Il Foglio del weekend
Federico De Roberto e l'infelice triangolo
L'autore dei “Viceré”, incastrato fra la madre e l’amante. Pubblicate le lettere di bruciante passione per la nobildonna Ernesta Valle
Nell’autunno del 1897 Federico De Roberto stava lasciando Milano dove molto gli sarebbe piaciuto vivere; aveva intravisto l’Europa nutrendosi di conversazioni colte, di teatro e di musica, elettrizzato dalla libertà, e già in stazione cominciava a scrivere all’amata: “Respiro ancora la stessa aria che tu respiri, vedo ancora lo stesso cielo che tu vedi. E sono proprio io che parto? Io che ti lascio? E’ incredibile!”. A Milano, nel maggio di quell’anno, De Roberto s’era innamorato: un colpo di fulmine, nel salotto della contessa Borromeo, per la giovane sposa dell’avvocato messinese Guido Ribera, la nobildonna Ernesta Valle, tra l’altro appena diventata madre di un bebè. Per farsi accettare le aveva scritto suppliche furiose nell’estate: “Che cosa dovrei fare per contentarvi? Fingere, acconsentire al vostro inganno di un’amicizia ambigua, illogica, innaturale, impossibile! Io non voglio fingere, con voi: Voi mi siete apparsa, nei primi giorni della nostra intimità morale, tanto diversa dalle altre donne, che voglio trattarvi diversamente, a costo di spezzarmi il cuore nel petto”.
De Roberto allora era uno scapolo catanese di trentasette anni, angustiato da madre possessiva, un bell’uomo con baffi curatissimi, portava il monocolo. Era un letterato riconosciuto, collaborava con il Corriere della Sera, suo amico e mentore era – nientedimeno – Giovanni Verga. “I viceré”, il capolavoro che Croce aveva stroncato e che Sciascia metterà invece all’altezza dei “Promessi sposi”, era stato pubblicato quattro anni prima. Lo aveva scritto sottoponendosi, per la complessità e la mole dell’impresa, a un lavoro stressante che non l’aveva ripagato. L’Italia umbertina forse ci si era riconosciuta fin troppo, il romanzo non aveva avuto successo, era stato giudicato prolisso, pessimista, morbosamente concentrato sull’avidità, le follie e la degenerazione delle famiglie di antico regime convertite al nuovo, che si erano riciclate nell’Italia parlamentare per piantarvi i loro artigli. “… Ti sei fatto un bel cuscinetto costì, a Catania, fra tutti cotesti Uzeda che si riconosceranno allo specchio, deputati, senatori o semplici minchioni che siano!”, aveva scritto Verga a De Roberto nel ‘94, l’anno de “I viceré”. L’autore de “I Malavoglia” che, come si sente dal fraseggio, era passato anche lui da Firenze a risciacquare i panni, aveva poi vissuto vent’anni a Milano. Lì, nella città del potere finanziario e delle case editrici, dei giornali e dei grandi teatri, dei ritrovi eleganti e dei salotti ben frequentati dall’élite colta, aveva generosamente introdotto De Roberto, presentandogli Boito, Giacosa, Camerana. Da Catania se n’era andato anche Luigi Capuana e Federico si annoiava, frequentava poco, pagava l’annualità di un paio di circoli ma poi non ci andava e avrebbe preferito usare quei soldi per abbonarsi a tutti i giornali e le riviste di cultura, italiane e francesi. Senza trascurare che allontanarsi voleva dire sottrarsi a donna Marianna Asmundo Ferrara, sua madre. Però l’occhiuta madre, “un bene che mi soffoca e mi strozza”, ora l’aveva richiamato in Sicilia. Nel gennaio del 1898, da Catania, De Roberto scrive a Ernesta Valle, che ha subito ribattezzato Renata, cioè rinata grazie all’amore: “Che cosa vuol dire: Milano? Il dizionario geografico è sbagliato: dice che è la capitale della Lombardia. Errore grave. Milano è Renata, Amore, Gioia, Voluttà, Conforto, Pace, Sorriso, Bellezza, Tripudio”. Milano e Renata erano due facce della stessa cosa, la vera vita che lui desiderava.
Il monumentale carteggio tra i due amanti, Renata e Rico – lei lo chiama così – è ora tornato in libreria da La nave di Teseo. Immergersi è come sprofondare a fine Ottocento, nei salotti e nei teatri, incontrando personalità dell’epoca, ascoltando confidenze indiscrete. E, grazie all’inserto fotografico, possiamo vedere anche lei, la signora Ribera Valle: una ragazza appena ventenne, bionda e sottile. De Roberto la chiama anche Nuccia, ovvero femminuccia, bambina. Un vezzeggiativo infantile per la fanciulla minuta che, nell’abito chiaro col vitino cinto da una fascia di seta, pare un’adolescente seduttiva. Nuccia bambineggia anche nella scrittura, ma legge avidamente i libri che riceve da lui, grandi classici francesi e russi e poi i contemporanei, discute di letteratura e sa consigliare opportunamente Rico che confida le sue ansie, chiede il suo giudizio. L’epistolario, curato dall’italianista Sarah Zappulla Muscarà e dallo storico dello spettacolo Enzo Zappulla, che firmano insieme anche il saggio introduttivo, occupa oltre duemila sottilissime pagine. Fondamentalmente, è fatto di lettere degli anni della passione: i primi sei – tra il 1897 e il 1903 – quando i due si scrivevano quasi ogni giorno, con una successiva e triste coda che si allunga fino al 1916. “L’amore senza speranza”, scrive Renata nel 1902, “è come una religione senza fede” e poi “quando si ragiona troppo non si ama più”.
Alla fine, i corrispondenti sono ormai rientrati nei ranghi, ridiventati ciò che erano prima: Ernesta e Federico. I loro nomi fittizi sono svaniti con l’amore, e così le identità create per il loro teatro intimo. Due personaggi dei quali entrambi amano talvolta scrivere in terza persona, come se si trattasse di qualcun altro: Renata ha fatto questo e Rico quell’altro. Nelle ultime lettere lei non sa se dargli del voi o del lei, ma ogni tanto incespica nel tu. Sciaguratamente, nel 1916 chiede un prestito “per saldare un debito” del figlio che non vuole vada a morire nella Prima guerra mondiale e così strapparlo al fronte, pagando un superiore: “Egli è un poco vostro figlio essendo vostro figlioccio; ed è il momento di provarmi l’amicizia che sempre m’avete professata”. Ai bei tempi, era stato amore carnale sensualissimo. Pieno di ardore dilatato dall’attesa, lasciò ferite brucianti nel loro equilibrio emotivo. Ernesta interruppe anche una gravidanza; cercò di scriverlo allusivamente a Federico: “L’anima mia era con te, il mio corpo non esisteva in quell’istante! Oh l’orribile cosa!”. Lui non capì. Poi disse di aver inteso qualche giorno dopo, un sogno rivelatore gli aveva mostrato “che la tua persona è stata profanata, che l’anima tua è stata violentata col corpo, che tu ti sei rifugiata accanto a me”. Allora fu colto dallo stupore, poi dall’orrore per quello che lei aveva patito: “Ora mi occupa tutto. Vorrei sentire da te tutti i particolari, come è stato, perché ti hanno violentata, se hai resistito…”. Lei non lo racconterà, per qualche tempo tace ferita. Difficile sottrarsi alla sensazione di trovarsi nei pressi di casa D’Annunzio: il connubio tra letteratura, strazio e piacere ricorda quello che si respira anche tra quelle pagine. Il tempo è lo stesso – “Il piacere” era stato pubblicato nel 1889, “L’innocente” nel 1892. La letteratura rivelava la potenza dell’eros adulterino che tracimava dal matrimonio ottocentesco, dal contratto coniugale senza amore: forniva parole appassionate a un immaginario compresso, proibito. Ottobre 1897, Rico da Catania: “Non mi scrivere più che fai il bagno, non mi scrivere più che ti alzi nel cuore della notte; non mi dare l’immagine delle tue forme libere da ogni ogni ogni velo: se no andrò a finire in una casa di salute. Parlami delle tue vesti, dei tuoi mantelli, delle tue pellicce: già siamo alle porte dell’inverno; spiegami che il tuo corpo, le tue forme, la tua carne sono chiuse, ermeticamente, e che neppure tu stessa le puoi vedere; e che io, io solo, un giorno, schiuderò con le mani febbrili quel tesoro, e me lo godrò, tutto quanto, tutto quanto come non mai: che ti succhierò le dita dei piedini, che ti leccherò i ginocchi, che ti morderò, che ti… E basta”.
Qualche mese dopo, febbraio 1898, ancora Rico da Catania: “… Quando tu mi dici cose come quelle che m’hai detto iersera, la tentazione di morire con te è troppo forte, è troppo dolce, è troppo voluttuosa, mi fa impazzire, mi fa tremare, mi acceca. Renata, non mi dire ch’io revochi immagini voluttuose, scottanti; io muoio… Io voglio il bacio che ti fa impazzire”. Lei smette di leggere le lettere sul tram, gli altri passeggeri potrebbe capire: “Non so più dirti taci, non so più respingere le tue carezze, anche da lontano esse si posano davvero sulla mia carne, sento una fiamma salirmi al viso, passarmi per ogni vena, ancora mi scuoto e fremo vinta e beata! Non ardisco più leggere le tue deliziose lettere quando sono sul tram…”. E’ l’effetto della famosa scena di un film di culto, “Harry ti presento Sally”, cent’anni prima e senza ironia. A Renata De Roberto dedica i racconti pubblicati tra il 1897 e il ‘98 con il titolo “Gli amori”. Lo fa con una sibillina lettera-prefazione destinata a una cara amica, la contessa R.V. Ma la dedica non è poi tanto criptica, se il marito di lei scrive all’autore facendo buon viso per accoglierla come il frutto di “una disquisizione letteraria tra lei e la mia signora”. Qualcosa che “lusinga il mio amor proprio e la vanità femminile della mia Ernesta”. Un modo per comunicare che non è poi così distratto e insieme ribadire la proprietà della moglie. Il carteggio contiene anche altre lettere dell’avvocato Guido Ribera, sempre – come dire? – untuose: ringrazia per favori o prestiti di denaro ottenuti grazie a De Roberto. Se questo era il marito, l’altra guardiana era donna Marianna Asmundo, la madre di Rico: anche lei fingeva di non sapere. Mentre Renata canzonava l’amante sull’arte del raggiro di mamma sua, per tenerlo a Catania e impedirgli di andare a Milano. Un’arte che conosceva bene anche lei, del resto: mai dire esplicitamente a un uomo di non fare qualcosa o la farà davvero…
Per anni la Grande Finzione costrinse gli amanti a complessi rituali della clandestinità: recapiti avventurosi, lettere fermo posta oppure inviate a Milano all’ufficio di corrispondenza del Mattino, il quotidiano di Napoli, per essere recapitate dentro il giornale; attese della posta col batticuore, un calendario dell’amore con tanto di festa segreta degli sponsali. Loro ne erano insieme avviliti e galvanizzati. Lei parlava di lui “soltanto con la gattina”, riferiva civettuola le supposizioni salottiere delle sue amiche. De Roberto progettava un romanzo epistolare, da tempo studiava e scriveva d’amore. Già prima di incontrare Ernesta-Renata, aveva pubblicato il saggio “La morte dell’amore” e poi “L’amore. Fisiologia. Psicologia. Morale”. Federico era un conclamato e consapevole misogino, l’incontro con Ernesta – confessa lui – mitigherà il suo disprezzo “contro tutto il genere femminile”. Pensando a lei, corresse e attenuò “le espressioni sdegnose” usate in un saggio del 1898, intitolato “Una pagina di storia dell’amore”. In questa luce, accesa dal saggio introduttivo al carteggio, lo sterminato flusso di amorosi sensi rivela la misoginia come una delle facce dell’adorazione. Di una infantile, disarmata, perenne dipendenza da un’icona immutabile del femminile. La donna chiamata Milano non riuscì a strappare Federico dal ventre materno. De Roberto rimase in Sicilia e non riuscì a radicarsi altrove. Albertini, il direttore del Corriere, gli aveva promesso un posto a La lettura, allora mensile, ma non mantenne la parola. Nel gran mondo dei salotti milanesi, Federico si muoveva con un certo impaccio, era troppo riservato per diventare mondano: Ernesta – finché durò – gli aveva fatto da tramite. Non riuscì a completare il ciclo degli Uzeda che aveva progettato con “I viceré”, anche l’avventura teatrale era naufragata. Restò a Catania dove per fortuna era tornato Verga con il quale passava giornate intere.
Col tempo, De Roberto divenne preda delle sue nevrosi. Un vecchio scapolo con un’ex amante sposata e la madre incombente. Dopo la morte di Verga e di donna Marianna, si aggirava con una percezione di sé da scrittore fallito, molti lo raccontano così. Noi sappiamo che non è vero. E anche la vita imprigionata qui dentro dice che le cose furono molto più ambigue dell’apparenza. Il paradosso di De Roberto è che dalla sua limitazione, dall’onnipresente madre cui fu devoto, non trasse solo impedimenti ma anche l’alimento del suo capolavoro. Infelicità e vitalità creativa venivano dalla stessa fonte. La musa della “misteriosa fucina” dei “Viceré”, come la chiamano i curatori di questo carteggio, era proprio Marianna degli Asmundo, donna di rara intelligenza, discendente di un’antica e importante casata. Dell’aristocrazia siciliana sapeva più di tutto e testimoni del tempo la raccontano “incitatrice suggestiva ed eloquente”, un’incantatrice che attraverso suo figlio ci ha trasmesso il suo mondo.