tra acqua e terra ferma
Venezia, o cara. Il fascino del retropalco della Fenice e il modello di sviluppo sostenibile che serve
Provare a dare un orientamento a una città che sembra averlo smarrito è la sfida più grande della politica locale e nazionale. Anche il teatro non sfugge alla logica dell’orientamento. Idee
Venezia. La città che galleggia a filo d’acqua. Per altri la città che sprofonda nell’acqua. La città che sembra impossibile possa esistere, fuori da ogni logica urbana ed edilizia: marmi splendenti in mezzo al salso lagunare, tra il fango e le maree che tutto rendono instabile. Una città in equilibrio liquido, inventata artificialmente fin dalle sue fondamenta, sostenute da una foresta di alberi piantati uno accanto all’altro, tirati giù dal bosco del Cansiglio per finire sotto ai piedi di chi cammina tra calli, campielli, salizade. Un labirinto affascinante; per altri un labirinto insopportabile soffocante di turisti.
Venezia che splende, Venezia che muore; Venezia vetrina scintillante, Venezia scantinato maleodorante. Come orientarsi? Dove puntare la bussola in una realtà che è sempre ambivalente? A quale mappa affidare il nostro percorso, la nostra geografia fisica e sentimentale per dire qualcosa oggi su questa città? Le mappe sono necessarie per dare un senso alle cose, collegano punti lontani, come le costellazioni disegnano traiettorie e inventano un codice. Con una mappa in mano, la prima cosa da fare è orientarla. Esiste una mappa sensazionale, una xilografia larga quasi 3 metri incisa alla fine del 1400 ad opera di Jacopo de’ Barbari, che ritrae a volo d’uccello tutta la città lagunare e ti fa capire il vero orientamento di Venezia, cioè sul mare. A Venezia ci si arrivava dal mare, è stato così per secoli ed è in quella direzione infatti che i veneziani hanno costruito Piazza San Marco: quando un viaggiatore entrava in laguna, tra la nebbiolina e la foschia, ecco che davanti alla prua della sua imbarcazione spuntava il bacino di San Marco con gli archi di Palazzo Ducale. Davanti ai suoi occhi emergeva d’impatto tutto lo splendore di una Repubblica che nelle sue architetture aveva saputo mettere insieme il mondo orientale e il mondo occidentale. Il viaggiatore entrava nel salotto della città che gli scodellava una bellezza stupefacente da farlo rimanere stecchito e sbalordito. Noi oggi, invece, arriviamo a Venezia dal ponte, cioè da Mestre; come entrare a teatro dalla “stage door” che, come si vedrà, ha anche il suo fascino. Dalle mie parti, quando si voleva saltare un giorno di scuola, si diceva fare manca. “Femo manca domàn?” “E dove ‘ndemo?” “Venessia”.
Ogni mattina per andare a scuola partivo da Scorzè, un paesino della provincia (quella che i veneziani definiscono “campagna” o “terraferma”) per raggiungere Mestre. Mezz’ora di autobus affollato che odorava di gasolio. Mestre per me era una grande periferia, una cipolla che attorno aveva altra cipolla, altra periferia: Chirignago, Campalto, Carpenedo… strati di cipolla senza un centro. Un grande cavalcavia che passa sopra alla stazione dei treni divide Mestre da un’altra periferia, Marghera, che nel mio immaginario era il Bronx: Marghera con il porto industriale e i cantieri navali, i container, le torri, i quartieri pericolosi, l’aria fosca da film noir violento. Quel cavalcavia (tornato alla ribalta delle cronache lo scorso 3 ottobre per il tragico incidente costato la vita a 21 persone) è chiamato Vempa e funge da porta d’accesso a Venezia, collegando terraferma e laguna col Ponte della Libertà, sui cui pilastri c’era una scritta fatta da un anonimo grafittaro: “Se Venezia non avesse il ponte, l’Europa sarebbe un’isola”. Per fare manca, bastava non scendere dall’autobus a Mestre ma proseguire lungo il cavalcavia e poi sul ponte fino al capolinea, dove finiva il mondo perché oltre non si poteva andare e la strada si interrompeva: eri giunto a Venezia.
Ovviamente sulla mappa di Jacopo de’ Barbari non c’è il ponte; chi voleva arrivare dalla terraferma lo faceva in barca percorrendo il Canal Salso, partendo da una piazza a Mestre ancora oggi conosciuta come piazza Barche (immortalata anche in un dipinto del Canaletto), perché lì attraccavano o mollavano gli ormeggi quelle dirette a Venezia.
In agosto i quotidiani ci hanno informato che quest’anno Venezia è scesa per la prima volta sotto la soglia dei 50 mila abitanti nel centro storico; secondo i dati dell’ufficio statistica del comune, infatti, in agosto la popolazione residente nei quartieri della città storica (compresa la Giudecca) era di 49.997 persone. Un veloce raffronto ci fa capire la proporzione di questo dato: Venezia nel XV secolo contava 200 mila abitanti e fino agli inizi degli anni 50 c’erano ancora 170 mila residenti nella città storica… Il processo di spopolamento, che pare inarrestabile, è precipitato a partire dal secondo dopoguerra ed è stato determinato anche da cause naturali come la terribile alta marea che nel novembre del 1966 allagò completamente tutta la città arrivando a sfiorare i due metri: da quel momento molta gente disse basta e iniziò ad andarsene. I veneziani oggi se ne vanno perché evidentemente non trovano le giuste opportunità in mezzo alla laguna e vivono un senso di isolamento. Venezia ha sempre meno cittadini che vogliono viverci, i prezzi sono alti, la scomodità di non avere un’auto per muoversi è elevata, il turismo ha cambiato la faccia della città rendendo impraticabile la vita quotidiana. Venezia città in cui vivere e crescere una famiglia o Venezia parco giochi in cui andare in gita? Come orientarsi? Quale futuro per questa città? Un immaginario distopico potrebbe suggerire beffardamente di offrire degli incentivi economici a questi sparuti 49 mila e rotti affinché decidessero una buona volta di piantarla con la resilienza antistorica e trasferirsi anche loro in terraferma, così finalmente Venezia potrebbe diventare a tutti gli effetti una città-museo con un biglietto di ingresso, tornelli, camere di sorveglianza e attrazioni per tutti i gusti. Un immaginario che punti a un nuovo umanesimo porterebbe invece a suggerire che la bellezza di Venezia dovrebbe essere il motore di una visione in cui la bonifica delle zone inquinate del Petrolchimico arrivi a rigenerare la laguna con un turismo di valore, basato sullo sviluppo di un ecosistema sostenibile. Investire su natura e sostenibilità, perché la risorsa più grande di Venezia è la sua bellezza storico/artistica e naturale. Provare a dare un orientamento a una città che sembra averlo smarrito è la sfida più grande della politica locale e nazionale. Anche il teatro la Fenice non sfugge alla logica dell’orientamento.
Chi arriva a teatro in barca oggi? Nessuno. Ma un tempo la via d’accesso privilegiata lungo la quale il pubblico si recava a teatro era quella acquea: arrivarci in barca era come arrivarci in carrozza, nell’esclusività di un ingresso riservato, come scendere da un taxi che ti ha accompagnato proprio dove vuoi arrivare. L’approdo ufficiale per chi arrivava a teatro si trova su Rio de la Vesta, il canale che sta sul retropalco. Le foto storiche ci mostrano com’era un tempo: signore e signori eleganti scendono dalla barca, accolti da maschere in livrea sotto lampioncini che illuminano un tappeto disteso per accompagnarli all’interno del teatro. Oggi in quel posto ci sono le macchinette automatiche del caffè per chi fa una pausa, ci sono i materiali scenografici accumulati dalle ditte di trasporto e un paio di panchine che danno sul canale. Non c’è più nulla di glamour, ma rimane un luogo che conserva il fascino e l’identità del teatro. Le sale Apollinee, magnificamente restituite al pubblico dopo l’incendio, possono offrire l’eleganza e l’opulenza che contraddistingue il teatro La Fenice, ma l’odore e la polvere del retropalco hanno un fascino tutto particolare e quello di Venezia è il retropalco più bello del mondo, protetto da un cancello sull’acqua che chiude l’ingresso sul canale, con tanto di campanello per farsi annunciare da chi arriva in barca. Quel punto preciso simboleggia, a mio modo di vedere, il passato e il futuro di Venezia, il significato di un orientamento da dare a una città millenaria che oggi ha bisogno di gente disposta ad immaginarla come un luogo di vita, di famiglie che crescono, di scuole e case in cui poter vivere, di investimenti da fare per il lavoro.
Venezia città delle gondole o città del barchìn? Le gondole sono protagoniste della famosa Barcarola nell’ultimo atto de “I racconti di Hoffmann”, titolo che inaugura la stagione della Fenice a fine mese. Si canta mentre si voga, un canto liquido che scivola senza asperità , senza angoli. Fluido, morbido, come la tecnica di voga alla veneta, con un remo solo appoggiato alla forcola e un uomo in piedi a poppa, in un esercizio di stile elegante fatto da un doppio movimento, premi e staissi, lento, inesorabile. E poi c’è el barchìn, che recentemente il regista Yuri Ancarani ha reso protagonista del suo film “Atlantide”. Il barchìn è attrezzato di impianto stereo, sedile da formula uno, motore elaborato per potenziarne la prestazione; una dimensione di vita adolescenziale, senso di libertà e di fuga che ti porta a conoscere aspetti di una Venezia lagunare lontana dai riflettori turistici: le isole di San Francesco del Deserto, Sant’Erasmo, Mazzorbo.
Venezia in gondola, in vaporetto, col barchìn. Venezia dei mototopo che portano il mondo dentro e fuori il retropalco di un teatro attraverso canali dove fino agli anni 50 era normale fare il bagno e nuotare. Nuotare nei canali di Venezia?! E chi ci nuotava? I bambini, ovviamente. Non c’erano le piscine con l’odore di cloro ma i canali erano di certo più puliti di oggi. Basta guardare il bel cortometraggio del 1950 dal titolo dialettale “I nùa”, ovvero “Nuotano” di Enzo Luparelli, che fu premiato alla Mostra del cinema di Venezia, con la voce recitante del grande capocomico goldoniano Cesco Baseggio, nel quale un gruppo di ragazzini si diverte d’estate a tuffarsi ripetutamente nei canali veneziani: si tuffano dai ponti, dalle rive, si costruiscono salvagenti galleggianti, giocano. Quella che era una popolare abitudine, oggi non solo è scomparsa ma è proibita per legge, praticata saltuariamente solo da qualche esaltato che si fa riprendere col cellulare mentre si butta in acqua, salvo poi essere multato dai vigili.
Guardando quel cortometraggio (o altri come “Venezia minore” di Francesco Pasinetti del 1942), si vede una città che non ha nulla a che fare con la Venezia di oggi e ritrae un piccolo mondo antico prima del boom economico, dove i ragazzi si tuffano in costume, le barche sono tutte a remi e nelle calli non si accalcano comitive di turisti muniti di auricolare.
Opere recenti sono state costruite a Venezia, come il quarto ponte sul Canal Grande e il Mose. Opere realizzate sempre con enorme ritardo sui tempi previsti per la consegna, con extra budget richiesti e, nel caso del Mose, svelando un’ondata di corruzione che arrivò ad azzerare tutti i vertici dell’amministrazione politica regionale fino a incarcerare l’allora governatore del Veneto. Oggi il Mose, pur costosissimo nel suo mantenimento, ha dimostrato di servire allo scopo per cui fu pensato e nel 2021 il governo Draghi ha finalmente emanato un decreto legge che proibisce ai grandi transatlantici di entrare nel bacino di San Marco.
Si tratta quindi di avere coraggio per disegnare una mappa e darle un orientamento, senza rincorrere il passato, e felici di arrivare a Venezia da una periferia che può essere bellissima se solo abbiamo il coraggio di immaginarla con lo sguardo di un uccello in volo e la precisione chirurgica del bulino di Jacopo de’ Barbari quando incise, su delle assi fatte di legno di pero, i dettagli più minuziosi di questa magnifica città nel fermento del suo apogeo.