L'umana terra
Sindaco della sua Tricarico, Rocco Scotellaro cantava la Lucania degli ultimi
I suoi versi hanno il volto di una classe sociale che prende coscienza di sé. Sono struggenti le parole dedicate ad alcuni amori fugaci. È stato molte cose, e in tutte è stato brillante. Perché rileggere le sue poesie a cent’anni dalla nascita
Continua la vita nel gelo… / l’anima mia è in questo respiro / che mi riempie e mi vuota”. Così scrive, o meglio, scolpisce, Rocco Scotellaro. Lucano del ’23, e detto così sembra un vino, e del vino, Scotellaro, possiede la corposità e la persistenza del sapore, sul palato della memoria. “E sento che t’insorge la preghiera / tra le loro canzoni e le bestemmie”. Pietra preziosa della Basilicata e della letteratura, “perché lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova”. Quest’anno ricorre il suo centenario di nascita. “Al di là della collina / era il silenzio dell’acqua infossata”. Figure come Scotellaro andrebbero ricordate ogni giorno per il beneficio che portano al pensiero e alla riflessione in termini storici, sociali ed esistenziali, “occorre guardarsi indietro / a vedere il giorno / dove corre”.
Breve e intenso, Rocco Scotellaro, muore come si muore: improvvisamente, a trent’anni, nel ’53, in provincia di Napoli, “città del lungo esilio / di silenzio in un punto bianco dei boati”.
Pur nella fugacità del suo arco terreno, è stato molte cose, e in tutte è stato brillante: poeta, scrittore, giornalista, politico socialista. Era avanti, era oltre. Consapevole di essere “parte attiva della realtà”, su quella realtà devastata ha tentato di incidere. “E’ tempo di crucciarsi / di dir di sì all’Uomo che saremo”.
Ha raccontato una geografia umana che ci include tutti perché, in fondo, come canta De Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta offeso e nessuno si senta escluso. Pare che a lungo la foto di quest’uomo, di questo ragazzo, definito in tanti modi, sia stata appesa alle pareti delle case di Tricarico, come un caro fra i cari. Luchino Visconti, negli anni 60, si ispirò a Scotellaro per il film “Rocco e i suoi fratelli”, tratto dai racconti di Giovanni Testori.
“I miei sono gente poverissima”; figlio di un calzolaio e di una sarta – “la mamma aveva i capelli gonfi e lucenti … Mamma, tu sola sei vera / E non muori perché sei sicura” – che si prestava a fare la scrivana per la gente di Tricarico, un paesino di origini arabo-normanne – fotografato da Henri Cartier-Bresson che di Scotellaro fu amico – incastonato su una collina in provincia di Matera, dove arretratezza e analfabetismo regnavano sovrani. “E il nostro urlo si fa più forte / come quello della massaia che ha sperso / la gallina e bandisce alle strade / solitarie il suo rancore”.
Il percorso di studi di Scotellaro, brillante studente, è stato faticoso per via delle condizioni economiche della famiglia. Mancò il conseguimento della laurea in giurisprudenza per la sopraggiunta morte del padre. “Padre mio che sei nel fuoco… / Tu pure non farai bene dicevi / vedendomi in bocca una mossa / che forse era stata anche tua”.
Profondamente innamorato della sua terra, “sono uno degli altri… ho l’anima sfilacciata a brandelli… / e mi rifaccio altrove a pensare”. Fu un attento studioso, e cantore, della questione meridionale, “l’oasi verde della triste speranza”. La sua esperienza di sociologo rurale si trova nel testo incompiuto “L’uva puttanella”, pubblicato nel 1955 da Laterza, con la prefazione di Carlo Levi, che di Scotellaro dice: “Resta e si accresce una giusta immagine di lui, che non si può chiudere in schemi, né sfuocare in commosse esaltazioni, ma che sempre più chiaramente si mostra in un suo carattere unico e esemplare, una realtà vera che va al di là del suo mondo di allora, dei suoi dolori, delle sue lotte, che non si ferma agli scritti, e che parla sempre più chiaramente, in modo nuovo, non solo della Lucania e del Mezzogiorno, ma della vita dell’uomo e della sua pericolante giovinezza”. E’ un libro complesso, anche nella struttura linguistica, una sorta di diario pubblico, un’analisi politica ed esistenziale. Il titolo viene da un suo pensiero sulla condizione della sua gente e sul difficile riscatto: “Noi siamo degli acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella”.
Era comunitario nell’animo nobile; sensibile e partecipe alla sorte degli ultimi, forse oggi si direbbe di lui che era empatico, noi preferiamo dire compassionevole, capace di sentire insieme agli altri, “e ho saputo la rovina del pianto”. E forse in un tempo come il nostro in cui tanto ci si straccia le vesti su temi come l’uguaglianza, merita di essere considerata la declinazione essenziale, elementare, che Scotellaro fa del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione: “Tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello”.
Voleva concretamente agire in favore dei diseredati. “A una dimora certa / lontana tendono / all’orizzonte forse / dove sempre il sole / cade di sera”. Intraprese il percorso di sindacalista per poi iscriversi al PSI. A 23 anni, nel 46 (quando per la prima volta votano anche le donne), mentre l’Italia vive il complesso momento del dopoguerra, diventa sindaco del suo paese, eletto nella lista civica L’Aratro. “E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”.
In ambito politico, la sua cifra era l’attitudine a coinvolgere la popolazione nella risoluzione dei problemi, un esempio è la fondazione dell’Ospedale Civile di Tricarico, nel 1947, realizzato con la partecipazione economica e umana dei cittadini. “Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito / e nella valle il cuculo già freme”.
Nel 1950, gli avversari politici lo accusano di concussione, truffa e associazione a delinquere; finisce in carcere per circa 45 giorni, nella cella numero sette della prigione di Matera. “Ma è finita, è finita, è finita / quest’altra torrida festa / siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta”. Il suo difensore, l’avvocato De Ruggeri, disse che Scotellaro trovava sollievo solo nella lettura dei libri che gli portava, “dopo aver superato la dura censura del cappellano don Peppino”.
Vince un premio di poesia di centomila lire e lo dona ai compagni carcerati, coi quali aveva instaurato un rapporto paritario. Erano per lo più braccianti agricoli che avevano occupato delle terre, gente che lo aveva preso a benvolere e che ritroviamo mirabilmente fra le pagine dei suoi scritti. “E il sangue è ancora caldo nelle reti / del mondo distrutto che parla / picchiando alle nostre pareti”.
Assolto, in seguito, con formula piena per non avere commesso il fatto, rimane tuttavia profondamente segnato dall’esperienza in cella. Si allontana dalla vita politica. Rieletto sindaco, si dimette. Non aveva smesso di credere all’importanza dell’impegno, “politicamente ho fiducia che cessi la indegna e mortifera divisione del mondo perché l’umanità possa curarsi dei suoi mali: la povertà economica e il decadimento culturale”, ma soffriva di quell’amara sensazione che traduceva come tradimento dei vertici. “Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore / gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla / … le maledizioni e le preghiere”. Decide di scegliere un altro percorso, altri strumenti, per sostenere e raccontare quel mondo rurale cui sente di appartenere e che non smette di indagare. “Le strade sparse di paglia / il vuoto alle finestre”. Preferisce dedicarsi alla scrittura e allo studio del Piano di sviluppo regionale per la Basilicata. “Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame”. In un contesto di confronto, di stima e amicizia, una grande importanza hanno avuto per Scotellaro l’economista e studioso delle trasformazioni delle campagne, Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi, il piemontese esiliato al sud che da quel sud finì per sentirsi compenetrato, e fu proprio Levi a definire Scotellaro poeta della libertà contadina. “Anche le mandrie fuggono l’addiaccio / per qualche stelo fondo nella neve”.
Lascia la sua regione, “la città mi apparve la notte / dopo tutto un giorno / che il treno aveva singhiozzato, / e non c’era la nostra luna, / e non c’era la tavola nera della notte / e i monti s’erano persi lungo la strada”. Accetta un incarico all’Osservatorio agrario di Portici, e conduce un’inchiesta sulla cultura e sulle condizioni di vita delle popolazioni del sud. Fu tra i promotori della Riforma agraria del Sud. Tuttavia il dispiacere per avere lasciato il paese natio non lo abbandonerà mai, “e là, nell’ombra delle nubi sperduto / giace in frantumi un paesetto lucano”. Quel paese coi boschi “dalle spalle larghe” che rompono “la faccia azzurra del cielo, / querce e cerri affratellati nel vento, / pecore attorno al pastore che dorme, / terra gialla e rapata”.
C’è tanta sterminata bellezza nei suoi testi, pubblicati tutti postumi. A Mondadori va il plauso per la pubblicazione, nel 2019, del volume “Tutte le opere”, curato da Franco Vitelli, Giulia dell’Aquila e Sebastiano Martelli. “Sedevano le famiglie dopo cena / ai gradini delle porte, / era un lento pensiero della vita: / contavano i defunti e i nati / dell’estate che correva”.
La sua produzione letteraria, di grande finezza stilistica, ha un carattere socio-antropologico. Nelle sue pagine il sud diventa simbolo di una universale periferia dimenticata, un luogo collettivo che chiede ascolto. “Lungo è aspettare l’aurora e la legge / domani anche il gregge / fuggirà questo pascolo bagnato”.
I suoi versi possiedono una struttura compatta e piena di sonorità che evoca mondi interiori ed esteriori. C’è l’acutezza dello sguardo che sa analizzare l’animo e la condizione del quotidiano vivere dell’universo meridionale, “questa folla di stracci / presa nel gorgo dei propri affanni”; la meditazione costante, lo scetticismo e l’amarezza intorno a un mondo di “povere, piccole cose”, che resta antico. “Il pastore sente le annate / precipitare nel tramonto”. La sua poesia ha il volto di una classe sociale che prende coscienza di sé, “sradicarmi? la terra mi tiene / e la tempesta se viene / mi trova pronto”; possiede una coralità di mondo che non è solo il suo di allora, poiché continua ad avere ancora le sembianze del nostro. “Ritorno a quelle strade rotte in trivi oscuri”. E’ un percorso nei sentieri accidentati della condizione umana, quei sentieri dai quali non si torna indietro. “E io cammino con la mano al cuore / perché a forza potrebbero rubarlo”.
“Con tutta l’ansia che non ti so dire / potremo insieme vivere e morire”. A Venezia, nel ’50, dopo il carcere, conosce Amelia Rosselli, la poetessa che cercava un luogo che fosse casa. “Ombre di noi che siamo in fuga”. Fra i due si instaura una affinità elettiva. “Abbiamo insieme cantato / le nenie afflitte del tempo passato”. Ognuno di loro si fa medicamento per l’altro, si fa figura centrale per l’altro. Si tratta di due “anime stracciate”, diverse nella profondità e nelle ferite, che tuttavia si riconoscono. Per lui la Roselli scrisse: “Come un lago nella memoria / i nostri incontri /come un’ombra appena / il tuo volto affilato / un’arpa la tua voce”.
Passionale in ogni senso, “è rimasto l’odore / della tua carne nel mio letto”, Scotellaro è intensamente vivido nel significato e nel significante. “Misuravo le parole tue calde / cercandoti le labbra con le dita”. Sono struggenti i versi dedicati ad alcuni amori fugaci, vissuti con la contezza della distanza fisica, e spesso anche sociale, e la malinconia della separazione certa. “Avevi tutti gli odori dei giardini / seppelliti nei fossi attorno le case… / io ti guardo e mi bevo il tuo sorriso, / amica del caso, scoperta del cuore/che deve colmare la sua sera”.
“Si nasce: un mistero nell’aria dove tutto è morto. Si resta legati a questi sassi tenacemente, scartati dal resto del mondo: il mare è lontano, la ferrovia a perdita d’occhio, s’allinea come tenue filo nella vallata del fiume. C’è solo la montagna e il cielo irraggiungibile”. La buona letteratura è sempre la più appropriata delle luci guida lungo i vicoli dell’esistenza. “Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema / E la mia Patria è dove l’erba trema”. E’ un raro esempio di umiltà e lungimiranza, Scotellaro. Dirompente nell’attualità del suo dire. “Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni”. Ha provato ad abitare poeticamente la vita. Ha tentato di prendere a picconate una montagna. “Sperduti siamo in questo mezzogiorno / nella lunga mulattiera / cordonata da agavi sempreverdi”. Un poeta contadino, un fine intellettuale che desiderava ridurre le distanze e dare voce e dignità alle ragioni di tanta gente in cerca di riscatto. Un sindaco poeta che trascorse la sua breve vita cercando di agire a sostegno di un piccolo grande mondo in difficoltà. “Con tutto il peso che mi porto / della vita che m’è nata”.
Ci rimane di lui una straordinaria capacità di sentire la vita, la consapevolezza che la scrittura è memoria e rifugio; strumento di azione. Ci rimane di lui, come imperituro memento, l’importanza del valore dell’appartenenza, e anche la considerazione di quella quotidiana caduta “delle maiuscole”, come era solito dire lui davanti all’infrangersi dei sogni; la lampante certezza delle lacune e dei limiti della storia, quella storia che è “nelle vene della terra”.
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