Il Foglio del weekend
Il mio cinema è il Napoli, parla Aurelio De Laurentiis
“La città mi bacia e io l’adoro”, altro che “romano”. Il presidente del Napoli sul passaggio dai film al calcio, Fellini e i giovani d’oggi
Confida che gli viene da ridere, Aurelio De Laurentiis, quando i tifosi nei momenti dispari del lungo rapporto con loro – compie a settembre diciannove anni – lo chiamano “il romano”. Gli viene da ridere perché l’avventura industriale della sua famiglia non sbocciò a Roma ma a Torre Annunziata, dove si parla una variante di napoletano talmente stretta che nel capoluogo neanche la capiscono. A Torre nacquero zio Dino e Luigi, il padre, con cui avrebbe fondato la Filmauro nel ’75. A Torre il nonno, Aurelio come lui, era approdato dall’Irpinia, “terra d’origine anche di Sergio Leone”, per una ragazza di cui s’era innamorato facendo il militare e che avrebbe sposato: Giuseppina. Quella cittadina alle porte di Napoli era la capitale nazionale della pasta, “l’arte bianca”, e il nonno vi aprì uno stabilimento destinato alla produzione di lusso. Gli viene da ridere, al “romano”, perché confida che ha sempre considerato Roma, dove è nato e cresciuto e dove ha sede la Filmauro, una città complicata da vivere: “Amo Napoli, Los Angeles e Londra”, dice, “e mi spiace che mia moglie svizzera non mi abbia fatto alternare a Roma il lago Lemano di Ginevra per coltivare la mia passione per la vela. Ma ormai il calcio mi ha bucato tutti i weekend”.
E’ di buon umore, il presidente del Napoli, dopo l’esordio in campionato col tricolore sulla maglia, malgrado il “caso Spalletti” abbia nuovamente diviso – è destino – la tifoseria partenopea sul suo atteggiamento. Chi dice: fa bene a non scontargli la penale che lo legava al club; chi dice: meglio se cedeva di fronte alla chiamata del tecnico in Nazionale. “Ne stanno discutendo gli avvocati e io non m’intrometto”, taglia corto De Laurentiis. E se gli poni il dubbio che l’addio di Mancini alla Federazione e l’ingaggio di Spalletti non siano maturati in un lampo agostano, allarga le braccia. “Spalletti mi disse: ‘Sono molto stanco, ho bisogno di un periodo sabbatico per coltivare la terra’. Perciò lo lasciai andare. Però quel che gli passava per la testa lo sa solo lui”.
Con tre coppe Italia e una Supercoppa, soprattutto con un terzo scudetto trentatré anni dopo, vinto praticamente già all’inizio della scorsa primavera, ’o Presidente si è tolto una soddisfazione anche su chi lo contestava giusto un anno fa per le sue scelte di mercato. Napoli è città difficile se spazientì persino un ex scugnizzo come Enrico Caruso, che per ripicca non cantò più al San Carlo; difficile se spinse Eduardo a esortare “Fuitevenne!”; una città di cui La Capria, fattosi lui civis romanus, scrisse che “ti ferisce a morte o t’addormenta”. Ma De Laurentiis non concorda: “Napoli non mi addormenta né ferisce. Mi bacia. E io la adoro. L’immagine più bella è quando mi allontano sul mare, la vedo progressivamente più distante e ho l’impressione che mi abbracci”. L’aveva già vissuta mentre giravano La mazzetta e un contrabbandiere gli concesse una prova sul potente motoscafo blu. Intanto litigava con Nino Manfredi per avere – Aurelio – affidato le musiche del film a un semisconosciuto guaglione: Pino Daniele. (Sarebbe accaduto lo stesso con i tifosi all’acquisto del coreano Kim nella stagione scorsa).
Miglior attore di zio Dino, che diventò produttore ma da ragazzo sognava un ruolo davanti alla macchina da presa, Aurelio sa recitare la parte dell’antipatico, ma è cinema. Per sfruculiare i napoletani disse che è migliore la pizza romana, poi sotto sotto chiede all’amico Ciro Oliva del ristorante Concettina ai Tre Santi di trovargli un palazzo alla Sanità, il rione della celeberrima commedia di Eduardo dove nacquero Totò, Squitieri, il guappo Campoluongo, Luigi Necco. “Voglio venire ad abitare qua”.
E’ vero che il calcio è il calcio e per clic e chiacchiere prevale su tutto, però sbaglia chi giudica De Laurentiis come se la sua biografia cominciasse a settembre 2004, quando per trentatré milioni comprò il Napoli finito all’inferno senza conoscere nulla di pallone ma acquistando i palloni per gli allenamenti. Neanche quelli c’erano. Per capire ’o Presidente bisogna ricordare chi e come sia stato dal 1949, quando nacque il 24 maggio (combinazione, via XXIV Maggio ospita la sede della Filmauro).
La guerra inferse un colpo ai pastifici torresi e i De Laurentiis, trasferitisi a Roma, quando nacque Aurelio erano già attivi nel cinema per impulso di Dino, che intanto s’era scoperto un talento non di attore: si manifestò con Mario Soldati, che girava in piena guerra Piccolo Mondo Antico e non sapeva come illuminare gli esterni del lago di Como a causa dei veti dettati dalla contraerea. Dino riuscì a improvvisare un ingegnoso gruppo elettrogeno – introvabile durante il conflitto – e sancì il primo successo di un cammino che lo porterà alle glorie hollywoodiane. “Mio padre invece, laureatosi alla Federico II in Giurisprudenza e anche all’Orientale di Napoli in russo e bulgaro, dopo aver vinto una borsa di studio, fu mandato dal ministero degli Esteri a Sofia dove conobbe mia madre Maria, che lavorava presso la nostra ambasciata”, racconta De Laurentiis, “e poiché in ambasciata s’annoiava radunò i maggiori intellettuali del paese e fondò un giornale che si chiamava, tradotto in italiano, Bianco e Nero. Mamma ricordava che lo cercavano nelle edicole di tutta la città ma era impossibile trovarlo: appena usciva andava esaurito. Diceva mio padre: ‘Il denaro non mi ha mai interessato come fine, ma quel che guadagnai a Sofia da editore non l’ho più guadagnato nel resto della vita’”. La guerra gli rovinò l’attività e Luigi rimpatriò, attraversando la Linea Gotica per raggiungere il fratello minore. Furono gli anni del “cinema eroico” della Lux, cui seguì il sodalizio con Carlo Ponti e la nascita della Ponti-De Laurentiis, studi alla Vasca Navale che Aurelio frequentò da bambino.
Adesso il calcio santifica le star, allora fu il cinema: “Quando Silvana Mangano volò con mio zio a Buenos Aires trovò all’aeroporto quarantamila persone ad applaudirla. Questo era il divismo”. Oggi accade a certi ritorni del Napoli, come ad aprile scorso dopo aver battuto la Juventus a Torino, quando migliaia di tifosi scortarono la squadra nel cuore della notte. “Il passaggio dal cinema al calcio non è stato difficile né traumatico ma interessante, e quando le cose sono interessanti diventano anche facili”, sostiene De Laurentiis. “Ho avuto la fortuna di fare la gavetta in una famiglia che mi ha permesso di conoscere tutte le componenti dell’industria dell’audiovisivo, di diventare imprenditore e acquisire coraggio, perciò quando ho preso il Napoli ero convinto che avrei imparato velocemente i nuovi meccanismi”.
Chi rammenta certe sue esternazioni alle riunioni di Lega può immaginarlo in bianco e nero, mandando indietro l’orologio come nei flashback al cinema: un ragazzo coi capelli fino alle spalle, che veste come i coetanei sessantottini e frequenta Giurisprudenza. Sta litigando col capo del movimento studentesco: “Era un mio amico ma gli dicevo di non rompere le scatole con gli scioperi: la mia vita era divisa tra i set e l’università, finiva un film e ne cominciava un altro. Per lavorare dovevo rinviare il servizio militare e dare esami era l’unico modo. Furono scontri dialettici divertenti: lui interpretava il giusto disagio dei giovani, io seguivo un percorso che non ammetteva distrazioni”. A casa non lo viziavano: aveva frequentato il liceo scientifico statale Augusto Righi e ricorda con sollievo “l’uscita dall’epoca canterina dei nostri genitori con la scoperta dei Beatles e dei Rolling Stones”, solo che quando scoprirono che aveva comprato di nascosto un motorino 50 cc lo misero un anno in collegio. “Per noi le due ruote erano un inno alla libertà, l’uscita dalle mura domestiche. A 15 anni dovevamo ritirarci a mezzanotte e se tiravamo tardi le mamme ci aspettavano con la ciabatta in mano. Eppure la mia generazione ebbe coscienza di vivere un periodo straordinario. Oggi i ragazzi sono apparentemente più adulti perché iperconnessi al mondo virtuale, ma più timidi, e più ignoranti. E’ difficile appassionarli a un romanzo o a un film. Giorni fa ho provato coi miei nipoti e i loro amici proiettando Apocalypto di Mel Gibson, che avrò visto quindici volte, ma neppure un’opera così forte li ha coinvolti più di tanto”.
De Laurentiis ha prodotto e distribuito oltre 400 film. A elencarli si ripercorre la storia del paese. Da Un borghese piccolo piccolo alla saga di Amici miei alle commedie natalizie: “Mi sono divertito per trentadue anni a seguire i costumi della società italiana che cambiava a ogni Natale, quando ciascuno nella sua famiglia recita un ruolo che al di fuori della festa forse neppure gli appartiene”. Lunghissimo rapporto anche con Carlo Verdone, contratto in esclusiva da ventidue anni e alla seconda stagione del serial tv “Vita da Carlo”, in onda dal 15 settembre prossimo su Paramount+. Al presidente sarebbe piaciuto pure esplorare nuovi mercati: ha provato in Cina “ma le leggi sono troppo restrittive per gli stranieri. Ho preferito continuare a lavorare in Europa e negli Stati Uniti”, però pensa che i paesi più interessanti per il cinema, al netto delle instabilità politiche, saranno il Messico e la Nigeria. “Pochi hanno il coraggio di investire in Africa, ma è un continente tutto da sondare”. Si ritiene “un visionario” ed è deluso dai politici: “Non hanno capito una cosa semplicissima: senza economia non si può far politica. Solo Draghi lo aveva compreso ed è stato il più capace. Oggi, se l’opposizione svolgesse un’azione intelligente collaborando con chi governa, sicuramente l’Italia se ne avvantaggerebbe. Il vero diktat del momento è promuovere il nostro paese come il primo al mondo per bellezza e sicurezza creando immediatamente quelle infrastrutture necessarie a unificare il nord con il sud per rappresentare finalmente nel mondo la vera Italia. Questo dovrebbe essere il vero goal di governo e opposizione”.
S’accalora, De Laurentiis, quando la politica lambisce il calcio: “Si convinceranno mai a rispettare 24 milioni di tifosi, che sono anche elettori? L’obsoleta legge 91 dell’81 che regola lo sport professionistico, di recente parzialmente modificata, andrebbe tutta cancellata unitamente alla legge Melandri. Il settore va liberalizzato, leghe e federazioni non aiutano la modernizzazione dell’industria calcistica esprimendo una visione troppo vincolata al passato. Purtroppo da sempre i politici ci sparano addosso e anche loro non favoriscono la vera crescita industriale del settore. Intanto il nostro calcio fatica rispetto ai tornei di altri paesi”. Soluzioni? “La Meloni dovrebbe aprire un tavolo, non quelli che si concedono per contentino a tutti, ma un tavolo concreto per riscrivere in poche settimane la storia del calcio futuro”.
Se fosse incline al rimpianto, De Laurentiis rimpiangerebbe il cinema. Perché col calcio una differenza sostanziale c’è. Come c’è tra produttore e patron di un club, tra regista e allenatore: “Un regista ha il copione scritto nei particolari e se la sceneggiatura è buona non può sbagliare il film. Nel calcio invece non puoi prevedere: il risultato di ogni partita sarà sempre 1-X-2. C’è il campionato, ci sono le competizioni europee, infortuni, squalifiche…”.
E ci sono clausole, contratti, arrivi e addii di giocatori e allenatori che sembrano riprodurre, a ritmi sincopati, il prendersi e lasciarsi nella vita, compresi i divorzi dolorosi come fu per i tifosi quello di Gonzalo Higuaín. Non a caso si ricorre a metafore amorose: “Se tua moglie decide di andar via con un altro…” commentò De Laurentiis al congedo di Walter Mazzarri che aprì l’èra Benítez, come quello di Spalletti ha inaugurato l’èra Garcia. Ecco che un altro flashback può scongiurare di impelagarsi nell’attualità. O di spiegarla meglio.
Si stagliano nel bianco e nero le immagini di una nebbiosa mattina di febbraio a Villa Borghese, dove due uomini che erano amici s’incontrano dopo essersele date in tribunale. Lasciate in disparte le rispettive scorte di avvocati, discutono e gesticolano, passeggiano su e giù e non si sente cosa dicono. Secondo un’altra versione, la discussione avviene in una macchina che percorre quei viali a passo d’uomo in giri interminabili. Univoca però è la scena finale. Che è l’abbraccio tra Federico Fellini e Dino De Laurentiis, riconciliati dopo l’inadempienza contrattuale del regista per il più famoso film non fatto: Il viaggio di G. Mastorna. Fellini, consigliato dal sensitivo torinese Gustavo Rol, non aveva voluto girarlo ma Dino, negli studi sulla Pontina, aveva già installato scenografie milionarie (il Duomo di Colonia, la fusoliera di un jet). Aurelio aveva diciott’anni e aggiunge un’appendice inedita: “Tanto tempo dopo, insistetti ripetutamente con Fellini per girare il film. Lo avremmo intitolato L’aldilà di Fellini, una pellicola sui generis in varie lingue con Jack Nicholson protagonista, che ero certo gli avrebbe meritato un altro Oscar. Ogni tanto andavamo a mangiare al Fico di Frascati, come piaceva a Federico, e sorrideva a quest’idea. Però poi non se ne fece nulla”.
Per calibrare quanto contino queste esperienze precedenti al calcio, per un imprenditore che si vanta di guardare avanti, bisogna forse chiedergli qual è il suo film preferito: “Senza dubbio di Fellini. Potrei rispondere La strada o Le notti di Cabiria come Oscar che vantiamo in famiglia. Invece sono sincero e dico Amarcord”. Perciò il “romano” tiene appesa in ufficio una réclame della pasta De Laurentiis, perciò Napoli non lo addormenta. Piuttosto gli ricorda che adesso lui, a Villa Borghese, non potrebbe incontrarsi con nessuno.
Nella soffitta di Anne Frank