Il Foglio Weekend

Laura Carafoli, la signora del 9 da Novara alla Warner Bros

Michele Masneri

Come tenere insieme l’alto e il basso, Fabio Fazio e “La clinica del pus”; e poi le malattie strambe in tv e nella vita, il sogno proibito di Maria De Filippi e le proposte di sceneggiatura sulla famiglia Agnelli. 

Più che signora Laura Carafoli, responsabile dei contenuti del gruppo Warner Bros. Discovery per il Sud Europa, che vuol dire anche il canale 9 in Italia, è una ragazzina, fuori e dentro, e non dimostra affatto i cinquantaquattro anni dell’anagrafe, tra le sneaker ai piedi e lo sguardo mobile e curiosissimo e una tendenza a fare lei le domande invece che a rispondere. “Da che famiglia viene?”, fa. Ma siamo qui per parlare di lei. “Ho una sorella fichissima, mia madre mi ha sempre detto che lei era bella, io un tipo; dunque, ho dovuto sforzarmi di essere intelligente”.

 

La ragazza intelligente nasce a Novara, figlia di un pubblicitario (“non un creativo ma un account, quelli che tengono i rapporti con i clienti. Però mi portava sempre a Cannes, al festival della pubblicità, ricordo le tavolate con Armando Testa, un anno avevano lavorato alla campagna per l’acqua Sangemini, si ricorda? Salute Sangemini, col neonato che salta sullo sfondo cielo. E Ba-ba-ba, Barbara Ann dei Beach Boys?”). E la mamma? “Insegnante, si erano conosciuti alla Bocconi. E la sua famiglia? E’ benestante?”, torna all’attacco lei. E io ci casco e mi metto a raccontare. Ma basta. Dunque, parliamo della sua, di famiglia “Mad Men”, “papà viveva a Milano durante la settimana e tornava a casa nel weekend”. E lei che faceva? “Studiavo al liceo”. Classico? “No, scientifico, con drammatiche difficoltà in matematica e fisica”. Altre difficoltà? “Avevo un problema di ipocondria gravissima, proprio invalidante”.

 

Cioè? “Passavo pomeriggi davanti al pronto soccorso quando prendevo un farmaco nuovo per il terrore che mi venisse uno choc anafilattico. O passavo nottate a leggere il Roversi, l’enciclopedia medica di mio nonno che era dottore. Avrei sognato una carriera da internista ma tutta la famiglia si è opposta. Una volta ho rubato i soldi a mia madre per andare a fare una visita da un famoso pneumologo perché non riuscivo a respirare  - ansia - e credevo di morire. Insomma una tarda adolescenza un po’ così”. A parte questo, com’era la vita di una tardoadolescente a Novara? “Guardavo molto la tv. Soprattutto la notte: televendite, tv locali, e il Maurizio Costanzo Show, e la mattina del sabato Vieri Razzini su Rai 3”.

 

Troppo facile inchiodarla al cliché: amore precoce per l’alto e  il basso insieme, perché Carafoli oggi tiene insieme il Nove, che con Crozza e Fazio è la nuova Rai 3, e Real Time, la tv trashissima che fa programmi come Il Boss delle cerimonie e La clinica del pus. “Ah, no, per favore, non parliamo di trash”, fa lei. “Io preferisco parlare di osservazione della realtà. Anche col Boss delle cerimonie, poi trasformato nel Castello delle cerimonie, noi ci siamo limitati a piazzare le telecamere. C’era già tutto”. Tra l’altro adesso il Castello delle cerimonie, quella specie di City Life non minimalista in provincia di Napoli dove si tengono i famosi matrimoni, è sotto sequestro. “Sì, noi per ora siamo tranquilli perché stanno andando in onda le puntate già girate, ma siamo comunque fiduciosi. Anche perché comunque hanno creato un indotto, ci lavorano trecento persone”. Ma come è nata la saga del castello e del suo boss, don Antonio Tobia Polese coi suoi troni dorati? “Antonio era un gran personaggio, un talento naturale, con le sue camicie Versace. Era l’epoca in cui andavano di moda in Inghilterra i matrimoni, c’era Il mio grosso grasso matrimonio  gipsy, e io dico, possibile che in Italia non troviamo niente di simile? Quindi arriva un produttore di Napoli che aveva fatto un documentario in India sulle extension”. Ma come le extension… “Sì, la storia dei capelli che si usano per le extension. Molto interessante. E ci porta un dépliant della Sonrisa, il castello, abbiamo fatto un casting e siamo partiti”.

 

Don Antonio, che è mancato nel 2016, è diventato un personaggio di culto, è immortalato anche in una statuetta del presepe napoletano. “E’ il programma che ha girato di più nei canali femminili del mondo. Ma ci hanno fatto interrogazioni parlamentari e tutto: perché raccontate quella Napoli, ci chiedevano, ma noi semplicemente abbiamo mostrato la realtà. La serenata, il menu, la carrozza, i fuochi d’artificio, c’era già tutto. Anche il pony pomellato”. Ma che è il pony pomellato? “Il cavallino maculato  che tutti vogliono per la cerimonia”. Sembra di essere in Povere creature, tra mostri deliziosi e  bestie tenere e  inquietanti. La saga del Boss parte nel 2012, avete anticipato la mania di Napoli. Oggi dovreste subito assoldare Geolier. “Ma fa già un programma suo, su Netflix”. Insomma, nulla sfugge a questo naturalismo televisivo che rovista tra i nuovi italiani peculiari o bizzarri che rappresentano idealtipi e tendenze o forse nulla. “Napoli ormai è abusata. Stiamo cercando di fare una cosa sui cinesi di seconda generazione, gli abitanti di Paolo Sarpi, la Chinatown milanese. Siamo riusciti a fare un programma che si chiamava Italiani Made in China, li abbiamo portati a Shanghai e loro erano sconvolti”. Perché c’è meno inquinamento, ormai rispetto a a Milano. Aria migliore. “No, li abbiamo portati lì e loro erano tutti uè, taac, siam mica a Milano, non erano mai stati in Cina in vita loro. C’era anche Toto Cutugno che cantava Sono un italiano in Paolo Sarpi”. Prima di Ghali. E il pus? “Vabbè, il pus è uno dei medical factual, l’abbiamo preso da Channel 4”. Ma qualcuno lo guarda? “Ma scherza? Va fortissimo”.

 

Il lavoro antropologico di Carafoli consiste anche in un’opera di mediazione culturale, e traduzione di usi e costumi, oltre che di titoli; quello che può piacere qua e non là. “In italia i programmi sulla salute esistevano già, pensiamo a Medicina 33, ma a noi piace raccontare cose un po’ estreme, finestre sul mondo e sui mondi.  Ma anche parlare di categorie di persone che prima erano completamente escluse; The undateables che avevamo preso sempre da Channel 4 parla di persone con disabilità fisiche e psichiche che però avevano una loro agenzia che li faceva sposare. C’era poi il programma sulla coppia affetta da nanismo (Il nostro piccolo grande amore)…”.   

 

E poi Piedi al limite. “Già, traduzione di Sneak Peek: My Feet Are Killing Me”. Ma chi traduce i titoli? “C’è un ufficio apposito”. Senta, piuttosto, Sanremo lo guarda?”. Sì, certo. Adoro in particolare la serata dei duetti”. Come fa a spiegare il fenomeno agli americani? “Non facile. Devi fargli capire che è un misto tra il Superbowl e la cerimonia degli Oscar, ma il tutto dura 5 ore per 5 giorni. Loro storcono il naso ma poi quando guardano le curve di ascolto, lo share del 70 per cento, i ricavi pubblicitari, impallidiscono. In generale la tv italiana per gli americani è sempre rimasta un grande mistero. Le ballerine  a qualsiasi ora, i programmi lunghissimi. Ora però sta cambiando molto”.  E’ mai stata tentata dal grande salto, trasferirsi e vivere magari a Los Angeles bordo piscina? “In passato sì, ma poi ho sempre preferito scegliere di stare vicino ai miei genitori. Poi come le ho detto avevo questa ipocondria molto seria che mi limitava”. 

 

Intanto, colpaccio, il ritorno in scena di Chiara Ferragni proprio a Che tempo che fa, sul Nove. “Non ne sapevo nulla, un gran colpo effettivamente”. Ma come risponde a Pier Silvio Berlusconi che ha pubblicamente annunciato di volere Fazio a Mediaset? “Ma Fazio ha risposto che per il momento sta benissimo da noi, poi ha un contratto lungo, prospettive, una grande squadra”. Lei è mai stata tentata di andare in video? “No, mai, l’unico momento è stato da ragazza quando conducevo la rassegna stampa all’alba su VideoNovara”. E poi? “Appena laureata in filosofia con una tesi su Baudrillard avevo un fidanzato molto radical e avevo cominciato a scrivere – male – su Dire Fare Baciare, il mensile di Smemoranda, e lì ci lavorava pure Carlo Freccero e  disse che voleva fare un programma sui giovani, così lo seguii a Rai 2. Gli altri che erano con me non erano felici di andare a lavorare in tv. Per me invece era un sogno assoluto. Assunta come programmista regista, che non si capiva bene cosa fosse, facciamo questo programma che si chiamava SuperGiovani che andava il pomeriggio contro Amici di Maria De Filippi, oggi sarebbe impensabile. Giravamo l’Italia per cercare storie e sottoculture giovanili. Questo alla Rai di Milano. Poi siccome alla Rai funziona che finisci nel famoso bacino, dove pescano a lavorare chi ci ha già lavorato, ci chiamano a Roma a Rai Sat. Sette anni con un grande maestro,  Paolo Giaccio. Eravamo isolati da viale Mazzini, Rai Sat stava a Borgo Sant’Angelo, fu una bellissima esperienza”. Secondo lei la destra oggi sta occupando più posizioni della sinistra in Rai? “Secondo lei?”. Basta, sono io che faccio le domande. Comunque direi di no, però forse hanno persone un po’ meno preparate. “Ecco, vede, siamo d’accordo”.  

 

Roma l’ha amata o odiata? “Odiata. Mi trattavano tutti da provinciale, a Roma se non sei romano ti considerano provinciale a prescindere. Io invece sono fiera delle mie origini provinciali. Oggi però tanti improvvisamente si ricordano di me, con grandi salamelecchi”. In Rai tornerebbe? “No. Non vedo un orizzonte di creatività di lungo periodo, io ho bisogno di una struttura, di prospettive. Lì ti rinnovano i contratti, fai sempre la stessa cosa, e poi a un certo punto scompari nel nulla, capita anche a gente bravissima, e ce n’è tanta. Io non riesco a lavorare così, sono troppo insicura e ansiosa. Roma comunque l’ho sofferta molto di più quando sono andata a lavorare a Fox che era sulla Salaria, ho dovuto comprare una macchina e guidare, però ho imparato un mestiere nuovo”. Cioè guidare nel traffico romano. “No, lì ci fu l’assunzione, c’erano le prospettive: responsabile Fox Life.  Mi piaceva molto, la rete era all’apice, così sono rimasta a Roma altri quattro anni, ma poi mio marito era restato a Milano e ho voluto raggiungerlo”; parentesi, il marito Paolo è ganzissimo, architetto e campione di nuoto master italiano. Poi c’era anche un gatto, un adorato siberian cat di nome Gigiotto che non c’è più. Approfitta di una chiamata  di Discovery “che invece era minuscola, così lascio Roma. A Milano ho trovato Marinella Soldi che era amministratrice delegata e mi ha insegnato molto”.  Un’altra donna in un settore un tempo dominato dagli uomini. “Sì, oggi c’è anche Tinny Andreatta a Netflix”. C’è qualche altra donna che l’ha ispirata? “Fatma Ruffini, leggendaria capa dei programmi Mediaset. Una curiosità mostruosa, parlare con lei è come saltare le parti noiose della vita. Noi siamo tra i pochi a lavorarci. Ha prodotto per noi  The Real Housewives di Napoli. Ruffini è riuscita a fare una rivoluzione in un mondo dominato dai maschi. Non dev’essere stato facile”. A proposito, lei ha mai subito molestie? “A me non è successo ma è pieno di storie di molestie, ne ho viste tantissime nel nostro settore”. 

 

Fatma Ruffini era andata in America a studiare Oprah Winfrey. Chi è la Oprah italiana? “Maria De Filippi, è da sempre la mia ‘ossessione’, ho ancora un powerpoint con cui ho spiegato ai miei capi americani perché dovevamo prenderla. Nel documento ci sono Maria e Oprah a confronto. Somiglianze: la capacità di entrare nelle storie, di commuoversi ma fino a un certo punto, contenere le emozioni, crederci, ma senza mai sbracare. Oprah poi ha tutto un suo lato anche politico, su temi come i diritti. Entrambe poi hanno creato vere e proprie factory, Maria con Amici e la musica e Oprah col suo brand, che produce film e tutto quanto”. A un certo punto stava per venire da voi. “Ci siamo parlate, è storia risaputa,  poi non se l’è sentita ma avrà avuto le sue ragioni, la capisco benissimo”.  Adesso da voi si parla di Barbara D’Urso. “No, per il momento no. Per ora dobbiamo consolidare quello che siamo, grazie al mio fantastico team e alla guida dell’ad Alessandro Araimo. Come programmi vogliamo investire su quelli esistenti, e poi ci interessano le case. Ma non si possono solo farle vedere,  per quello ormai ci sono i social. Ci devi inserire un elemento di intrattenimento, di storia, come in Casa a prima vista”. Col leggendario Gianluca Torre. “Ed è un format francese: in Francia c’è la mania dei programmi sulla casa, da noi ancora pochi, nonostante sia l’ossessione nazionale”. 

 

E le famigerate serie? “Nell’arco di pochissimi anni lanceremo la piattaforma Max, e dunque faremo anche quelle”. Ma è vero che l’epoca d’oro del settore è finita? “E’ finita l’epoca dei vanity project, del regista di grido che veniva e ti raccontava la sua idea un po’ così e un po’ cosà, con budget illimitato, quello sì.  Sono stati fatti un sacco di errori. La verità è che ci sono serie come Succession e The White Lotus che diventano veri cult e altre come The Last of Us, che sono un vero successo planetario”. Insomma The White Lotus piace solo nelle Ztl, mi sta dicendo.  “Noi puntiamo a produrre ex novo serie larghe e generi chiari. E prodotti locali, che poi magari hanno un grande successo mondiale. Pensiamo a Mare Fuori, o a Un Professore o in Spagna Elite e La casa di carta, che si sono imposti internazionalmente”. Insomma farete Rai 1. Il cerchio si chiude.

 

“Be’ non proprio.  Avremo comunque anche quelle serie che sanno distinguersi. Hbo, che è parte del gruppo, è una garanzia”. Le Ztl tirano un sospiro di sollievo. Senta, vi perseguiteranno di sceneggiature. “Non proprio, però ne arrivano”. Temi? “Agnelli. Centinaia di proposte sulla saga Agnelli. Tutti hanno portato Agnelli”. Arrivano anche da parte di familiari Agnelli? “No, sono gli unici che non ce l’hanno portata. E poi femminicidi, tantissimi femminicidi. E robe in costume, saghe, un sacco di simil-Leoni di Sicilia”. 


Lei che serie guarda? “Ho adorato Slow Horses e Homeland. Ma a proposito di Rai 1 ho visto ora Gloria, quello con Sabrina Ferilli che fa la star in disarmo, diretto da Fausto Brizzi. Un ottimo prodotto”.  Le piattaforme per molti ormai sono il male. A Roma trovi sempre l’auteur stropicciato che si lamenta della dittatura dell’algoritmo. Altri sostengono invece che hanno finalmente mandato in soffitta il classico film italiano con la coppia in crisi in due camere e cucina, in cui nei primi 65 minuti non succede niente. “Ah è andato in soffitta?  Non me n’ero accorta”. Chiudiamo col trash, pardon con l’osservazione della realtà: c’è un limite che non avete superato? Qualcosa che non ve la siete sentiti di mandare in onda? “Un programma che si chiama Embarrassing Teenage Bodies, spinoff di Embarassing illness cioè Malattie imbarazzanti”. Ommadonna. “In una scuola maschile il dermatologo va a visitare gli allievi adolescenti in cerca di malattie veneree, e si vede tutto. Pensi che in Inghilterra va in prima serata. Ma lì se c’è un minimo accenno di violenza i programmi sono confinati dopo le 23, invece la nudità va benissimo. Il contrario che da noi”. Però un altro medical, lei è fissata.  “Forse è sempre colpa dell’ipocondria. Forse la tv è stata la mia cura”. 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).