevo a New York a un certo punto mi chiamano da uno show televisivo e mi dicono che Ozzy Osborne voleva ritrovare e riunire tutti gli Osborne nel mondo, se avevo piacere, loro li stavano rintracciando tutti per fare un programma a Los Angeles. Li ho mandati al diavolo, che altro dovevo fare?”. Ma alla fine lei, Osborne, non si vede un po’ come un cliché, lo scrittore inglese in Asia? “Non me ne frega un cazzo. Ma poi quale cliché? Io non conosco nessun altro scrittore inglese in Asia. Qua ci sono solo ragazzotti che lavorano in startup tecnologiche. E poi sarei un cliché se fossi nel sud della Francia negli anni Cinquanta, tipo Somerset Maugham. Che poi, chi non avrebbe voluto essere Somerset Maugham nel Sud della Francia negli anni Cinquanta, o Greene a Capri. Magari, essere quel cliché lì". 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).