Il Foglio del weekend
Il tesoro prezioso che risiede nel silenzio
Cristiani e buddisti, monaci ed esploratori. La quiete spaventa ma è cura per i mali dell’anima, ieri come oggi. L’inno di chi tace
In base alla testimonianza dei contemporanei pare che la prima cosa che Socrate insegnava ai suoi allievi fosse il tacere. Era la condizione necessaria per l’ascolto di sé stessi, per quel permanente dialogo interiore, quello sguardo introspettivo che può condurre l’uomo alla scoperta di sé. Ne diede un esempio quando, come racconta l’allievo Alcibiade, alla vigilia della spedizione di Potidea egli rimase immobile nell’accampamento, dalla mattina fino all’aurora seguente, a meditare. L’intuizione che nel silenzio risieda un tesoro prezioso attraversa la storia e trova molteplici espressioni nel mondo antico, riflettendosi nelle parole di Pitagora che ai discepoli diceva “Impara a tacere; lascia che la tua mente, quieta, ascolti ed impari”, così come nella incisiva raccomandazione di Sofocle: “Fanciullo, taci: il silenzio è pieno di cose belle”. In un contesto dominato dal rumore, nel quale la chiacchiera sovrasta la parola, la confusione mediatica indebolisce il pensiero riflessivo, la dimensione funzionale sostituisce quella contemplativa, la superficialità imperversa in televisione e sui social, ecco che le parole di una studentessa divengono rappresentative di un’epoca: “Prof, io ho paura del silenzio”. Avevo chiesto alla classe un silenzio più attento del solito, ma questa ammissione di disarmante candore poneva già di per sé le basi per un dialogo inaspettato. Più tardi, in un libro dell’esploratore Erling Kagge (Il silenzio, Einaudi, 2017) avrei trovato il resoconto di uno studio che evidenziava il grande disagio – in alcuni casi insostenibile – manifestato da persone lasciate sole, in una stanza, per pochi minuti: “Quando si è in silenzio e si è da soli si diventa irrequieti”, osserva l’autore, rimarcando ciò che, già quattro secoli prima, sintetizzava Blaise Pascal: “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva della sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”. L’horror vacui che l’uomo contemporaneo fatica ad affrontare, porta socchiusa su un’interiorità poco frequentata, trova una soluzione analgesica nella cultura del rumore, nella città stracolma di voci, fretta, confusione. E’ il turbamento a cui accenna in un suo scritto Franco Loi (Il silenzio, Mimesis, 2012), quando riporta la semplice ma significativa confidenza fattagli dal gestore di un albergo immerso nella campagna: “Sa, molte persone se ne vanno appena s’accorgono del silenzio che le attornia”.
Dimensione desiderata e insieme inquietante, muta e assordante a un tempo, il silenzio si svela non come un vuoto o un’assenza, ma piuttosto come l’esplicitazione di una presenza spesso messa in ombra dal frastuono che sovrasta le cose, immergendole in una “con-fusione” che ci impedisce di coglierne la densità. Ricercare il silenzio, scrive infatti Kagge, “non significa voler ignorare quanto ci circonda, ma l’esatto contrario: volerlo vedere con maggiore chiarezza”. E’ un aspetto sottolineato anche da Massimo Camisasca in un bellissimo scritto (Dentro le cose, verso il mistero, Rizzoli, 2012): “Io non voglio il silenzio per non sentire o non vedere. Lo desidero per poter vedere più in profondità”. Non si tratta appena di una rinuncia alla parola, ma di qualcosa di molto più difficile e profondo. In un suo prezioso libro (La forza del silenzio, Cantagalli, 2017) il cardinale Robert Sarah delinea un magnifico inno al silenzio mostrandoci, attraverso le parole di alcuni suoi interlocutori, come esso non coincida con il semplice tacere: mentre Augustin Guillerand spiega che “per rientrare nel silenzio, non basta fermare il movimento delle labbra (…). Questo è semplicemente tacere e tacere è una condizione del silenzio, ma non è ancora il silenzio”, il priore della Grande Chartreuse Dysmas de Lassus conferma: “Mantenere il silenzio delle labbra non è difficile, basta volerlo; il silenzio dei pensieri è un altro affare”.
La sola quiete esteriore, insomma, non basta a sconfiggere quello che Thich Nhat Hanh definisce il non stop thinking, l’ininterrotto fluire dei pensieri che porta la mente a spostarsi, come un’imbarcazione in balìa delle onde, tra frammenti di pensiero che confusamente si sovrappongono uno sull’altro. Ecco allora spalancarsi un mondo affascinante, che può portare colui che non rinuncia al viaggio verso orizzonti sconosciuti, sino a decifrare un volto. Conclude infatti Sarah: “Il silenzio non è un’assenza. Al contrario, è la manifestazione di una presenza, più intensa di qualsiasi altra presenza”. Acquietare il rumore che sta dentro di noi non è facile, ma è certo qualcosa che, con il giusto metodo e adeguata pazienza, si può gradualmente imparare. Ed è qualcosa di desiderabile, come dimostra il fenomeno dei tanti che, provati dai ritmi e dal rumore della quotidianità, fuggono la città cercando almeno per brevi periodi luoghi di solitudine e strade piene di silenzio. “Per migliaia di anni – scrive ancora Kagge – le persone dedite a una vita solitaria, come i monaci sulle montagne, gli eremiti, i navigatori, i pastori e gli esploratori, sono state convinte che la risposta ai misteri dell’esistenza si trovi nel silenzio”. Di grande fascino, in proposito, il racconto rievocato nelle pagine dell’esploratore norvegese in cui un giovane monaco buddista chiede al suo maestro di spiegargli “l’anima del mondo. Il maestro rimane zitto. L’alunno insiste due o tre volte, ma non riceve alcuna risposta. Alla fine il maestro parla e gli dice: ‘Te lo sto insegnando, ma tu non mi segui’”. Ancor più che elemento esteriore e formale, il silenzio si configura dunque come qualcosa che riguarda l’indole dell’uomo che lo conosce e lo ama. Contrapponendosi alla frenesia, esso si estende sulle cose informandole di sé al punto che, come scrive Max Picard, “un uomo nel quale agisce la sostanza del silenzio è accompagnato dal silenzio in ogni suo movimento (…). E’ silenzioso non colui che semplicemente tace, bensì soltanto colui nel quale il silenzio è presente come un’entità primaria, naturale”.
Anche la parola, così, per non ridursi a chiacchiera o sterile rumore deve in qualche modo rimanere legata al silenzio. Se un maestro dell’arte oratoria come Cicerone ricordava che “vi è un’arte del silenzio che vale quanto l’eloquenza”, Plutarco nei suoi scritti sulla loquacità assicurava che “nessuna parola ha mai giovato tanto, quanto le parole non dette”. In un tempo in cui l’opinione immediata sostituisce il giudizio, il parere spontaneo prende il posto della riflessione, in un contesto in cui, se si ascolta, spesso lo si fa per ribattere e non per capire, appare decisivo ammettere anche nel dialogo l’ingresso del silenzio. Erling Kagge, per esempio, si accorge che “il silenzio in una conversazione è un elemento fondamentale. (…) Il silenzio sembra denso di significati tanto quanto le parole”, e Maurice Merleau-Ponty aggiunge: “Dobbiamo considerare la parola prima che sia pronunciata, considerare lo sfondo di silenzio che continuamente la circonda, senza il quale essa non direbbe niente”. “Ritorna in te, o uomo, esplora il ritiro del tuo cuore”, scriveva San Gregorio Magno, e approssimativamente nello stesso periodo, sul versante orientale della cristianità Isacco di Ninive raccomandava all’allievo: “Più di ogni altra cosa, ama il silenzio: reca un frutto che la lingua non è in grado di descrivere”, riprendendo la consapevolezza che, ancor prima, veniva racchiusa nella sintetica espressione di Efrem il Siro: “Un buon discorso è d’argento, ma il silenzio è d’oro puro”. Quasi fosse la condizione per essere realmente presenti a sé stessi e alle cose, il silenzio diviene per chi ne fa esperienza l’abbrivio di un viaggio vertiginoso e affascinante. Così Pablo d’Ors, grande maestro contemporaneo di questo “oceano oscuro e luminoso che è il silenzio”, racconta: “Ho sperimentato che rimanere in silenzio con sé stessi è molto più difficile di quanto avrei sospettato prima di provarci”, documentando la gradualità con cui ha vissuto il percorso che lo ha portato a scoprire che cosa sia il silenzio: “un’autentica rivelazione” (Biografia del silenzio, Vita e pensiero, 2014). “All’inizio – scrive il sacerdote spagnolo – tutto mi sembrava più importante che meditare; ma poi è arrivato il momento in cui sedermi e non fare altro che rimanere in contatto con me stesso, presente al mio presente, ha iniziato a sembrarmi la cosa più importante di tutte. Perché normalmente viviamo dispersi, cioè fuori di noi”. Allora, conclude, “si smette di vivere offuscati e intorpiditi” e “si comincia a vedere il vero colore delle cose”.
E’ una ritrovata inclinazione alla quiete a permettere di sconfiggere la superficialità e inoltrarsi realmente in ciò che si sta facendo: Age quod agis, dicevano i latini. Nel silenzio – che, come scrive Picard, “dona alle cose un po’ di sacra inutilità” – impariamo a cogliere la densità delle cose, il loro insospettato rilievo, sperimentandone in modo nuovo la consistenza, perché non nel rumore, ma come nota d’Ors “è nel nulla che l’essere brilla in tutto il suo splendore”. In questa misteriosa dimensione capace di sospendere il tempo pare avvenire una sorta di potenziamento dell’essere stesso delle cose che apre all’uomo la possibilità di coglierle nella loro profondità, quasi a giungere ad afferrare quello che Picard chiama “il fondo ineffabile delle cose”. Perché nel rumore “nessuna cosa ci sta più veramente dinanzi”. Il filosofo svizzero (Il rilievo delle cose, Servitium, 2004) racconta in proposito l’esperienza dell’osservazione di un oggetto, nella quale avviene talora “un vero incontro. Guardo l’oggetto attentamente e quasi un po’ spaventato, perché in fondo non l’ho mai visto, il fatto di vederlo è veramente un avvenimento e mi sembra anzi di essere un uomo che lo veda per la prima volta”. Analogo fascino produce poi il racconto di una passeggiata nel bosco: “La cosa più bella nel bosco – scrive – è quando non succede assolutamente nulla. Allora non è che il nulla cresca in noi, ma capita appunto il contrario: le cose raggiungono la loro vera proporzione”. Insomma, “nel silenzio la sostanzialità delle cose è rafforzata”, il silenzio “ripristina le cose nella loro integrità”. “Il silenzio è la condizione dell’alterità ed è una necessità se si vuole comprendere sé stessi”, scrive ancora il cardinale Sarah, al quale pare fare eco l’esploratore Kagge il quale, tra le righe dedicate al racconto delle sue avventure, aggiunge: “Il silenzio ci chiede di andare dentro le cose che stiamo facendo. (…) Di lasciare che ogni istante abbia la sua grandezza”. Particolarmente curioso, nei suoi diari di viaggio, un aneddoto occorso durante la traversata del Polo Sud. Mentre camminava assieme a un compagno, passò un aereo da ricognizione americano e i militari, stupiti di vedere degli uomini in mezzo alla neve, lanciarono dei viveri con un paracadute. Kagge racconta che, quando aprirono i pacchetti, era così affamato che fece per avventarsi sul cibo, ma l’amico che lo accompagnava nella traversata ebbe un’idea: “Suggerì di aspettare un po’. Di osservare il cibo in silenzio. Contare lentamente fino a dieci prima di mangiarlo” e conclude: “Di rado mi sono sentito così ricco come allora. Fu una sensazione strana, quella di aspettare, ma poi il cibo mi parve ancora più buono”.
Essere presenti al presente. Straordinaria formula che accomuna culture diverse nella comune ricerca della verità, come emerge da uno dei tanti racconti di Thich Nhat Hanh (Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, 2012), quando si trovò a dialogare con un amico che, dopo cena, stava lavando i piatti: “Se lavi i piatti devi sapere come si fa”, dice di fronte allo sguardo perplesso dell’altro, spiegando: “Se mentre laviamo i piatti (…) ci affrettiamo a toglierli di mezzo come se fossero una seccatura (…) in quel momento non siamo vivi. Questo perché, mentre siamo davanti al lavandino, siamo assolutamente incapaci di accorgerci del miracolo della vita. (…) Così ci facciamo risucchiare dal futuro, incapaci di vivere veramente un solo minuto della nostra vita. (…) Quando lavate i piatti, lavare i piatti dev’essere la cosa più importante della vostra vita”. E’ la densità dell’istante, la possibilità di recuperare un effettivo legame con le cose. Non a caso, indagando l’etimologia della parola silentium, alcuni linguisti hanno evidenziato il nesso con un termine sanscrito che significa “legare”. Tesi di raro fascino, che suggerisce l’idea che il silenzio sia essenzialmente un legame che pone il soggetto in un rapporto autentico con l’altro da sé. Quel rapporto a cui San Benedetto, nell’incipit della Regola che consegnò ai suoi fratelli a fondamento della civiltà occidentale, invitava ponendo, proprio all’inizio di tutto, un invito a tacere e ascoltare: “Obsculta, o filii…”.