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Il Foglio del Weekend

Chiara Francini, la star scomposta, e il suo romanzo senza dolori né tragedie

Michele Masneri

L'attrice ha fatto un altro libro, il quinto, si chiama “Forte e chiara”, edito da Rizzoli, una storia di provincia italiana tra Pieraccioni. “Amici miei”, Muccino e Paolo Poli

Chiara Francini è uno strano essere multimediale, attrice-conduttrice-scrittrice, e dunque intercetta bolle di celebrità che non si incontrano mai: per strada le chiedono autografi che lei rilascia felice e orgogliosa della gavetta che ha fatto, gavetta probabilmente moltiplicata per tutte le bolle in cui oggi la celebrità è frammentata. Io fino a un anno fa non l'avevo mai sentita nominare. E il fan che l'ha vista a Domenica In probabilmente non incrocerà mai quello che l'ha amata in Drag Race Italia.  E' dunque  la perfetta star contemporanea, è la star scomposta. Come il tiramisù che ti assemblano davanti al ristorante, tutte le sue parti  ti si ricompongono davanti in un carboidrato pieno di energia.  


Ha uno strato anche letterario: ha  fatto un altro libro, il quinto, si chiama “Forte e chiara”, edito da Rizzoli, una storia di provincia italiana tra Pieraccioni e “Amici miei” e  Paolo Poli, è un libro  pieno di parenti, amici dai nomi strani, gatti, anche cacca, unto, grasso, focacce. Non sarà Balzac ma è full of life, e poi non ci sono malattie, depressioni, disgrazie, allergie, alluci valghi, ingredienti ormai fissi della fiction e autofiction italiana del dolore. Tutto merito di sua  mamma. La mamma che le dice “chi ti fa più di mamma ti inganna”. Che la chiama “labbrino di ciuco”. “Sì”, dice Francini, di corsa, bella, col gran seno che rileva molto nella sua narrativa, e questa bocca, questa bocca “che tutti pensano che mi son rifatta”. Invece è così dalla nascita.  “Mia mamma pensava avessi una deformazione, perché la bocca andava tutta in verticale – sempre ottimista – e l’adorato zio Nilo dovette rassicurarla: stai tranquilla, semmai le faremo una plastichetta”. “Ma la mamma mi chiamava anche ‘zanne all’infori’”.

 

Come chi  non soccombe a genitori brutaloni, stringendo i denti, Francini ha un'autostima micidiale. La sua vita a proposito è anche uno slalom tra apparecchi fissi, mobili, col baffo, con l’elastico. Come va la bocca   adesso? “Ho ancora questo dente qua da sistemare”, e mi tira fuori  un incisivino piccolo piccolo, che non si nota neanche, sotto, davanti, un po’ storto. Ma lasci perdere, non si vede. “Scherza? Con quello che ho speso!”. E il dottor M, lo vede ancora? Il dottor M  del romanzo è il  dentista di fiducia di casa Francini. “Il dottor Mugnaini, certo, viene a tutte le mie presentazioni. Mio padre era convinto che a un certo punto avrei dovuto sposarlo, visto quello che ci avevo speso”. Il papà anzi babbo Giancarlo è un altro formidabile personaggio, toscano ma inurbato a Vitinia, provincia romana, poi tornato a Campi Bisenzio, dove viene considerato esotico per l’accento e le consonanti doppie, e doppio pure il  lavoro, impiegato alle poste e poi istruttore di scuola guida, “ha insegnato a guidare a tutti, compresi i molti cinesi del posto. A tavola, la sera, ci rendicontava di come si fosse spratichito col mandarino: ciu so, ling ling”.

 

E’ chiaramente un personaggio da “Amici miei”: insieme al conte Mascetti, al giornalista Perozzi e all’architetto Melandri l’istruttore Francini sarebbe stato perfetto. Il papà che a un certo punto per accompagnare Chiara adolescente in discoteca a Riccione viene abbordato da un gruppo di maschioni, durante le vacanze anzi villeggiatura, evento straordinario che si svolge alla pensione Jole di Bellaria con appositi cestini per le cartestagnole dei burrini monodose. E poi a fine estate si torna  a casa, alle case popolari, le “case Fanfani” (quando si faceva l’housing sociale). A chi mi diceva: “Te di chi tu sei figliola?”, io rispondevo precisa: “della Sara, la figliola dell’Orlanda, delle case Fanfani”, scrive Francini.  L’Orlanda, la nonna, “tutta tonda, e unta come la focaccia, detta anche l’Orlanda furiosa”, è un altro personaggio dell’epopea di Campi, anzi “Hampi”, secondo la fonetica francinica. Ma non la stufa un po’ questa cosa della toscanità? “Me lo chiede perché sono donna, non direbbero mai il giornalista fiorentino o l’attore fiorentino. La donna sì. E poi io recito in italiano, ma che ci posso fare se il toscano rimane impresso. Anche in ‘Tutti pazzi per amore’, dove ho fatto 9 pose, praticamente ho fatto gomito, tutti si ricordano la parrucchiera toscana Bea”. Che sarebbe fare gomito?  “Quando interpreti un personaggio di cui viene inquadrato solo quello”. Insomma la toscanità è negli occhi di chi guarda. E’ pericolosa la toscanità, agli italiani piace e poi non piace più. Lei poi ha fatto il liceo Dante di Firenze, come Renzi. Da Campi Bisenzio a Rignano è un attimo.  

 

Al liceo, Renzi non l’ha mai visto, ed ecco invece storie straordinarie, c’è chi va in corriera come lei, col Barbour tarocco, e poi ci sono le “Marievittorie”, coi cognomi francesi e i maglioncini di cachemire che lei tenta di imitare stropicciando molto quelli legnosi che trova invece al mercato del paese. La parte sul liceo sembra “Ovosodo” di Virzì e i ricordi che abbiamo tutti noi sopravvissuti ai ginnasi in provincia. La professoressa al primo giorno esordisce così coi predestinati: “Ho avuto in classe la su’ mamma, me la saluti tanto”, imita Francini.  E poi a casa delle amiche ricche, le Marievittorie, dove Francini scopre che fa più freddo che a casa sua, però loro hanno il cachemire e i cognomi francesi. La Mariavittoria del caso le ruba pure un fidanzato, e poi però si troverà uno striscione appeso a scuola: “Mariavittoria: cognome francese, troia locale”. Chissà che invidia adesso le Marievittorie e che rabbia. “Quella lì, non l’ho più rivista. Aveva cambiato scuola, all’epoca, dopo quel cartellone. Però tanti adesso mi scrivono dal Dante, ragazzi-bene, me li ricordo, e la cosa che mi fa più imbestialire è che mi dicono: ‘ciao Chiara, sono Tizio o Caio, tu non ti puoi ricordare’. Come non mi posso ricordare? Te ti puoi ricordare e io no? Sono famosa, non sono decerebrata. Io mi ricordo tutto”.

 

Sono orgogliosi i suoi? “Adesso molto. Sono soprattutto orgogliosi del mutuo che ho fatto. Il mutuo, riuscir ad accendere il mutuo è il vero status symbol in Italia. Non comprare casa, ma il mutuo”. Durante Sanremo, dove lei ha condotto una serata, distinguendosi dalle altre, anche per mancanza intelligente di buonismo, festeggiavano in piazza come i genitori di Mengoni? “Ma è matto? I miei son molto riservati”. Sanremo però è stata la rivelazione, anche se lei era in giro da molti anni. La sua voce Wikipedia è lunga due pagine, ha fatto di tutto, da Domenica In ai film con Enrico Vanzina  al teatro, oltre a quattro libri prima di questo. Non l’abbiamo vista arrivare, come Elly Schlein. “Questo è il mio quinto romanzo  e finalmente mi invitano al Salone del libro di Torino. Forse per Sanremo o forse perché ho cambiato  agente letterario, ho preso il più snob, Marco Vigevani. Quando gli ho mandato un messaggio spiegando che lo volevo incontrare, ed ero già famosa, mi ha risposto: ‘scusi, ci conosciamo?’”. Eterna incompresa. “E’ il mio destino: io sono troppo snob per il cinema e troppo maggiorata per la letteratura. Faccio anche l’editorialista per la Stampa, poi mi garbate voi del Foglio, che scrivete tutto arzigogolato”.

 

Insomma a Torino com’è andata? “Bene, ho venduto centoventi copie”. Avrà guadagnato cento euro netti, insomma. Coi libri tirerà su un millesimo rispetto a Sanremo e al resto. “Non creda!”, mi fa, e ride. Insomma grandi anticipi, maledetta. “Sì, ma siccome poi sono paesana, poi devo vendere, sennò li deludo. Io non voglio mai deludere nessuno. E così faccio tantissime presentazioni. Cinquanta almeno per ogni romanzo. E non sai mai quante persone vengono”. Lo so, lo so. Nessuno compra, dico io. Mi guarda impietosita. “No, se fai le presentazioni con me li vendi”.  In effetti la presentazione con la Francini che abbiamo fatto insieme in una Feltrinelli romana è stata un happening, lei aizza il pubblico, fa: “su le mani!”, e loro alzano le mani. Sorride a tutti come se fossero i suoi migliori amici. E’ quasi lei a implorarli per un selfie. “Non devi deconcentrarti mai, devi sempre tenere il contatto visivo”, mi spiega.  “E non devono durare più di tre quarti d’ora”. Vuol fare la mia coach? “Mi sembra che gliela sto già facendo”. Va avanti. “Molti autori si possono permettere di non vendere, io no. Con lo zainetto, da sola, faccio cinquanta tappe. Dalla Locride a Trento. I librai vengono alla stazione a prendermi con le macchine scassate,  mi portano nell’albergo che pensano più bello... io sono amatissima dai librai, perché sono un’operaia.  L’agente della Calabria, io lo chiamo, ‘Dai Nicolino, che si va a vendere un sacco di libri!’”. 

 

Lo capisco, anche a me per esempio, le dico, piacciono le presentazioni in provincia, dove viene chi è veramente interessato, non quelle a Roma e Milano dove è una roba social... “Per me non fa differenza, io devo vendere”, mi gela lei.  Disintermediatrice.  Renziana.  Non ha ansia? Ride. “Anzi, quei cinquanta minuti io me li godo, sono gli unici in cui non devo rispondere alle email, o al telefono. Mi rilasso. Infatti non voglio mai sapere le domande prima. Tanto se il presentatore va fuori tema, lo riacchiappo subito!”.  Ha un ghost writer? “Scherza? Non solo questo libro l’ho scritto, ma ho anche deciso font, impaginazione, copertina”. Le ragazze dell’ufficio stampa Rizzoli le vedo tra lo stravolto e il soddisfatto. Anche dal tacco a spillo brutale che Francini indossa con nonchalance. “Ma io son sempre fuoriposto, per l’editoria son l’attrice, quell’attrice toscana, quella comica, la homiha. Il primo libro me l’han chiesto loro, un libro di varia, quello che ti chiedono quando diventi famosa, ma io volevo scrivere un romanzo vero. Avevano tirato settemila copie, poi dopo un mese abbiamo fatto 9 edizioni! Io, la figlia di puttana di Campi Bisenzio! Sa, se bastasse la popolarità le Gerini, le Hunziker, tutte venderebbero un sacco, ma non basta!”. 

 

Alla presentazione è presente anche il suo storico fidanzato, il biondo e placido Karl Gustaf Fredrik, svedese di Falköping, con cui stanno insieme da anni. Lui le fa un po’ da agente e produttore e bodyguard e soprattutto, pare di capire, tenta di contenere l’energia francinica,  le sta sempre accanto, sospira, è stanco, son appena arrivati da Torino. “Scrivono sempre che sono calciatore ma il calcio io lo odio, mi piacciono semmai altri sport, più farli che guardarli”, dice lui, che ama cucinare molto, mentre lei non mangia mai a casa. E che le fa, le polpette? “Di alce, sì”, sorride. Come vi siete conosciuti? “Quando a un certo punto ho lavorato in una agenzia di comunicazione a Firenze”, dice Francini. “Mi misero davanti alla sua scrivania, lui si fece spostare perché disse che lo deconcentravo. Non mi ha mai chiesto di uscire  ‘perché non zi zomma pubblikoo con prifatoo’”  dice lei imitandolo, “ma mi tirava degli elastici. Poi finalmente siamo usciti e, quando ci siamo messi insieme,  mi ha fatto trovare una pallina fatta di tutti gli elastici che mi aveva tirato”. 


Senta, ma a Torino ha presentato il suo libro praticamente insieme a quello della ministra Roccella. Lei è favorevole al cosiddetto utero in affitto? “Ma sì, certo. Io devo tutto alla mia famiglia queer”. Anche lei  come Murgia. “Non la conosco, ma quando ho letto la sua intervista a Cazzullo ho pianto tre giorni”. E poi anche lei a un certo punto è andata a vivere alla Garbatella. E’ l’underdog dello show business italiano. “Meglio undercat”.  E poi “Io non sono una gattamorta, sono una gatta viva”. Senta Francini, adesso dobbiamo fare un gioco. Lei nel libro distingue tra sinistri, poveri maledetti e mancini, le tre tipologie sociopolitiche italiane. Leggo: “Ai sinistri non frega assolutamente nulla del comunismo, di Berlinguer, degli operai, del lavoro, dei diritti, del teatro, delle minoranze, della cultura come strumento rivoluzionario di rivendicazione, non gliene frega assolutamente niente. A loro interessa solo apparire di sinistra e quindi dalla parte del giusto”. Cioè sarebbero i radical chic, diciamo. Mi dica un sinistro. “Ah, è facile, sono un miliardo”. Un nome. “No, su, non faccia il pezzettino di merda”. Poi dice: “La politica che piaceva a me non c’è più…”. Non mi dica anche lei che rimpiange Berlinguer. “La politica per me è quando mio nonno lo vedevo bestemmiare per le sue idee. Credo che la politica sia un dovere di tutti noi. E invece una volta mi hanno invitato a un talk e ho visto che si scannavano e poi dopo, finita la trasmissione si davano gran pacche sulle spalle”. Un po’ un cliché. Lei comunque sembra un personaggio di “Caterina va in città”, misto a “Ovosodo”. E lì Francini fa “W-Y-O-M-I-N-G”, quel lunghissimo rutto che a noi appassionati di “Ovosodo” ci fa commuovere.

 

“Ma dov’è la sinistra? Dov’è la destra?”, si chiede Francini. Insomma lo vede che è renziana? Terzo polo.  “No, io di terza non porto nulla”. Chiaro riferimento alle tette, una quinta, che nel libro hanno grande rilevanza. “Le ho prese dalla sorella di mia padre che anche lei ha la quinta! E gli occhi azzurri dalla bisnonna!”. Le tette le chiama anche “le mie volitive”. Quinta di reggiseno, quarta di copertina, senta Francini, e chi sono i mancini? I mancini, leggo, sono “degli arricchiti che si fregiano di essere ricchi. A loro non frega nulla di sembrare colti. Vogliono solo essere e apparire ricchi. Si dicono, spesso, molto cattolici, e si vestono come se avessero sputato loro addosso un manichino di una boutique dei Parioli. I Mancini sono palesemente più onesti, si comprano case grosse, macchine grosse, fanno cene grosse, frequentano persone grosse, cioè potenti, per poterle sfoggiare, per poterci schizzare in faccia i loro pantaloni col risvoltino”. Fuori i nomi. “No, ma sono mancini tutti i produttori italiani. Ho una grande disistima per i produttori italiani. Non fanno niente, il produttore americano mette i soldi, il produttore italiano perde solo tempo”. Il Metoo all’italiana? Lei ha mai subito molestie?  “Con me non ci ha mai provato nessuno. Si vede che metto paura. Se  non mi sei simpatico sono abbastanza respingente, non sono affabilissima”. 


E le attrici che denunciano magari dopo trent’anni? Le accusano di essere in cerca di pubblicità. “Mah, non mi sembra che se una denuncia una cosa del genere abbia grande pubblicità in Italia. Poi credo che siano cose che possono venir fuori dopo anni, come nell’analisi. Certe cose riaffiorano nei momenti più impensati, per toglierti un peso, è un atto di coraggio, perché ti rimbomba dentro sempre questo senso di colpa”. Insomma lei è femminista. “Io non son femminista, son femmina. Logico che una donna deve fa 20 per arrivà a tredici, devi avere contezza, quando poi li superi però i maschi vedono delle gran terga solide”. A proposito di terga, è molto orgogliosa del suo bagno, anzi del suo cesso. E poi dei divani, che però non usa. “Cerco di usarli, ma poi penso a quanto sono costati, e non ce la faccio. Li proteggo con tantissimi plaid”. Ma il mutuo tra quanto scade? “Tra vent’anni”. Ha fatto variabile o fisso? “Fisso”. Spero al momento giusto. “Oh sì, il mi’ babbo m’ha fatto fa la surroga”. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).