l'intervista

Hollywood compie cent'anni. Quel che era e quel che è rimasto. Colloquio col suo storico David Thomson

Michele Masneri

Dagli Oscar agli scioperi di oggi, l'epopea di un sogno irrealizzabile senza la luce di California

San Francisco. David Thomson è probabilmente il più acclamato critico cinematografico vivente. Il suo dizionario biografico del film è considerato la bibbia hollywoodiana, e “La formula perfetta”, uscita in originale nel 2004 e riproposta da Adelphi in Italia l’anno scorso, racconta la nascita del cinema americano come il più avvincente dei romanzi. La formula perfetta – in originale “The whole Equation” – sarebbe quella del film di colossale successo, formula naturalmente impossibile da trovare, neanche le più artificiali delle intelligenze d’oggi riuscirebbero a riprodurla. Lui però in parallelo si è dedicato soprattutto a un’altra formula, quella inversa per cui Hollywood riesce sempre a devastare gli scrittori d’ogni dove che si sono di volta in volta succeduti alla ricerca del successo cinematografico losangelino in veste di sceneggiatori, da Nathaniel West a John Fante al più celebre di tutti, Francis Scott Fitzgerald che coi suoi “Ultimi fuochi” e la sua vicenda personale ha poi costruito l’altro archetipo e la controstoria del cinema, su quello che Hollywood fa agli autori, soprattutto se dotati di talento.

 

Si parte da un anniversario, la scritta “Hollywood”, che compie 100 anni giusti giusti: fu tirata su infatti nel giugno 1923 con tutt’altri fini. “All’inizio diceva Hollywoodland, ed era la pubblicità di un’agenzia immobiliare”, racconta Thomson, capello candido, inglesone del genere carismatico, spiaggiato a San Francisco da cinquant’anni, nella sua cucina piena di vini francesi e spezie e copie del New York Times ingiallite. “Le lettere erano di legno, verniciate di bianco, e stavano già andando in pezzi quando, nel 1932, una ragazza di nome Peg Entwistle che non era riuscita a fare fortuna nel cinema si arrampicò sulle balze del Mount Lee e poi fino in cima alla H alta 15 metri, e si buttò di sotto. In seguito la lettera fu abbattuta dal vento. Il resto rimase in piedi fino al 1978, quando si costituì un comitato per restaurarla e preservarla.

 

Nove star finanziarono la ricostruzione, al costo di 27.000 dollari a lettera e dunque la si restrinse a un semplice HOLLYWOOD, e ora le lettere sono in lamiera d’acciaio, con un ingegnoso sistema di supporti. Ma oggi non credo che qualcuno ancora si ricordi queste storie. In realtà quel fatto dei nomi incistati sulla montagna è abbastanza comune in America, appaiono anche in certi villaggi oggi disabitati, per esempio, e in tanti posti del West dove si son creati i soldi con la corsa all’oro, posti che oggi sono città fantasma, abbandonati da Dio. La natura si sta riprendendo molti spazi, e credo che la cosa peggiorerà ancora”, dice Thomson. “Del resto la California, che amo tantissimo, è un posto meraviglioso ma assurdo da vivere. Los Angeles come San Francisco sono città collocate su faglie pericolosissime, tra terremoti e incendi non si sa quanto dureranno. Ma questo fatalismo è parte del loro fascino”. E’ tutto precario e questa precarietà, che lui racconta benissimo nella “Formula”, ha abbacinato generazioni di autori (del resto “La formula” parte dal film “Chinatown”, storia di bacini idrici a rischio e di faglie sismiche pronte a collassare, e “The whole Equation” è poi una citazione del magnifico “Ultimi fuochi” di Fitzgerald, storia di sceneggiatori alle prese con terremoti e produttori, i due mali che da sempre affliggono la California). Niente è destinato a durare qui, tutto è illusione, e allo stesso tempo questa leggerezza è meravigliosa soprattutto se si viene da società pesanti come le nostre, con la storia, la tradizione, la pietra, poi arrivi qui dove tutto è stato fatto in legno e vien giù ogni volta. “E i deserti, o mio Dio. Il Mojave è un posto incredibile. Così anche quest’idea di ‘Oppenheimer’, il film, ha un suo fascino, un brillante ragazzo che si mette a far esperimenti nel deserto... Io non sono un grande fan di Christopher Nolan, e non l’ho ancora visto, non credo sarà un gran film, però...”. Però quando c’è la California c’è tutto, sembra dire Thomson. Pure lui non se n’è mai andato.

 

A un certo punto della sua vita infatti ha deciso che la sua ricerca sul cinema doveva essere a chilometro zero, e nel 1975 dall’Inghilterra si è trasferito qui e non si è mai più mosso. Come Hitchcock, che pure era inglese come lui. “Già, ma chi si ricorda dei film di Hitchcock girati negli anni Trenta? Nessuno, eppure alcuni non erano male. Solo che lui trova la grandezza solo qui, a partire dal suo set naturale a San Francisco. ‘La donna che visse due volte’ è un inno alla città e un film davvero sopravvalutato, è davvero incredibile come a volte sia stato indicato come il film più bello della storia del cinema. Tutto si svolge sulla faccia di Kim Novak, che sembra in acido tutto il tempo, mentre James Stewart pare uno che a cinquant’anni non ha mai fatto sesso in vita sua”. “A San Francisco - continua Thomson - ancor oggi pullulano le visite a tema Hitchcock, c’è lo Psycho tour, l’ho fatto, conoscevo gli organizzatori, e ogni tanto vado a Bodega Bay a vedere il fondale degli ‘Uccelli’”.

 

Come mai lei sta a San Francisco e non a Los Angeles? “Ho sempre detto: adesso ce ne andiamo, adesso ce andiamo, ma non ci siamo mai mossi. E’ più umana San Francisco di Los Angeles. Io e mia moglie non ce ne siamo andati neanche nel 1989, con mio figlio che aveva due settimane di vita, e giurammo che se fossimo sopravvissuti saremmo fuggiti, ma non l’abbiamo fatto. Il terremoto durò 22 secondi, se fosse durato altri 20 credo che la maggior parte della città sarebbe stata distrutta. Però siamo rimasti, a Los Angeles non siamo andati. Anche se avrei dovuto, avrei fatto più soldi. Sarei finito anch’io a far sceneggiature. Qualcuna ne ho fatta lo stesso. Negli anni Settanta avevo scritto un plot: uno studente di una grande università che è in realtà figlio di un boss della mafia e diventa amministratore dei fondi della scuola...”. Tipo i Sopranos meets Harry Potter... “Esatto! Ma trattare coi produttori è talmente un incubo, e mi ha insegnato tanto su quel mondo. Che non cambia mai: Hollywood ha sempre invidiato gli scrittori e dunque ha sempre tentato di umiliarli. Può essere terribile, passi ore in riunioni inutili e non ne viene fuori mai niente. Però è così entertaining: soprattutto quando i produttori cominciano a raccontare storie su di sé, del resto molti di loro segretamente hanno sempre voluto essere attori, quindi le riunioni sono il loro palcoscenico. Il segreto può essere però fare sceneggiature per film che non usciranno mai. Ho amici che ci hanno campato alla grande scrivendo e riscrivendo per decenni film mai realizzati”. Poi oggi ci sono le serie. “Un sistema molto simile alla vecchia Hollywood. Una produzione industriale, anche lì si cerca la formula perfetta, storie sempre uguali, durata simile, se un prodotto va bene lo si rifà all’infinito, invece di trovare strade nuove”.

 

Lui lo racconta benissimo, quel mondo primordiale hollywoodiano, un vero far west coi tycoon, spesso ebrei, immigrati o arraffoni provenienti d’ogni dove i Mayer, i Selznick, che riescono a far fortuna anche lontano dalla mentalità rigorosa e puritana della Costa est. La California con la sua luce e la sua assenza di regole è lì per loro. Personaggioni: Louis B. Mayer che fonderà la Mgm coi suoi leoni ruggenti nasceva Lazar Meir, poverissimo commerciante di rottami in Russia, “non amava nemmeno il cinema, ma pensava fosse un buon business. Non aveva nessun gusto per le pellicole ma aveva capito che i cinema avevano bisogno di prodotti sempre nuovi. Non contava la qualità, perché gli spettatori spesso non sapevano neanche l’inglese abbastanza per capire quello che si diceva, c’era un interprete che spiegava quello che appariva sullo schermo, e però c’era il fascino della sala buia”. Sua figlia Irene Selznick, che sposerà il produttore di “Via col vento”, specie di infanta di Hollywood che ispirerà la protagonista degli “Ultimi fuochi” fitzgeraldiani, è stata la grande guida di Thomson nel suo viaggio hollywoodiano, vecchia cattivissima e geniale relegata in finale di vita al Pierre di New York, regina in penombra in un mondo “di uomini non particolarmente brillanti, perché non servivano geni, il cinema di Hollywood negli anni d’oro era praticamente un business che stava in piedi da solo”.

 

Irene che a un certo punto produsse anche “Un tram chiamato desiderio” di Tennessee Williams, è presa anche da Ryan Murphy come figura centrale nel suo “Hollywood”. Le è piaciuto? “E’ un po’ un pastiche, peccato, perché le vere storie sono così interessanti”. Interessante che Hollywood continui a produrre film su Hollywood. “Già, anche se la gente poi al cinema non ci va più. E’ come il cibo, se ne parla sempre di più ma poi nessuno sa più cucinare”. Ma tornando ai Selznick, “l’essere inglese mi è stato utile con Irene che mi ha aperto le porte di casa solo perché le sembrava chic e sintomo di serietà”. “David O. Selznick ( la ‘o’ fu aggiunta a un certo punto per darsi un tono, e anni dopo si trovò a doverla giustificare, e cominciò allora a farsi chiamare Oliver) al primo tentativo da produttore azzeccò Via col vento. Era famoso per dettare promemoria di cinque-seimila parole, come se avesse scorte di energia inesauribili. Energie che gli venivano anche dalla benzedrina che consumava copiosamente”. Louis B. Mayer invece era “un uomo che girava sempre con un rotolo di monete in tasca, casomai ci fosse da comprare un’idea nuova, o una persona”.

 

Il punto di vista di Thomson, antropologo di Hollywood potremmo dire marxista o marxiano, sulla fabbrica dei sogni, racconta con una prosa sorniona da grande inglese witty fatturati, cifre, business model, una contabilità disincantata di quella che è stata soprattutto un’industria nel vero senso della parola. Griffith, padre del cinema moderno (noto soprattutto ai non cinefili per il montaggio analogico, cfr. Fantozzi), è protagonista di un business pazzesco, Griffith con “Nascita di una nazione” inventa sì il cinema moderno ma soprattutto fa incassare a Mayer  60 milioni di dollari (del 1915) con un guadagno del 60 mila per cento sull’investimento. In questa Silicon Valley del cinema oltre a quella del produttore nascono le figure centrali dello sceneggiatore, generalmente bistrattato, ma nasce anche proprio l'idea della sceneggiatura, non testo aulico ma documento notarile, canovaccio che serve a inchiodare la produzione a uno schema, a non farla andare fuoristrada, per evitare l’incubo di casi come quello di Eric Stroheim (già cappellaio in Germania e assistente di Griffith, il “von” se l’era inventato; Hollywood oltre che di sogni fu unna gran fabbrica anche di nomi) che a un certo punto pretende una versione di 12 ore del suo “Femmine folli”, per poi scendere a otto ore, e in generale le bizze di sceneggiatori e registi che pretendono di fare arte mentre qui si fanno principalmente soldi.

 

E poi nasce pure il nuovo mestiere del regista, che lungi dall’essere un visionario creativo, era piuttosto un organizzatore in grado di far filare dritte le duecento persone presenti su un set. “E’ un lavoro immane, bestiale e disumano”, dice Thomson, “perché induce alla tirannia e all’eccesso quando generalmente i tipi creativi sono introversi e solitari”. Ma servono, per governare questo business che esplode in pochissimi anni trasformando una cittadina come Los Angeles in epicentro di immaginazione, oltre che di real estate, sogni e urbanizzazioni. E conti generalmente truccati, star che sono sempre pessime amministratrici di sé stesse, tranne pochissime eccezioni, in particolar modo Charlie Chaplin, altro inglese che ha fatto fortuna a Hollywood,  geniale manager della sua immagine, “un semianalfabeta che arrivò a essere la persona più celebre del suo tempo, oltre a una delle più ricche, e anche un notevole molestatore di ragazzine”. Figlio di un cantante di varietà e di una prostituta, finanziato da Amadeo P. Giannini, l’immigrato banchiere italiano che risollevò San Francisco e ancor oggi è un eroe nazionale americano perché si mise a prestare soldi senza garanzie.

 

Hollywood non fu il posto dove nacque il cinema. Vennero prima i Lumière a Parigi e Thomas Edison nel New Jersey (leggere nel libro la magnifica disamina dei due metodi, in cui l'americano prefigura la televisione, con una visione singola, ogni spettatore con un proprio piccolo schermo, mentre i francesi inventano la grande sala dove tutti stanno insieme). Ma Cecil B. De Mille è il primo a girare in California, nel 1913, “in un fienile”. In California ci sono il sole e la luce. Prima di allora lo stato oggi più ricco d'America è una grande landa che vive di agricoltura e turismo, col clima che “cura la depressione”, poi arriva la ferrovia, che altro non è se non una “carrellata” sul futuro. Infine il cinema, che sembra non poter attecchire che lì. Però Hollywood per ironia della sorte prima del cinema era il quartiere dei ricchi di Los Angeles, che avevano fortune immobiliari e agricole, e vedevano con sospetto questi arricchiti cinematografari (come si vede negli “Ultimi fuochi” di Fitzgerald, recentemente ripubblicato in Italia da Minimum Fax col titolo "L'amore dell'ultimo milionario", più vicino all'originale "The last tycoon"). “I figli delle star non erano ammessi nelle scuole per bene, e i padri nei country club”, dice Thomson. Ma poi il cinema contagerà la città in un dolce follia a due che non si è mai più risolta. Anche in architettura, “i set prendono ispirazione dal reale e viceversa. Gli edifici sono destinati a durare solo per lo spazio delle emozioni che dovrebbero provocare”.

 

Toponomastiche che diventeranno celebri ma nascono a caso, si vendono sogni e splendide realtà. “Nel 1907 l’immobiliarista Burton O. Green avviò una lottizzazione e la chiamò Beverly Hills. Il nome derivava da Beverly nel Massachusetts, dove il presidente degli Stati Uniti Taft aveva una residenza estiva. Cinque anni dopo, in aperta campagna, fu sempre Green a edificare il Beverly Hills Hotel, nella speranza di farne una valida alternativa all’Hollywood Hotel, sull’angolo di Hollywood Boulevard e Highland Avenue”. Tutto ha una sua logica molto meno poetica di quel che si pensi: anche l’Academy che conferisce gli Oscar; a un certo punto Louis B. Mayer all’apice del successo decide di farsi una grande casa al mare, a Santa Monica, che affida ovviamente non ad archistar ma ai suoi scenografi: deve essere pronta in sei settimane, ma quelli entrano in sciopero. Gli scioperi, anche tra gli attori (spauracchio hollywoodiano che non conosce crisi) preoccupano molto Mayer, che vuole mettere insieme tutti i “talent” imbrigliandoli in un sistema che non gli permetta di fare di testa loro e soprattutto sbarri la strada ai sindacati. La sera del’11 gennaio del 1927 fa dunque una gran cena all’hotel Ambassador e forma una associazione che tenga tutti assieme e che si chiama Academy of Motion Picture, il premio sarà una statuetta alta 34 cm, tre chili di stagno e rame rivestiti in oro placcato (pare che il nome Oscar derivi dallo zio di una certa Margaret, prima bibliotecaria dell’Academy).

 

“L’ Academy fu centrale per contrastare la sindacalizzazione delle maestranze”, racconta oggi Thomson. Certo lo schermo diventa piccolo ma gli scioperi oggi sono ancora centrali. “Hanno ragione quelli che protestano, soprattutto contro le piattaforme per i cosiddetti residual”, dice Thomson, cioè i diritti di passaggio (se il tuo film viene visto mille volte su una piattaforma, a te che ci hai lavorato nel film non viene in tasca neanche un centesimo). Per il resto non che Thomson sia un nostalgico della sala. “A Natale sono andato a vedere ‘The Fabelmans’ di Spielberg, un film mica male, e c’erano sei persone in tutto il cinema. Certo, il Covid è stato il colpo di grazia finale alle sale, ma già prima non ci andava più nessuno. La verità è che oggi nelle nostre case gli schermi superano come qualità quelli di tanti cinema, e la gente lo sa, poi a casa non hai qualcuno che ti sgranocchia accanto, o l’aria condizionata rotta. Confesso che ormai vedo film persino sull’iPhone. E il futuro sarà sempre di più con i vari oculus, o visori, ne ho testato un esemplare, è incredibile”. Chissà se, a parte i supporti, i film continueranno a farsi in California. Tutto era nato per una questione pura e semplice, la luce. “Esposimetro alla mano, Los Angeles è la città  con la luce più forte al mondo. Non c’è partita”. Chissà se adesso con le intelligenze artificiali potranno riprodurre la luce californiana anche in qualche sperduto borgo cinese. A Hollywood in quel caso rimarranno i terremoti, il deserto, e una scritta ormai antica.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).