Georges-Antoine Rochegrosse, “Vitellio trascinato per le strade di Roma dal popolo”, 1883 (Wikipedia) 

Corsi e ricorsi

Il bersaglio mobile è il potere

Siegmund Ginzberg

Il gusto dell’antica Roma per gli attentati politici. Veleni e pugnalate. E lo spettro della guerra civile, come in America

Narra Svetonio che Augusto, per tutto il tempo che presiedette la riforma (la scrematura, sarebbe più esatto dire l’epurazione) del Senato, partecipava alle sedute armato di una corazza sotto la toga. Non un’armatura cerimoniale, pesantemente decorata, come quella in cui è rappresentato in molte statue, ma probabilmente una corazza di cuoio, una lorica anatomica, che mette in risalto, anzi inventa i muscoli, simile a quella in cui si è fatto ritrarre Elon Musk. Sempre Svetonio aggiunge la citazione di un’altra fonte per cui era costantemente circondato da una decina di robusti senatori suoi amici, e a nessun altro senatore era concesso avvicinarglisi se non era stato prima perquisito. Il suo vanto era l’aver messo fine alle guerre civili. Il suo timore che qualcuno lo facesse fuori. Politicamente, ovvio, prima ancora che fisicamente.

 

Augusto partecipava alle sedute in Senato con una corazza sotto la toga. Era costantemente circondato da una decina di robusti senatori suoi amici

  
Gli attentati politici valgono per il modo in cui vengono percepiti, più per che per quel che sono. Sentiamo ancora la testimonianza di Svetonio su alcuni attentati, veri o supposti, alla vita di Ottaviano: “Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette [per prendere appunti]; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre […] lo fece arrestare poco dopo da centurioni e soldati, trascinare via dal tribunale, e sottoporre a tortura come fosse uno schiavo; quello non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati”.


Fin troppo esagerato. Anche se si capisce bene, tra le righe, che la loro colpa, più che essere aspiranti assassini, era piuttosto essere sospetti oppositori. Altra congiura di cui si capisce poco è quella attribuita a Marco Emilio Lepido, detto “minore” per distinguerlo dal padre che era stato triumviro accanto ad Antonio e Ottaviano. Velleio Patercolo racconta che questo iuvenis “più bello d’aspetto che acuto di mente” (i cronisti non sono mai teneri, certo non c’era da aspettarsi altro da uno storico conservatore, e grande adulatore di Tiberio) voleva attentare alla vita di Ottaviano, quando ormai si era consumata la battaglia di Azio, quindi dei tre triumviri ne era rimasto uno solo. Altre fonti suggeriscono che il ragazzo volesse “restaurare la Repubblica”. Comunque non fu perdonato né graziato. 


L’elenco di attentati e congiure è lungo. Per il solo Augusto: “Dapprima vi fu la congiura del giovane Lepido; quindi quella di Varrone Murena e Fannio Cepione; poi quella di Marco Egnazio; in seguito quella di Plauzio Rufo e Lucio Paolo, marito di sua nipote. E, oltre a queste, anche quella di Lucio Audasio, accusato di falso e infermo di mente e a causa dell’età. E dovette anche guardarsi dalle macchinazioni di uomini di più bassa estrazione, come Asinio Epicado, mezzo parto e mezzo romano; e Telefo, schiavo nomenclatore di una matrona”  (Svetonio, De Vita duodecim Caesarum, Augusto, 19). 

 

Spesso il pericolo si annidava in casa, dove uno meno se lo aspetta. Il rebus della successione è il nemico che non perdona mai

  
Venire ammazzati è il timore di tutti i potenti o aspiranti potenti. Non sono molti gli imperatori dell’antica Cina, o dell’antica Roma, che riescono a morire nel loro letto. Spesso il pericolo si annidava in casa, dove uno meno se lo aspetta. Lo storico Cassio Dione riporta la voce per cui Augusto morì nella casa di campagna di Nola, dopo aver mangiato dei fichi avvelenati dalla moglie Livia. Insospettabili: erano stati appena colti dal suo fico preferito. Forse è solo una maldicenza. Ma il rebus della successione è il nemico che non perdona mai. Augusto di successori finiti male ne aveva collezionati più di Mao. Aveva scelto prima Marcello, poi il genero Agrippa e i figli di lui e di sua figlia Giulia, i nipotini Gaio e Lucio. Livia era infine riuscita a fargli succedere il proprio figlio di primo letto, Tiberio.

  

L’ossessione per la sicurezza e le guardie del corpo. Ma ci sono più imperatori uccisi dai pretoriani che gli si rivoltano contro, che dai nemici

   
Si capisce l’ossessione per la sicurezza, la securitas. La propria securitas innanzitutto, spesso spacciata per securitas dello stato, di tutti i cittadini. Anche se gli attentati in genere non si verificano per strada o ai comizi. Sono sempre colpi di palazzo. Ci sono più imperatori uccisi dalle proprie guardie, dai pretoriani che gli si rivoltano contro, che dai nemici. Da un certo punto in poi sono i pretoriani a decidere le successioni. Così come alla morte di Mao, nel 1976, fu l’unità speciale 8341 di guardia a Zhongnanhai, a decidere chi andava arrestato e chi doveva comandare. 


Il corpo di guardie scelte dedicate alla propria difesa personale non l’aveva inventato Ottaviano. Ma ne aveva aumentato il numero a 10.000 uomini (mentre Antonio ne aveva solo 6.000). Tutti centurioni, dice Appiano. O forse intende dire che erano pagati come fossero centurioni. La dice lunga che né Augusto, né Giulio Cesare, né i predecessori, né i successori si fidassero troppo dei connazionali. Tutti quanti preferivano come proprie guardie del corpo personali dei peregrini, dei forestieri estranei alle lotte politiche. Forse c’entrava anche il fatto che fossero più prestanti, incutessero più paura degli italici. Erodiano li chiama megistoi, i più grandi. La statura era un prerequisito, come per i corazzieri. Erano dotati di macchine da guerra pesanti, come i carabinieri. Augusto aveva reclutato una banda di germani corporis custodes, o batavi, dal nome di una delle tribù da cui provenivano. Altri preferivano gli spagnoli. Caracalla reclutava goti, che chiamava i suoi “leoni”. Non impedirono che venisse assassinato. Ma fu uno dei “leoni” a uccidere l’assassino. Non erano ben visti dalla gente. Rissosi, prepotenti, spietati, e per giunta forestieri. Tanto che Augusto aveva ben pensato di acquartierarli fuori città. Fu il predecessore di Claudio, Caligola, a portare il numero di coorti di pretoriani al record di dodici. Ma fu ucciso a pugnalate da due tribuni pretoriani, mentre assisteva a uno spettacolo pubblico. I due erano ispirati da “nobili ideali”, secondo alcune fonti. No, sgherri che facevano per lui il lavoro più sporco, secondo altre. Claudio, visto il precedente, aumentò le precauzioni: volle che “tutti quelli che gli si avvicinavano, uomini o donne, fossero perquisiti […] e ai banchetti voleva che fossero sempre presenti dei soldati”, scrive Cassio Dione, senatore e storico del III secolo, precisando che “quest’ultima pratica continua ai giorni nostri, mentre le perquisizioni indiscriminate sono cessate con Vespasiano”. Correva voce che Claudio fosse stato ucciso da funghi avvelenati servitigli dalla quarta moglie, Agrippina. A ogni fallimento di questi antichi secret services, scattavano inchieste per accertare dove avessero sbagliato.


Gli antichi romani erano grandi specialisti in teorie del complotto. Superavano di gran lunga gli americani in fantasia, immaginazione, sicurezza nel rovistare, arricchire di particolari le teorie più improbabili e inverosimili, prendere in considerazione, riferire e diffondere le voci più disparate su questo o quell’avvenimento o rivolgimento politico o fatto storico. Ne fa una formidabile antologia l’americana Victoria Emma Pagán nel suo Conspiracy Theory in Latin Literature (University of Texas Press 2012). Immancabilmente c’entrava la perfidia, l’ingerenza di una potenza straniera, o dello straniero che avevano accolto in casa. Se ne trovano esempi formidabili nella satira di Giovenale. La cui arguzia è a livelli incomparabilmente più elevati del becerume dei giorni nostri. Paradossale che la xenofobia e i vaffa populisti di Giovenale coincidano con uno dei periodi di massima apertura della società romana, agli stranieri, agli immigrati e alle culture più diverse dell’impero. O forse non è per niente paradossale.  


Ma torniamo alla vera grande svolta, a quella che Ronald Syme chiamò La Rivoluzione romana (il grande storico di Oxford scriveva negli anni 30, studiava Roma antica con in mente Mussolini e Hitler), ovvero il salvataggio del Princeps, del “soldato Ottaviano” (poi Augusto). La politica, negli ultimi anni della Repubblica a Roma, era molto violenta. Erano saltate tutte le regole del gioco, che vedevano i cittadini confrontarsi alle urne. 

  

Prima del principato, la Repubblica con le cariche elettive. I candidati lottavano con le unghie e con i denti, senza esclusione di colpi bassi

   
Non che le contese elettorali fossero rose e fiori. Si votava per i consoli a coppie, rinnovati ogni anno, a lungo con limitazione a un solo mandato (rinnovabile solo dopo un decennio di pausa), o per le cariche di tribuno della plebe, di questore, di edile, di pretore, di censore (incaricato di aggiornare le liste elettorali in base ai censimenti) e, last but not least, per i titolari di una carica religiosa (i sacerdotes, dotati di imperium, non solo di poteri spirituali). I candidati lottavano con le unghie e con i denti, senza esclusione di colpi bassi. Le factiones non erano tanto i rispettivi partiti di appartenenza, un’ideologia contro l’altra, quanto le eterogenee cricche personali di ciascuno. La girandola nelle magistrature minori era un passaggio obbligato al consolato. Solo il Senato non veniva eletto, ma siccome ne facevano parte coloro che avevano ricoperto le magistrature, era come se fosse indirettamente eletto. I colpi bassi, la compravendita di voti, il character assassination degli avversari, la diffusione di ogni voce maliziosa, la demonizzazione, il reciproco trascinamento in giudizio, l’intimidazione e il ricorso spudorato alla violenza verbale, e anche fisica, erano moneta corrente. I candidati si indebitavano a morte, in denaro, in elargizioni, e in promesse di benefici futuri. Nessuno poteva pensare di farcela senza aver accumulato un war chest, un fondo per la guerra elettorale. I manifesti e i graffiti elettorali sui muri di Pompei non hanno nulla da invidiare alla propaganda negativa dei giorni nostri. Qualcuno finiva ammazzato. Caio Memmio, tribuno della plebe, poi pretore e proconsole in Macedonia, fu ucciso il giorno stesso in cui veniva annunciata la sua vittoria nelle elezioni a console. Lui e i suoi rivali si erano scambiati accuse di corruzione. Memmio era stato assolto con formula piena. I suoi rivali se l’erano cavata perché un senatore loro amico aveva messo il veto a che venisse interrogato il principale testimone dell’accusa, che era nientemeno il re africano Giugurta. Chissà cosa darebbe Biden per poter chiamare a testimoniare Vladimir Putin.


Quella delle elezioni nell’antica Roma è una storia assolutamente avvincente. Nei suoi risvolti tecnici incomparabilmente più complicata e difficile da comprendere e spiegare del sistema americano per cui uno può diventare presidente anche se prende milioni di voti assoluti in meno del concorrente. Elections and Electioneering in Rome. Study in the Political System of the Late Republic, dell’antichista israeliano Alexander Yakobson (Franz Steiner, 1999) è una lettura da far girare la testa per ricchezza di informazioni. La sua conclusione è che dovremmo liberarci da tutti gli stereotipi acquisiti. Non si trattava solo di manipolazione della plebs sordida, del vulgus imperitum, dell’inops vulgus (della massa di sfaccendati) manipolata dai boni e ricchi a suon di circo, teatri e mance elettorali sonanti, né di semplice scontro tra destra e sinistra, tra “partiti” precostituiti, né di lotta di classe tra patrizi e plebei come sostengono Marx ed Engels nel Manifesto (anche se ovviamente c’era qualcosa di tutto questo). Si trattava di lotta politica, di lotta di potere tra individui, singole personalità. Che spesso facevano appello a un settore e all’altro, talvolta saltando da un campo all’altro, in elezioni, viziate quanto pare, ma vere.


Poi a un certo punto la lotta politica era sfociata in guerre civili. In cui gli aspiranti al potere non facevano più solo campagna elettorale, non poggiavano più solo su questa o quella fazione contro l’altra armata, non si limitavano a cavalcare le proteste e i moti di piazza, ma usavano i rispettivi eserciti per affermare la propria supremazia sui rivali. Era un salto di qualità. Dalla padella erano passati, in men che non si dica, non alla brace, ma direttamente all’inferno. Non più solo scaramucce, sommosse, assassinii di singoli, scontri tra tifoserie al circo, assalti al Campidoglio o al Foro, proteste per il grano o per le troppe tasse, manifestazioni violente per interessi di categoria tipo quelle dei gilets jaunes, serrate delle botteghe, e nemmeno quelle che oggi chiameremmo proteste di civiltà, come quando, nel 61 a. C., la città si era sollevata in nome di un principio di giustizia, contro la decisione del Senato di confermare la condanna a morte di tutti gli schiavi in casa di un funzionario ucciso da uno solo di loro. Subentrò un’èra di proscrizioni a tappeto degli avversari politici, di massacri generalizzati e indiscriminati. I cittadini rimpiansero amaramente il tempo in cui Roma le guerre le faceva solo contro i nemici esterni. 


Lo storico Appiano, originario di Alessandria d’Egitto, ma cittadino di un impero che non faceva distinzione tra immigrati dal Nord Africa e i nativi di “razza italiana”, introduce i suoi libri sulle Guerre civili con una notazione nostalgica. Rimpiange i bei tempi passati in cui c’era una dura lotta politica, ma non si veniva alle mani: “Il popolo e il Senato furono spesso ai ferri corti riguardo la legislazione, la cancellazione dei debiti, la distribuzione delle terre, e nelle elezioni alle magistrature [alle massime cariche dello stato]. Ma la discordia interna non li aveva portati a combattersi con le armi. I dissensi e le contese restavano nei limiti delle leggi. Le liti si componevano mediante concessioni reciproche. E senza che gli uni mancassero di rispetto agli altri” (Appiano, Libro I, introduzione).


Si capisce che tutta l’America (e il mondo intero) sia stata percorsa da una brivido quando una pallottola ha sfiorato la testa di Trump. Pronti a sopportare tutto, tranne una guerra civile. 

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