Evviva la stampa

Il de profundis per i giornali? Ma intanto è gara ad accaparrarsi una testata

Stefano Cingolani

Le edicole chiudono, la carta costa troppo, quella stampata è un residuo del “secolo breve” (così si dice), farà la fine delle cabine telefoniche, eppure in quanti vogliono ancora avvolgersi nelle pagine odorose di piombo. In Italia e nel mondo

Lo vendo o non lo vendo? Silvio Berlusconi sfoglia le pagine del suo Giornale come se fossero petali della margherita amorosa. Il fratello se ne vuol disfare, i figli anche, il Cavaliere eletto senatore teme di fare come l’arcirivale Carlo De Benedetti: ha ceduto Repubblica spinto dagli eredi, poi se la voleva riprendere, infine ha fondato un quotidiano ben più piccolo anche se pieno di speranze a cominciare dalla testata: Domani. C’è poi un altro bel problema: a chi darlo? Agli Angelucci che puntano al monopolio della stampa di destra? Finirebbe nella tenaglia tra i Fratelli e i leghisti che si vogliono pappare gli azzurri ancora rimasti in pista. C’è sempre Urbano Cairo: l’editore del Corrierone per ora è in finestra e guarda da via Solferino. 

Lo compro o non lo compro? La Gedi di John Elkann sta cedendo i suoi giornali locali e non ha problemi a trovare acquirenti. Il Tirreno in Toscana, le Gazzette di Modena e Reggio e la Nuova Ferrara in Emilia-Romagna sono passati a una cordata di imprenditori toscani, romani e abruzzesi rappresentata da Alberto Leonardis che ha acquistato anche la Nuova Sardegna. La Finint, investment bank di Conegliano Veneto, presieduta da Enrico Marchi che presiede anche la Save (aeroporto di Venezia), ha ricevuto mandato da una cordata di industriali veneti, friulani e lombardi, per valutare gli asset del Nordest che la Gedi potrebbe cedere: il Mattino di Padova, la Nuova di Venezia, la Tribuna di Treviso, il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e il Piccolo di Trieste, la Gazzetta di Mantova. Del pool potrebbe far parte il gruppo farmaceutico Stevanato, impresa familiare con sede a Padova, ma quotata nel 2021 a Wall Street. Ma fa gola soprattutto la Repubblica. Tutti la vogliono e nessuno se la piglia, almeno finora.

 

S’è fatto avanti Danilo Iervolino che lo scorso anno ha comprato l’Espresso per 5 milioni di euro. Secondo indiscrezioni, avrebbe offerto 60 milioni, troppo poco. E il pour parler s’è incagliato sui debiti troppo pesanti e sui giornalisti giudicati troppi e troppo sindacalizzati. Il comitato di redazione è sul piede di guerra, tutto il gruppo Gedi ha scioperato contro “la messa sul mercato” delle gloriose testate. Elkann getta acqua sul fuoco; nel ventesimo anniversario dalla morte dell’Avvocato ha ribadito il suo impegno, ma non sappiamo se terrà le tre bandiere (la Repubblica, la Stampa e il Secolo XIX), aprirà le porte a editori stagionati o farà da “angelo”, come si dice in finanza, per aspiranti editori. Wait and see. 

Le incognite sulla Repubblica mettono in risalto i risultati di Urbano Cairo, quelli finanziari per aver sistemato i conti della Rcs, quelli editoriali anche con nuove iniziative (i libri Solferino) che hanno mandato in sollucchero i bibliofili in un paese dove si continua a leggere poco, troppo poco. Ma soprattutto è stata aggiustata la barra del Corsera: dopo periodi di zigzag e fascinazioni per un italico andare verso il popolo, ha ripreso la sua tradizionale navigazione a destra della sinistra e a sinistra della destra. Talvolta sembra riprendere il missirolismo (si racconta del mitico Mario Missiroli il quale non  sapendo che pesci pigliare raccomandava di scrivere pezzi “brevi e confusi”). Ma la copertura della guerra in Ucraina è ricca di fatti e analisi, impeccabile. I narodniki si sono spostati a destra (il russo non lo abbiamo usato a caso) con testate come Libero, il Tempo, la Verità che hanno tagliato l’erba sotto i piedi al Fatto quotidiano, ridotto a fare da agenzia Stefani giustizialista e post-grillina.

Le edicole chiudono, la carta costa troppo, quella stampata è un residuo del “secolo breve” (così si dice), farà la fine delle cabine telefoniche, eppure in quanti vogliono ancora avvolgersi nelle pagine odorose di piombo. Un giornalista elegante e di successo, Piero Ottone, grande amante del mare e dei potenti, ha raccontato che nel 1974 chiese a Eugenio Cefis che cosa se ne faceva di un quotidiano. Ex braccio destro di Enrico Mattei, indiziato da Pier Paolo Pasolini come l’occulto persuasore dietro il presunto attentato al patron dell’Eni, Cefis aveva scalato la Montedison e poi acquistato dai Perrone il Messaggero, numero uno senza rivali sulla piazza romana, ma puntava al bersaglio grosso: il Corriere della Sera. Alla domanda impertinente di Ottone il manager rispose: “Io sono un industriale e ho bisogno di favori dai politici, per restituirli il modo migliore è possedere un giornale”. Sarà vero? Cefis, sostenuto da Amintore Fanfani, si dimise all’improvviso tre anni dopo. Enrico Cuccia, che gli aveva rifiutato un aumento di capitale, lo salutò con il suo gelido sarcasmo: “Ingegnere, io pensavo che lei volesse fare un colpo di stato”. Ottone diresse il Corsera poi passò alla Mondadori e scrisse per la Repubblica di Eugenio Scalfari e De Benedetti.

Il profumo della carta stampata inebria, anche se i massmediologi intonano il de profundis e si racconta che il futuro, anzi il presente, è ormai nei social media, per le notizie, la formazione dell’opinione pubblica, la sua manipolazione, la costruzione del consenso politico-sociale. Anni fa, all’alba della grande trasformazione digitale, l’Economist pubblicò una lunga analisi sul destino dell’informazione paragonando Facebook, Twitter e tutti gli altri ai caffè dove un tempo si scambiavano chiacchiere, indiscrezioni, opinioni, s’intrecciavano relazioni e affari. In copertina un disegno ispirato a William Hogarth sulla bottega del caffè.

 

L’Italia nel XVIII secolo seguiva a ruota, anche se più sofisticata della rozza Inghilterra: noi potremmo pubblicare il quadretto di Antonio Perego con Pietro Verri e Cesare Beccaria. Altre epoche, però la sostanza non cambia molto. Nessuno può negare l’importanza del Caffè in versione digitale, anche se veicola fake news. Non era così pure un tempo, la calunnia non è sempre stata un venticello? Quando William Hearst pronunciò la sua battuta programmatica: se una notizia non c’è inventatela, c’era ancora il telefono a manovella. E quando Orson Welles girò “Quarto potere” il Giappone non aveva ancora attaccato Pearl Harbor. Niente di nuovo sotto il sole? Attenti al facile qualunquismo continuista, tuttavia la speciale relazione che la stampa ha creato tra società civile e politica, tra masse e potere, tra base e vertice della modernità, mantiene una sua corposa permanenza. E solo un giornale può ancora entrare nella stanza dei bottoni. 

Diceva Giovanni Agnelli, il Senatore: “Non importa quanto vende, importa che ogni mattina la Stampa sia sul tavolo del capo del governo”. Diceva Gianni Agnelli, il nipote: “Per me il massimo è vedere un professore dell’università di Palermo che esce con la Stampa in tasca. Voglio che sia il giornale dell’élite, che faccia cultura”. Enrico Cuccia gli consigliava di tenersi lontano dai giornali, ma l’Avvocato si comprò due volte il Corriere della Sera, per “spirito di servizio”, fingendo sempre di fare un favore di volta in volta ai Crespi o a Pertini. Diceva Ted Turner prima di mettersi con Jane Fonda: niente news, la tv si fa con lo sport e film di successo. Poi fondò la Cnn, prima televisione all news. Rupert Murdoch sul cui impero mediatico non tramontava mai il sole è tornato ai vecchi amori, ha venduto i film a Disney e si è tenuto i giornali più la Fox tv. Ha ceduto persino Jeff Bezos comperando il Washington Post per 250 milioni di dollari, soldi suoi (tanto non gli mancano) e lo ha rilanciato alla grande. 

 

E’ stato davvero un colpo a sorpresa. Il quotidiano della capitale reso famoso urbi et orbi dallo scoop sul Watergate che fece dimettere Richard Nixon, detto “Tricky Dick” per la sua abilità manovriera, navigava da tempo in acque stagnanti, surclassato dal New York Times e da un Wall Street Journal reso sempre più generalista da Rupert Murdoch che lo aveva comprato nel 2007 insieme a tutta la Dow Jones. E così, all’improvviso, il re dell’e.commerce, l’uomo che con Amazon ha reso internet un vero negozio globale, un bel giorno del 2013 decide di gettarsi in un’avventura che il senso comune riteneva destinata al passato, perché intanto negli States fallivano una dopo l’altra testate gloriose come il Los Angeles Times. Si disse che avrebbe licenziato a man bassa invece ha assunto frotte di nuovi giornalisti, giuravano che avrebbe messo tutto online, invece chi lo compera a Washington o a New York si trova in mano fogli e fogli di colonne stampate, foto, vignette. L’edizione digitale è sofisticata ed elegante, più di altre, quella cartacea serve da sostegno. In questi dieci anni il giornale è tornato a vincere premi Pulitzer e a far tremare i potenti. A cominciare da Donald Trump. Quando nel 2016 scalava la Casa Bianca, il quotidiano mise sotto la testata una frase drammatica: “La democrazia muore nelle tenebre”, proclamandosi campione del sistema liberale attaccato dal nazional-populismo. Ora si scopre che ha vinto la battaglia anche contro Murdoch: il vecchio Rupert ha ammesso davanti alla commissione d’inchiesta che la sua Fox tv ha mestato nel torbido, diffondendo fake news; la democrazia muore nelle tenebre, ma c’è una luce alla fine del tunnel. Il ciclone Bezos ha rivitalizzato l’inaffondabile corazzata The New York Times. Mentre il Boston Globe vanta oggi più abbonati all’edizione tradizionale che a quella digitale.

Anche in Francia la battaglia dei giornali si gioca sulla doppia arena, quella dell’industria e quella della politica. Non è una novità, al di là come al di qua delle Alpi è sempre stato così, ma adesso sono tornati in campo i pezzi da 90. Le Figaro, il prestigioso quotidiano fondato nel 1826, con lo spirito repubblicano alla Beaumarchais, suscita gli appetiti di Vincent Bolloré e di Bernard Arnault, il re del lusso. Ci hanno già provato due anni fa presentando due distinte offerte, ma gli eredi di Serge Dassault, protagonista dell’industria aeronautica e militare, che lo comprò nel 2004 dal gruppo editoriale Hersant, hanno respinto le avance: “Non venderemo la nostra storia, nemmeno per un miliardo di euro”, ha dichiarato Laurent Dassault. Non resta che attendere. Per il rivale progressista Le Monde si sono mossi Mathieu Pigasse della Lazard e Xavier Niel di Iliad. Per il gauchiste Liberation l’uomo d’affari ebreo marocchino Patrick Drahi dalle multiple nazionalità (francese, portoghese, israeliana, svizzera), magnate delle telecomunicazioni, oltre che proprietario di Sotheby’s. La stampa britannica è dominata da ricchi investitori diventati editori come i gemelli Barclay Frederick e David (morto nel 2021 a 86 anni), che sono dietro il Telegraph. Murdoch ha scosso l’establishment quando ha comprato il vecchio Times e ha usato come una clava il Sun e il News of the World. Affari, politica, informazione, una triade all’opera anche in Germania. Il paese è sempre stato dall’Ottocento in poi quello in cui si legge di più, quotidiani e settimanali di qualità ancora prosperano, un tabloid come la Bild Zeitung è in grado di distruggere un cancelliere. E’ la gallina dalle uova d’oro per Axel Springer che pubblica anche Die Welt, la bandiera intellettuale del gruppo, insieme a una quantità di periodici.
 
La novità del gruppo Springer è l’ingresso dei fondi americani con KKR (possiede il 42 per cento) e questo può aprire un nuovo e promettente scenario. Ha fatto molto discutere il fondo Alden, con sede a Manhattan, specializzato nell’acquistare prominenti riviste e quotidiani locali, spremerli per generare profitti a breve termine, poi decidere se tenerli in vita o disfarsene. Nel suo portafoglio sono finite testate storiche come il Chicago Tribune, il Baltimore Sun e il Denver Post destinate all’estinzione. Non tutti seguono la stessa filosofia, anche se nessuno fa beneficenza, far fruttare i denari che raccolgono è un imperativo per questi veicoli finanziari. Arriveranno anche in Italia? Per ora stanno conquistando il calcio, mentre penetrano nelle infrastrutture (la rete telefonica, le autostrade). Potrebbero portare anche nell’editoria nuova linfa e capitali dei quali c’è un gran bisogno soprattutto ora che si sono risvegliati gli appetiti. 

La crisi esiste, non è un’invenzione. Anche il Washington Post ne sente i morsi e l’anno scorso gli abbonati sono scesi da 3 a 2,5 milioni, il che ha solleticato il palato di Michael Bloomberg che vorrebbe comprarsi anche il Wall Street Journal. Ogni crisi è cambiamento, ma da quale crisi sono scossi oggi i giornali? C’è la selezione, come in tutte le industrie colpite da innovazioni distruttive e insieme creatrici. I social media ne fanno parte come i robot o le stampanti 3D nell’industria manifatturiera, come l’intelligenza artificiale che attraversa già il lavoro e il divertimento, il tempo necessario e il tempo libero. Il giornale è un’impresa, guai se non lo fosse, ma un’impresa speciale, per molti versi assomiglia alla banca, l’uno e l’altra hanno una responsabilità particolare perché trattano materie molto particolari, la moneta e l’informazione, se le sprecano o le usano male sono punite dalla legge, dai lettori, dai risparmiatori. Balzac ce l’aveva con i giornalisti e sosteneva che sono peggio dei politici perché non devono rispondere a nessuno; aveva torto, debbono rispondere ad ampio raggio, hanno tutti gli occhi puntati, pagano se mentono sapendo di mentire, ma anche se lo fanno per insipienza. Nella squadra dei media, il giornale cartaceo è come il pivot del basket, palleggia, costruisce il gioco, passa e fa anche canestro. Se la tv porta il mondo nel salotto di casa, se lo smartphone mette il mondo in tasca (o così sembra), il pulviscolo dei dati e delle informazioni lanciate alla velocità della luce, si deposita nel vecchio giornale che si rinnova restando se stesso. “Perché parliamo delle pene di internet e non del dono che ci fa?” esordì Bezos agli esterrefatti dipendenti del Post. Aveva ragione lui, il digitale non si è mangiato la carta, per certi versi l’ha resa più esclusiva. E’ una nicchia rispetto alla massa di notizie più o meno grezze che circolano altrove? Forse, ma è una nicchia d’eccellenza. Il giornale deve imboccare strade nuove e non le ha ancora trovate? Senza dubbio, ma il “quarto potere” sta ancora nelle sue pagine. Oggi è così, del doman, per fortuna, non v’è certezza.

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