Il Foglio Weekend
La legge di Murphy
Da “Glee” a “Dahmer”, tra glamour e mostri, ecco il produttore che ha reinventato il ’900 americano (e salvato Netflix)
Si potrebbe studiare cos’è stato il Novecento americano solo vedendo i suoi film e telefilm, e volendo, stare chiusi in casa per un anno guardando tre ore al giorno di show scritti, diretti o prodotti da lui. Mille ore di – avremmo detto un tempo – pellicola, e anche quest’ultimo successone, “Dahmer”, thriller spaventoso sul serial killer che ha ucciso, sventrato, e in parte anche mangiato 17 sfortunate vittime tra il 1978 e il 1991 in America è opera sua, di Ryan Murphy.
E’ sopravvissuto a polveri e altari, “ho cambiato più vite io di Madonna”, dice il cinquantaseienne Murphy in un fondamentale colloquio con Maureen Dowd sul New York Times. Il suo Dahmer interpretato da Evan Peters, un Helmut Berger con occhialoni da Nicoletta Orsomando, sta spopolando.
Settecento milioni di visualizzazioni, il secondo prodotto più visto nella storia di Netflix dietro “Stranger Things”, Ryan Murphy è salvatore della patria, anche. L’aziendona californiana infatti da qualche mese sembrava bollita, decotta, fine di un altro sogno californiano mentre tutta la Silicon Valley trema e le azioni di quelli che un tempo erano i magnati crollano (basti pensare a Mark Zuckerberg, colui che un tempo era il master tra i Master of the Universe, e ora ha il patrimonietto di un italiano billionaire medio dopo che le azioni della fu Facebook hanno perso il 70 per cento del loro valore). E anche Netflix, altro simbolo della Valle, traballa. Il suo fondatore, Reed Hastings, è stato per un po’ uno Steve Jobs dell’intrattenimento, con l’autobiografia diventata manuale di management, grande classico dell’industria culturale americana, ci sono quelle della Nike e quella di General Electrics, ma la sua teoria peculiare per i suoi dipendenti era: fate più vacanze possibili, e chiedeteci più soldi, fate colloqui di lavoro, accettate altre proposte, e ditecelo, che noi vi daremo di più. Certo oggi che la Silicon Valley taglia stipendi e posti di lavoro a tutto spiano servirebbe un’edizione rivista e aggiornata. Adesso però l’aziendona è rinata, e certo conterà che è corsa ai ripari, ha messo la pubblicità, ma certamente si è capito che certe “hit” pesano. E alla fine colui che sembrava un grande affossatore, Ryan Murphy, col suo contratto stellare da 300 milioni di dollari, che ha strappato nel 2018 per venir via da Fox e che non ha precedenti nella storia della televisione, adesso è tornato l’uomo d’oro.
Non solo con Dahmer. Anche con un altro successone del momento, “The Watcher”, thriller immobiliare, un “Rosemary’s Baby” del mattone, storia abbastanza archetipica di una mite famigliola newyorchese che decide di fuggire alla metropoli comprando un casone che non si può permettere in un sinistro paesino, e da lì una serie di persecuzioni e disgrazie, con un’agente immobiliare impersonata da Jennifer Coolidge e Mia Farrow che con grande autoironia fa una micidiale vicina tipo del Fai o della soprintendenza, che mette in croce i nuovi arrivati su qualunque miglioria di casa (e forse fa parte anche di una setta di bevitori di sangue di bebè, grande autocitazione). Indovinate chi l’ha prodotto? Sempre lui.
Noto per essere cattivissimo, per l’ossessione del dettaglio, segno zodiacale scorpione con ascendente scorpione e luna scorpione, un marito fotografo paziente che ne sopporta le stramberie, tra cui il non dormire la notte ma fare dei micropisolini da 15 minuti (“mi sento in colpa a dormire una notte intera, mi sembra che ci siano cose più importanti da fare”, dice, insomma peggio di Francesco Costa). Un’infanzia problematica a Indianapolis in una famiglia mezzo irlandese e mezzo danese (come Dahmer), cresciuto con una nonna adorata che gli fa vedere i film dell’orrore (come Dahmer), poi bullismi scolastici e sofferenze. Voleva fare il giornalista, comincia dalla nera, dove si presenta vestito tutto di bianco, omaggio a Tom Wolfe, sulla scena di un crimine, e un vecchio cronista gli dice: mai il bianco per la nera, ti sporchi. Gira diversi giornali, ma finisce per intervistare sempre la sua star preferita, Cher, che alla ennesima visita pare gli abbia detto: basta! Non puoi intervistarmi di nuovo. E lui lì ha capito che avrebbe dovuto cambiare mestiere. “Sono sempre stato un underdog” (proprio come Giorgia!), ha detto. I primi anni a Hollywood, i Novanta, sono stati duri perché ancora nessuno voleva sentire di storie di neri, di gay, di donne sopra i 40. Lui ha dato voce a tutti questi, è stato una specie di Ellen De Generes delle serie tv, e oggi sembra il solito lamento, e sembrano passati 100 anni e non trenta, però era davvero un altro mondo, ed era davvero così, non solo a Hollywood.
Il suo primo successo e manifesto di stile è stata la serie “Nip and Tuck” su due chirurghi estetici, con grafiche e problematiche ed estetica ipermoderna e basato sulla sua ossessione per “Conoscenza carnale” di Mike Nichols. Poi fa “Glee”, fenomeno scolastico-globale che lo avvicina alla grande massa, forse troppo. L’enorme affermazione che lo ha definito arriva però con il genere “American Crime Story” cioè la rivisitazione di grandi drammi legali-criminali d’America: ecco la serie su Gianni Versace assassinato a Miami, quella su O. J. Simpson, su Clinton e Lewinsky, e poi ancora il mondo dello studio 54 con “Halston” e i diari di Andy Warhol, e “Feud” sulla lotta tra Joan Crowford e Bette Davis, viaggio agli inferi del divismo, omaggio a “Viale del tramonto”, film che ovviamente ossessiona Murphy.
Odia la definizione di “camp”, che ritiene offensiva e di nicchia e vagamente omofoba, e preferisce “barocco”, che ispira grandezza. Lui vuole il successo su larga scala, vuole un prodotto di qualità che però sia visto da tutti. I suoi idoli sono Steven Spielberg, David Fincher e appunto Mike Nichols più che Jill Soloway, la creatrice di “Transparent”, di culto ma di nicchia. La sua ricetta per un prodotto di successo: “Dev’esserci qualcosa che piace a tutti e qualcosa che offende tutti”, ha detto al New Yorker. E mantiene la promessa: qui in “Dahmer”, uno dei suoi prodotti migliori, è tutta una sotto (mica tanto) trama su quanto la comunità afroamericana di Milwaukee sapesse, denunciasse i delitti che via via si susseguivano, e non fosse mai ascoltata. La polizia infatti per anni non dà seguito alle denunce dei vari vicini di Dahmer, unico bianco in un quartiere di afroamericani malmessi, e la prima volta che la polizia irrompe lui dice che la casa è “piena di roba gay, sapete”, e la polizia invece di perquisire l’appartamento se ne va perché lui è bianco, ma anche perché ha paura di infettarsi, moralmente e igienicamente, sono i tempi dell’Aids ancora “castigo di Dio”.
Il suo gay cattivo e bianco e ammazza-neri non è piaciuto per niente alla comunità. Se era stato acclamato con “Pose”, che raccontava il periodo leggendario delle case da ballo nere e trans nella New York dell’Aids, qui si sono arrabbiati tutti (e Netflix ha tolto prontamente l’etichetta “Lgbt” alla serie, e lui ha risposto “non tutte le storie gay possono avere un lieto fine”). Definito “the most powerful man in tv” dal New Yorker e “il re dello streaming” da Time, l’uomo da trecento milioni di dollari che ha battuto la rivale Shonda Rhimes, che da Netflix un anno prima aveva avuto la miseria di 100 milioni, gli inizi con la nuova piattaforma, come direbbero a Boris, non sono stati semplicissimi. “The Politician,” “Hollywood,” e “The Prom” sono andati bene ma non benissimo, mentre la rivale aveva messo a segno un colossale successo come “Bridgerton”. Ma poi ha ingranato e ormai è a tutti gli effetti un classico, o forse ha solo finalmente azzeccato quella che Walter Benjamin chiama l’èra della leggibilità, il momento in cui la tua sensibilità, il tuo prodotto artistico, si allineano coi gusti del momento. Così per esempio la Fox nel 2008 aveva rifiutato sdegnata un pilota per una serie che trattava di una coppia maschio-femmina, tranquilla famiglia del Connecticut, dove in realtà sia lei che lui erano trans. Dopo sei anni arrivò invece “Transparent” e le persone trans comparvero improvvisamente in tv anche in versione non ammazzata e/o da marciapiede. Prima era semplicemente troppo presto.
Nella raccolta di saggi “Ryan Murphy’s Queer America” a cura di Brenda R. Weber (Taylor & Francis, Stati Uniti 2022), viene definito “re dell’ucronia televisiva americana”, è insomma colui che riscrive le storie del passato “come se”. In questo, il contrario della cancel culture, come ponendo tutto un apparato di note che spiegano il perché e il per come sotto ritratti di personaggi e periodi impresentabili. “Voglio prendere Hollywood e riscriverla come se fosse un plot hollywoodiano”, ha detto Murphy della sua serie in cui racconta il grande mito del cinema americano però con gli occhi delle minoranze, neri, asiatici, omosessuali, donne, tutti soggetti che non avevano voce in capitolo. In “Hollywood” la storia parte dal punto di vista di un aspirante attore che diventa gigolò nel leggendario distributore di benzina (ed escort) di Scottie Bowers, e da lì si vede come il cinema che irrora l’America e il mondo di immagini di maschioni e femme fatale fosse in realtà un mondo segreto in cui tutti, da Farley Granger a Montgomery Clift a George Cukor a Katharine Hepburn si sforzano di tener su una facciata molto etero a uso della casalinga dell’Ohio.
Accusato d’essere camp, lui sembra dire: è la realtà, è il mondo a essere camp, non io. Il grande segreto di Murphy è rendere palatabili al grande pubblico americano e globale storie che altrimenti non gli arriverebbero mai. Forse distraendo l’audience con la perfezione dei dettagli, col sesso, con l’estetica perfetta, col glamour, o forse col fatto che i suoi prodotti sono sempre e comunque una celebrazione del sogno americano e dei buoni sentimenti – anche “Dahmer” alla fine più che la storia di un serial killer è la storia di un padre e un figlio. “Sono un’anziana donna bianca nata e cresciuta nel Midwest”, scrive una tale Anne da Clermont, Florida, commentando l’intervista di Murphy al New York Times. “Amo la maggior parte degli show di Murphy. Anche se non tutti. Lui sa creare personaggi che sono semi-incredibili ma riesce a dargli vita. Probabilmente io non faccio parte del pubblico tipico di Netflix ma ogni volta che Murphy fa una cosa nuova ne prendo nota. Quella su Versace è stata una delle serie più belle mai viste, secondo la mia umile opinione”.
Il murphismo si applica al “true crime”, ma anche a vite vissute davanti ai riflettori, drammi e ossessioni nazionali. Lui se li prende tutti, sarebbe come se in Italia un solo autore avesse l’esclusiva su: caso Moro, vita di Mina, delitto Pasolini, suicidio Tenco, Ustica, Dolce Vita, strage di Bologna, delitto del Circeo, vita e morte di Raul Gardini, mostro di Firenze, delitto MPS, Marta Marzotto, Garlasco, Valentino Garavani, saponificatrice di Correggio, e poi ancora Cogne, Uno Bianca, rivalità Gina Lollobrigida-Sophia Loren, presidente Leone con Donna Vittoria al Quirinale. Come se tutto questo ben di Dio non andasse disperso tra tante produzioni e docufiction e capostruttura ma invece indagato e rimasticato da un mostro con un unico corpo e le teste di Walter Veltroni e Dario Argento e Luca Guadagnino e Franca Leosini operando secondo un’agenda coerente e molto algoritmica senza sbagliare un colpo (e Marco Prato? Le similitudini con Dahmer sono parecchie: la droga nel bicchiere, l’accanimento sul cadavere. Che fosse una delle reference del delitto?).
Murphy ha fatto anche film di successo (“Mangia, prega, ama”, “The boys in the band”) ma dice di trovarsi meglio con la serialità. E certo c’è ancora una serie di soggetti evidentemente pronti per lui: assassinio Kennedy, vita scandalosa di Gore Vidal, e chi non amerebbe un thriller su Trump, un 10 puntate da trenta minuti tra Mar-a-lago e la Trump Tower. E gli ultimi giorni di Ivana Trump, così murphiani. Insomma il metodo Murphy può applicarsi a quasi tutto, basta che ci sia un po’ di dramma e un po’ di glamour. E un po’ di orrore. Ma perché tanto orrore, gli chiede Maureen Dowd. “Perché il mondo è un posto oscuro e lo sta diventando sempre di più. E le persone cercano un posto su cui riflettere la loro ansia”. Dunque murphismo, si capisce, come bene rifugio, come l’oro, perché il termometro dell’ansia indica rialzo.
Adesso sta per fare un’altra serie su un altro momento topico della storia americana: Truman Capote e il suo Ballo in bianco e nero (già, ogni volta che Murphy fa qualcosa la prima cosa che viene in mente è: perché non ci ha pensato prima qualcun altro?). Ed ecco i cigni, le leggendarie dame capotiane, quelle di cui si circondava lo scrittore e che poi lo ripudieranno dopo la pubblicazione del meraviglioso “Preghiere esaudite”, il primo capitolo della sua saga proustiana sull’alta società newyorchese, in cui, nel più celebre suicidio sociale che si sia mai visto nella letteratura, Capote brucia in un attimo la reputazione, le relazioni, l’amicizia, conquistate duramente. Mettendoci dentro malefatte, pettegolezzi, anche casi giudiziari dell’alta società americana che l’aveva fino a quel momento vezzeggiato. Come si sa, tutti gli toglieranno il saluto. Ann Woodward, la storia più incredibile che lui mette pari pari nel libro, arrampicatrice sociale che al culmine dell’arrampicata riesce a far fuori il marito facendolo sembrare una conseguenza di una rapina, e grazie all’enorme influenza della famiglia acquisita la fa franca con la polizia, alla pubblicazione del libro viene nuovamente indagata, e si suicida. Nella serie sarà interpretata da Demi Moore. Naomi Watts invece fa Babe Paley. Calista Flockhart fa Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, e Chloë Sevigny C. Z. Guest. Capote sarà interpretato da Tom Hollander.
Scrivendo, producendo, occasionalmente dirigendo, Murphy prende delitti e archetipi del passato d’America, li fa rivivere con aggiunta di molto glamour e una spruzzata di sensibilità contemporanea e pistolotti inclusivi. Però lui prende queste storie passate e le presenta alle nuove audience tirate a lucido e dunque nuove di zecca, anche approfittando della strana cognizione del tempo d’oggi, per cui qualunque cosa successa prima della nostra nascita si dà per fenomeno archeologico non rilevante se non rivisitato da podcast o serie tv (del resto Calenda ha deciso di chiedere spiegazioni al Vaticano solo dopo aver visto la serie Netflix su Emanuela Orlandi). Dunque tutto è sempre nuovo, ed è chiaro che se ti poni dal lato del fornitore di contenuti si aprono praterie. Così oggi per esempio tra i millennial e i generazione Z che non ne avevano mai sentito parlare, quella di Dahmer è una novità sconvolgente; su questo serial killer gay fioriscono i meme, vanno a ruba i costumi di Halloween, arrivano tra l’altro conseguenze sistemiche impreviste, amici raccontano infatti di appuntamenti che saltano improvvisamente e di continuo quando il prescelto sulla app arriva a casa e invece che rilassarsi si guarda intorno sospettoso e vuole controllare ogni angolo dell’appartamento in cerca di coltelli e depositi di corpi, annusa l’aria in cerca di carni in decomposizione, e non sia mai che gli offri un drink: quello analizzerà se ci sono polveri strane, e tutta un’ansia, insomma il murphismo sta portando a un crollo dell’erotismo. Ci mancava solo questa, con ’sta crisi.