Bologna
La storia passò da Casalecchio. Il trailer della discesa in campo del Cav.
Novembre 1993: l’endorsement per Fini da un centro commerciale. Non c’era il partito, non c’era il programma, ma c’era già tutto del berlusconismo (e dell’antiberlusconismo)
Oltre centoventi negozi, venti ristoranti, quattromila parcheggi, e poi eventi speciali, feste, entertainment, ma anche “un impegno concreto per salvare il pianeta con le migliori tecniche e iniziative di solidarietà in fatto di rinnovabili e riciclo”. Lo “Shopville Gran Reno”, zona industriale Bologna-Casalecchio, si trova tra via Marylin Monroe e la rotonda Gilles Villeneuve. E forse già qui, in questa stramba combinazione, si poteva intuire qualcosa. C’era della predestinazione. A vederlo così è uno shopping mall come tanti, ma “il lavorio del tempo l’ha reso un elemento simbolico”, come diceva Pierre Nora, dovendo definire ciò che rende alcuni luoghi “lieux de mémoire” (e con buona pace del povero Marc Augé, anche un non-luogo come il centro commerciale può diventare un luogo della memoria). La memoria e la storia della Seconda Repubblica passano infatti da qui, dallo “Shopville Gran Reno”, splendida cornice del teaser-trailer della discesa in campo di Berlusconi. L’evento fondativo del berlusconismo politico, passato agli atti come il “proclama di Casalecchio”. Non c’era il partito, non c’era il programma, i “club Forza Italia” erano ancora un “progetto imprenditoriale”, ma col senno di poi a Casalecchio c’era già tutto. Fu inaugurando questo centro commerciale, alla fine di novembre del 1993, che Berlusconi lasciò intuire un suo intervento in prima persona nel complicato scenario politico scaturito da Mani pulite, spiegando che intanto, fosse stato a Roma per votare il sindaco, tra Fini e Rutelli avrebbe scelto “senza un secondo di esitazione” il primo (“perché è un esponente che ben rappresenta i valori del blocco moderato nei quali io credo”). Apriti cielo! In una sola mossa minacciare un ingresso in politica e sdoganare i fasci, il tutto a Bologna, dentro un nuovo ipermercato, nelle odiate “cattedrali del consumo”: l’algoritmo perfetto per far impazzire la sinistra.
Casalecchio di Reno, io c’ero. Nel senso che me lo ricordo bene, dovendo votare proprio quell’anno per la prima volta nella vita, e dovendo scegliere il sindaco di Roma, con consultazione diretta, anche qui per la prima volta nella politica italiana. Rutelli contro Fini era un esordio col botto, una sfida da wrestling. Una competizione politica più semplice da capire rispetto alle complesse fumisterie di alleanze e controalleanze della Prima Repubblica. Un ballottaggio all’americana con semipresidenzialismo locale che inaugurava la stagione dei supersindaci. Era già “calcio”, prima ancora della discesa in campo, un derby che tagliava in due la città, tanto più che Rutelli e Fini risulteranno poi divisi da una manciata di voti. Fu anche la prima di una lunga serie di “emergenze democratiche” e “timori per nostalgie e rigurgiti che riportano indietro la storia nazionale agli anni più bui”, che avrebbero poi scandito tutta la mia vicenda di elettore della Seconda Repubblica. Ma intanto perché proprio Casalecchio di Reno? Nel 1984 il gruppo Standa aveva assunto il controllo della catena “Euromercato”. In Italia iniziavano a svilupparsi i primi grandi shopping mall all’americana, centri commerciali giganteschi, collocati nel nulla delle zone industriali, fuori le grandi città, posti dove trascorrere la giornata, fermarsi a mangiare, vedere un film, comprare di tutto. Il gruppo “Euromercato” apriva cantieri un po’ ovunque, soprattutto al nord. Comprando il gruppo Standa, Berlusconi acquista così anche il ramo degli ipermercati. Il 1993 è un anno d’oro: si inaugurano Casalecchio e i centri commerciali di Grugliasco (Torino) e Tavagnacco (Udine). L’anno dopo però il Cav. vende tutto, scorporando il ramo dei centri commerciali dal gruppo Standa. In quella fine di novembre era quindi lì per inaugurare un suo nuovo giocattolo. Fiutò però anche l’occasione. Lo Shopville nel cuore dell’Emilia rossa e delle Coop era la cornice adatta per elogiare il liberismo e “l’Italia che lavora e che risparmia”, per lanciare messaggi incrociati, per far capire a tutti che bisognava “fermare il raggruppamento delle sinistre” che avanzava ormai a grandi passi verso la guida del paese. Era un appello ai moderati. Ma i moderati, come al solito, erano in affanno, dispersi, disorientati, sballottolati tra la furia giustizialista e i tentennamenti della saga referendaria di Mario Segni, per cui scoccò una scintilla d’amore e grande infatuazione collettiva presto rientrata. Da Casalecchio Berlusconi lanciava l’affondo: “Se non prevalesse l’amore e la razionalità per il paese, allora dovrei assumermi le mie responsabilità di imprenditore che lavora da quarant’anni, non potrei non intervenire direttamente, non potrei lasciare andare il paese in una direzione sbagliata. Sarei costretto a mettere in campo la fiducia che molta gente ha verso di me”. “Amore per il paese”; “mettere in campo”. Un lessico con cui di lì a breve avremo familiarizzato. Il messaggio insomma era chiaro, e non sfuggì a nessuno. Perché a Casalecchio comincia, insieme al berlusconismo, anche l’antiberlusconismo organizzato. Già l’indomani sui giornali si raccontava della “ribellione di Segrate”. Amareggiate dall’endorsement per Fini, le commesse della Standa si dissociavano da Berlusconi, subito ribattezzato “Cavaliere Nero”. Quelle delle sedi romane tempestavano di chiamate la Filcams Cgil, facendo sapere che avrebbero votato per Rutelli. L’idea di Fini moderato non piaceva. “Striscia la notizia” mandava dei finti spot, “Dove c’è Balilla c’è casa”, o la parodia di Costanzo, “Buona camicia nera a tutti”. Nacquero i “Bo.Bi” (“Boicotta il Biscione”), primo movimento antiberlusconiano, nome da cagnolino, prequel di tutti i “girotondi” e “popoli viola” a venire.
Orripilati dall’ipotesi di un Berlusconi in politica e dallo sdoganamento del missino Fini, i “Bo.Bi” chiedevano il boicottaggio della Standa, delle reti Fininvest, e va da sé del nuovo centro commerciale di Casalecchio appena aperto. Spuntarono come funghi i circoli nelle città, organizzando picchettaggi permanenti alla Standa, invitando tutti i romani a votare Rutelli. “Telefoni roventi, fax intasati, cellulari in tilt, uffici pieni zeppi di fogli contro lo strapotere del ‘cavaliere nero’”, scriveva Repubblica; “nel giro di poche ore si è mobilitata un’armata anti-Berlusconi senza precedenti. Comitati cittadini, legati a verdi e ambientalisti di ogni colore, sono spuntati da Palermo a Piacenza, da Caserta a Torino, a Roma, Bari, Napoli, a Brescia”. Si proclamò la giornata nazionale del boicottaggio contro Berlusconi (29 novembre), chiedendo “a tutti gli italiani di fare uno sforzo: non entrate in una Standa, non comprate riviste Mondadori, non sintonizzatevi sulle reti Fininvest”. Ideologo e organizzatore dei “Bo.Bi.” era Gianfranco Mascia, trentaquattrenne, barese di nascita, poi ambientalista a Ravenna, qualche lavoretto, una piccola agenzia pubblicitaria aperta con la moglie, quindi scrittore-attivista, girotondino senior, capopopolo viola, poi blogger del “Fatto”. All’epoca era una fucina di idee agit-prop. Spacciandosi per BOrromeo BIgliotti, col capello impomatato all’indietro, giacca e cravatta, Mascia provò a iscriversi in una sede di Forza Italia a Ravenna, allo scopo di “constatare la sovrapposizione con le strutture Fininvest”. Nonostante il mascheramento berlusconiano, l’operazione non riuscì. Le intersezioni Fininvest/Forza Italia restavano avvolte nel mistero. Preparò anche una “lettera a Gullit” da leggere allo stadio Marassi, per invitarlo ad andare alla Sampdoria, a non ripensarci, insomma a non tornare al Milan, come sembrava a un certo punto (e qui gli ultrà del Milan si incazzarono parecchio, arrivarono minacce, un’aggressione, pare dall’area naziskin di Verona, ma la cosa non fu mai chiarita, Mascia raccontò di un pestaggio con sequestro di persona e una sodomia con manico di scopa, ma nessuno vide nulla, lui decise di non collaborare alle indagini). Una vita dedicata all’antiberlusconismo. L’ultima performance a gennaio 2022. Al grido di “il Quirinale non è un bunga bunga”, Gianfranco Mascia guidava uno sparuto presidio del “popolo viola” davanti a un palchetto improvvisato, un furgone Iveco alle spalle, con la patta dei pantaloni vistosamente aperta, non si sa se per dimenticanza o guizzo teatrale. Si prese però la sua soddisfazione quando nel 2013, ospite a “Servizio Pubblico”, Berlusconi confessò: “La Standa non è andata bene perché i compagni hanno fondato un Bi.Bo. o un Bo.Be., insomma Boicotta Berlusconi, che ha portato un meno 26 per cento in meno in tutte le Standa dell’Emilia Romagna e della Toscana”. A rimetterci furono soprattutto le commesse.
Nel frattempo, a Roma, lo scontro Fini-Rutelli teneva la città in sospeso. Fini ce la metteva tutta per apparire presentabile, ma era ancora uno del Movimento Sociale (Alleanza Nazionale sarebbe nata l’anno dopo), il suo braccio destro si chiamava Donato La Morte, le cene elettorali erano organizzate dall’indimenticabile Teodoro Buontempo, “Er Pecora”, destra ruspante, sociale, saluto romano. Di lì a breve uscirà la prima biografia di Fini, edita da Longanesi, titolo: “Duce addio!” (in copertina lui a un comizio con braccio teso ambiguo, metà saluto alla folla, metà saluto romano). Ma intanto giravano volantini con Fini naziskin, che all’epoca erano la minaccia più spaventosa (che tenerezza oggi, con l’Isis, Hamas, con la folla oceanica di Istanbul diretta da Erdogan la scorsa settimana, la cosa più vicina al “Trionfo della volontà” mai vista dai tempi di Leni Riefenstahl). Da Serena Dandini a Vittorio Gassman, da Bertolucci a Ettore Scola, da Rita Levi Montalcini a Paolo Portoghesi, tutto il mondo del cinema e artisti, scrittori, intellettuali naturalmente era con Rutelli. Si invocava “un voto antifascista”. Le ricette per gestire la città non interessavano (ma Rutelli si rivelerà anche uno dei migliori sindaci di Roma degli ultimi decenni). Con Fini si schierarono Giorgio Albertazzi, il latinista Ettore Paratore, il principe Ruspoli e Lando Buzzanca. I voti arrivarono soprattutto dalle periferie e dalle zone popolari della città. Un segnale che forse, a saperlo leggere, avrebbe meritato qualche analisi in più. La Chiesa invece si asteneva. Il Vicariato di Roma lasciava intendere di essere neutrale, mostrandosi un po’ infastidito da questo nuovo meccanismo elettorale all’americana. Votò compatta per Rutelli la comunità ebraica. Fini era ancora nell’orbita dell’antisemitismo e delle Leggi razziali, entusiasticamente sostenute da Almirante.
Berlusconi, col suo endorsement, era inviato a prendere coscienza della gravità della cosa. “Se vuole sapere perché tanta gente si è ribellata alle sue valutazioni su Gianfranco Fini, vada al Museo dell’Olocausto di Washington”, diceva Furio Colombo (e poi era appena uscito “Schindler’s List”). Al Museo dell’Olocausto, ma allo Yad Vashem di Gerusalemme, ci andrà Fini, nel 2003, da vice-Presidente del Consiglio, passando così da “Mussolini più grande statista del secolo” al “fascismo male assoluto” e alle “leggi razziali che furono un’infamia”, detto con una kippah blu in testa (mammamia come siamo cambiati! Furio Colombo ora se la prende contro “l’antisemitismo della sinistra che su Israele sta sbagliando come con le Brigate Rosse”). Già allora però si capiva di trovarsi di fronte più a un percorso politico-spirituale di Fini che a un esame di coscienza collettivo della destra italiana. Ma era meglio di niente. La destra avrebbe continuato a sfoderare gaffe e saluti romani e busti di Mussolini in casa, mentre il percorso rehab di Fini sarebbe poi approdato nel gran casino della casa di Montecarlo. “Anche se ho perso è un successo”, disse il giorno dopo l’elezione di Rutelli. Aveva sicuramente ragione. Non solo perché di lì a breve si sarebbe ritrovato al governo con Berlusconi, ma perché la valanga di voti che aveva preso non era archiviabile alla voce “rigurgiti e nostalgie”. Fini e Rutelli avevano dimostrato poi che la contrapposizione tra destra e sinistra si era lasciata alle spalle estremismi e intossicazioni da lotta armata anni Settanta. Al massimo, tra i Parioli e Corso Trieste, ricordo qualche t-shirt nera con la silhouette di Fini e la scritta “Rutelli non è il mio sindaco”, sfoggiata portando a spasso il cane. Ma alla minaccia fascista non credeva più nessuno. Neanche quelli che continueranno a invocarla nelle campagne elettorali a venire, ultima inclusa. Il Cav. aveva visto giusto. La legittimazione della destra era un’operazione spregiudicata, in anticipo sui tempi, ma anche un passaggio decisivo per organizzare un fronte moderato-conservatore. Un passaggio che obbligava la destra a spostarsi verso il centro, solleticando più le ambizioni di governo che la rivalsa, il rancore, l’essere underdog. Era ora di iniziare a tagliare via radici e richiami, rendendosi presentabile, o “più presentabile” agli occhi degli elettori. Era poi giusto, dopo la Bolognina, aspirare ad avere anche una destra normale, come in tutte le democrazie avanzate. Da lì ad avercela è un altro conto. Ma anche la prima premier donna della Repubblica scaturisce da lì, dalla nuova éra inaugurata a Casalecchio di Reno.