Il Foglio Weekend

Un tempo erano Alberto Sordi e Giorgio Bassani, oggi si aspetta George Soros

Michele Masneri

Racchette d'Italia. viaggio nei circoli del tennis della penisola. 1) Al Parioli di Roma 

La parola “circolo” a Roma si sa che apre un mondo sconfinato. In una città disallineata e scontornata, i circoli sportivi più che per lo sport fungono da centri di interesse, di aggregazione, dove si fanno chiacchiere e affari, si passa la giornata, non certo sudando. Il circolo, in una società tribale come questa, è anche uno dei pochi punti di riferimento, che denota appartenenza e identità. Dopo il liceo (il Tasso, il Virgilio, ecc.) che per sempre denoterà chi sei e come sei nato, il circolo segnerà la tua appartenenza adulta, quella che ti sei scelto. I circoli sorgono in mezzo al verde, spesso sul fiume, tutti a Roma Nord, in quei grandi spazi che sembrano California o Texas, e anche i loro soci dopo un po’ assumono l’aspetto di capi navajos con la pelle consunta e i capelli lunghi argentati dal sole.

 

Il più celebre è il Canottieri Aniene, compound di Giovanni Malagò, il grande Gatsby romano, ma c’è anche il Canottieri  Lazio, generalmente considerato di destra, famoso anche per alcune trasposizioni cinematografiche, una in “Simpatici e antipatici” (1998) diretto da Christian De Sica  in cui Gianfranco Funari fa una specie di Cesare Previti gran “circolaro”. I “circolari” sono quei personaggi, speciale categoria dello spirito romana, generalmente maschi di mezza età, che si piazzano tutto il giorno negli spogliatoi con l’asciugamano al collo, a raccontare aneddoti e freddure ad altri circolari. E Previti, del resto, era presidente del Canottieri Lazio, con tutta la prosopopea del caso, dove si giocava piuttosto a calcio a cinque, e, raccontano, c’era un certo vicedirettore generale Rai, Gianfranco Comanducci detto “daje Cesare”, perché passava la palla solo all’allora ministro della Difesa. Ci sono poi i circoli della Polizia, dei ministeri, dei giornalisti, dei diplomatici, dei deputati. C’è quello del Polo e quello del Tiro a Volo, i più chic, e ognuno ha la sua caratteristica. Al Polo, dove c’è anche un delizioso ristorantino all’aperto, ultimamente i soci sono un po’ turbati perché Matteo Costacurta detto er principe, killer della nuova criminalità romana, con quarti nobiliari e voglia di sangue, era campione e circolaro.

 

Ma così va il mondo, o così va Roma, e ai Parioli non può esserci che un club elegante, anzi il più antico circolo del tennis di Roma, fondato nel 1906. Parioli vuol dire eleganza, riccanza moderata, borghesia, anche ultimo baluardo della sinistra nei computi elettorali (ben più che le ztl). E sarà un caso se proprio qui già ci fu un’epoca in cui si parlava di  “sinistra tennistica”. La sinistra tennistica giocava al circolo delle Muse e a quello di Saxa Rubra, entrambi appunto dalle parti dei Parioli.  Era un soprannome che precedeva i vari “radical chic” e pare che venne coniato da Giorgio Amendola per connotare gli ingraiani, i seguaci di Pietro Ingrao, dice al Foglio Maria Corbi, firma della Stampa. Pare che a Ingrao piacesse molto il tennis e avesse avuto come maestro Alberto Palmieri, scomparso nel 2006,  che fu l’allenatore di Adriano Panatta, ma anche di Ornella Muti, Corinne Clery, Giorgio Bassani, Gillo Pontecorvo, Paolo Villaggio, Giuliano Gemma.  Un rivale tennistico di Ingrao era Aldo Natoli, tra i fondatori del Manifesto. “Con dei calzettoni lunghissimi che gli arrivavano al ginocchio”, ricorda oggi lo scrittore Giorgio Montefoschi. “Forse per nascondere vene varicose”. Un altro della sinistra tennistica era il livornese Renzo Trivelli, dal 1956 al 1960 segretario dei giovani comunisti, poi a lungo responsabile scuola del Pci, le mitiche Frattocchie. “Bravissimo”, confermava Celeste Ingrao al sito Ytali.com. Lucio Magri pare che fosse invece elegantissimo, e più interessato al lato estetico che  a quello sportivo del tennis. 

 

“I circoli Muse e Saxa erano molto interclassisti: il direttore generale della Banca d’Italia Mario Ercolani, se gli mancava uno per il doppio, chiamava il figlio del maestro, e quello  senza tanti riguardi  lo apostrofava: ‘a Mario, svejete!’. Gianni Corbi, direttore dell’Espresso, invece era famoso per il rovescio micidiale”, dice ancora Montefoschi. “Mio padre giocava ogni giorno”, conferma la figlia, “dopo la mattinata passata al giornale, e noi figli lo sfottevamo appunto sulla questione della sinistra tennistica. Ma sul campo da tennis ebbe un infarto, e venne salvato dal cardiochirurgo contro cui stava giocando”.  “Ci fu poi lo scuotimento delle coscienze sul partecipare o no alla Coppa Davis nel Cile del golpe Pinochet, nel 1976, io ero piccolissima ma mi ricordo infiniti dibattiti, in cui le istanze tennistiche si fondevano con quelle politiche”, ricorda ancora la giornalista. “Ci fu anche un dibattito televisivo dedicato a quel tema spinoso”. Sollevava meno divisioni e “più accettato era il ping pong, di cui noi ragazzi infatti siamo tutti esperti,  e di cui Magri era campione”. 

 

Oggi la sinistra, anche quella tennistica, è finita (da mo). Del resto, Matteo Renzi venne criticato pure per la sua performance su terra rossa. Il suo maestro, Stefano Cobolli, disse a “Un Giorno da Pecora” su Radio 1 che era “un tennista che ha poca pazienza e che tende a colpire più forte di quanto sia in grado. Sui fondamentali c’è tanto da lavorare, diciamo… Il suo punto debole è la mancanza di pazienza in campo, tende a sparacchiare parecchio, vuole sempre fare il punto, per così dire…”.  Ma già prima di Renzi, sinistra o centrosinistra tennistica  persero rovinosamente un bel giorno del 2001 quando un sindaco della capitale da tutti rimpianto, Francesco Rutelli, sfidò non a tennis ma nell’urna  Silvio Berlusconi. E lì il tennis fu più che altro un presagio. “Io giocavo in un quartetto fisso”, racconta al Foglio Chicco Testa. “Io, Rutelli, Ermete Realacci e Paolo Gentiloni, e giocavamo sempre la domenica prima delle elezioni comunali, in cui Rutelli vinse i primi due mandati da sindaco. La domenica elettorale del 2001 invece la partita fu  sospesa perché mi presi uno strappo. E Rutelli perse le elezioni”. Dove avveniva il fatale match? “Al circolo della Camera dei Deputati”. Altro circolo, altro avamposto. Gli equilibri tra i circoli romani sono variabili, fluidi, adesso sicuramente trionfa l’Aniene, che Malagò ha trasformato in un colosso glamour sul Tevere, con la succursale dell’Aquaniene. Tanti giornalisti però vanno a giocare al Foro Italico. Ma il Parioli per quanto riguarda il tennis rimane il più blasonato. 

 

“Qui poca politica e poche chiacchiere, si gioca soprattutto”, dice al Foglio Claudio Panatta, alias Panattino, fratello minore di Adriano, direttore proprio del Parioli. Discende da una stirpe tennistica. Il padre, il leggendario Ascenzio, era stato il custode,  sempre al circolo Parioli, e il padre del padre invece era custode dello stadio della Rondinella, di calcio. Ma oggi che il tennis è il nuovo calcio, che ognuno ha il suo eroe – non più Agassi e McEnroe bensì Sinner, Berrettini o Jasmine Paolini – tutto torna. Panattino era “il più bel giocatore d’Europa”, narra la leggenda, e conferma un socio che si sta allenando nella palestra del Parioli, ma Panattino smentisce diplomaticamente, “ah, ad averlo saputo”, spostandosi il ciuffo argenteo com’è tradizione di famiglia. Non è mai stato invidioso del fratello celebre? “Ma per carità, sarebbe inelegante”, e si sposta un’altra volta il ciuffo. Anche lui è stato un campione, ha giocato appunto con Agassi e McEnroe, e la domanda banale è questa, ma che differenza c’è oggi con quei campioni lì e quei tempi lì? “Il gioco è molto più veloce, come nel calcio”. In questo circolo, che sorge in mezzo a Villa Ada, già dei Savoia poi della Repubblica, venti campi, più piscine, palestre, una club house, e i campi di padel e pickleball, nuova mania, il nuovo che avanza, anche se qui sembra che si cerchi di mantenere una certa tradizione. Ha visto “Challengers”, il film di Luca Guadagnino che ha dato un’ulteriore botta alla mania tennistica collettiva? “No, di cosa parla?”. 

 

Ma il nuovo alla fine entra sempre, e del resto i campi del Parioli ospitano le prime scene di  “Il Boom”, uno dei più tremendi affreschi della commedia all’italiana, dove un giovane professionista interpretato da Alberto Sordi che vive al di sopra delle sue possibilità è costretto a vendersi un occhio pur di mantenere il suo stile di vita affluente. Il film del 1963 è diretto da Vittorio De Sica che poi farà il “Challengers” dell’epoca, cioè il “Giardino dei Finzi Contini”. E Giorgio Bassani veniva a giocare qui, del resto, ed è stato pure per anni presidente onorario del Parioli, fino alla morte (altro presidente il giurista Giuseppe Codacci-Pisanelli, la cui villa di Tricase avrebbe ispirato proprio i Finzi-Contini). Un’altra storia è quella di Gianni Clerici, che tentando di accreditarsi come scrittore “serio” in un mondo che lo considera solo un giornalista sportivo, si fa invitare a Palermo al convegno del Gruppo ‘63. Ma poi scende dal treno a Roma e finisce a giocare  una partita con Bassani al Parioli. E qui lo rivedrà molti anni dopo per l’ultima volta, come raccontò su Repubblica. “Lo vidi, insieme a un badante, che osservava un doppio di vecchi consoci, ridendo ad ogni errore, disturbando il palleggio in corso, immaginando ad alta voce un punteggio che nulla aveva a che fare con quello reale. Ad un cambio di campo mi rivolsi interrogativo ad uno dei giocatori. ‘Lo so che non è facile’, mi anticipò, ‘ma gli siamo tutti debitori. Per quello che ha fatto, per quello che ha scritto’. Alla fine della partita, trovai il coraggio di rivolgermi a Giorgio. Mi guardò dolcemente e ‘Chi sei?’, mi domandò alla fine. Me lo chiedo spesso, in risposta a chi mi onorò di una grande amicizia”.


“Ma un altro che giocava qui, seppur non socio, era Pier Paolo Pasolini”, racconta Panatta. All’epoca del film con Sordi il circolo era appena nato, anzi trasferito: il Parioli infatti è stato fondato dal principe Filippo Doria, con il nome di Lawn Tennis Club Parioli, in Viale Tiziano dove sorge ora lo Stadio Flaminio e contava inizialmente quattro campi. Nel 1960 si trasferì nella nuova e attuale sede di Largo Uberto de Morpurgo, all’interno di Villa Ada. Tutto molto araldico (“ma accanto c’è un campo rom da cui ogni tanto qualche ragazzino sbuca e si infila negli spogliatoi”, racconta un socio). “Oggi i campi sono 20”, racconta orgoglioso Panattino. E c’è una transumanza da altri club magari più in voga ma dove non si riesce a giocare per l’enorme richiesta e i pochi campi. Qui invece sì. Come ci si iscrive? Vige anche qui il sistema della palla bianca o palla nera? “No, il socio deve essere proposto da altri due, per il periodo di prova di un mese, dopodiché se non sorgono problemi può iscriversi”. E quanto costa? “8 mila euro a fondo perduto più una quota annuale di 3.400 euro”. Di sicuro se li può permettere George Soros, il  finanziere ungherese che secondo i complottisti di destra sarebbe a capo di una lobby pluto-giudaico-qualunque cosa, ma che ogni anno scende a Roma per tre giorni e si piazza al Parioli, con le immaginabili misure di sicurezza. Oggi, data la temperatura, Soros non c’è, e i campi sono deserti, ma nelle grandi piscine sguazzano una serie di fortunati ragazzini. Del resto il Parioli ha una grande tradizione anche come scuola: “Campione da anni nella categoria under 12-14-16”. E’ richiesto l’obbligo del bianco? “E’ richiesto”. Tatuaggi? “Eh”, sospira Panattino, “quelli molti ormai”. Un altro socio rimarca come il Parioli sia rimasto molto classico, “vada a vedere al Due Ponti, lì sembrano tutti tronisti, fanno dei grandi aperitivi”, dice. Il Parioli, che un tempo era anche un approdo per la cena, ora è soprattutto un posto dove si gioca a tennis. O a bridge la sera. Ma non che l’atmosfera del circolo sia necessariamente stiff. “Pochi lo sanno ma anche il calcetto è nato qui, al Parioli”, racconta al Foglio Fabrizio Lucherini, socio ed ex consigliere del Parioli, nipote del leggendario ufficio stampa del cinema. “Quando Nicola Pietrangeli con le racchette e la rete costruì due porte. Di giorno si giocava a tennis e la sera a calcetto”.  Al Parioli poi “ognuno ha un soprannome, e se uno guarda in bacheca all’inizio non capisce”, continua Lucherini. “Belli Capelli (un socio pelato) e Pocaluce (uno con occhiali spessi) contro Porcino (perché dotato) e Negativo (nel senso di fotografico, un signore coi capelli molto bianchi)”. Poi ogni settimana “arriva ‘la lettera’ cioè i lamenti di soci, quello ha rubato un punto, la palla era dentro invece che fuori, del resto il tennis è da sempre soprannominato lo sport del diavolo”. Qualcuno perde la pazienza, a causa anche dei 40 gradi, e volano racchette, e del resto con spirito forse non da Wimbledon qualcuno romanamente sostiene: “Cazzo e tennis nun vonno pensieri”. (I- continua)


 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).