Il Foglio Weekend

Isabelle Colonna, l'ultima regina. 40 anni fa moriva la gran signora di Roma

Michele Masneri

Storia della principessa che regnò per quasi un secolo su Roma e sui suoi salotti. Viaggio a palazzo

In un torrido venerdì di fine luglio, turisti dell’overtourism sfrecciano in macchinine da golf per piazza Venezia a Roma dove le ciminiere della metro C insieme ai monopattini rendono tutto simile a un film di fantascienza, mentre eccitati visitatori si affacciano a palazzo Colonna, protetti da ombrellini. Ma chi potrebbe mai sapere o ricordare che quarant’anni fa, nel 1984, moriva qui la grande Isabelle Colonna, “l’arcipapessa”, la regina ufficiosa di Roma? Nel colossale agglomerato che nasce attorno all’anno Mille, diventa fortezza e poi una delle regge romane, sicuramente quella oggi tenuta meglio, chi saprebbe oggi dire che è tutto merito della “petite Sursock”, come chiamavano ai tempi questa straniera giunta a Roma senza neanche un blasone (ma con molti denari)?

 

Isabelle Colonna apparteneva infatti alla stirpe libanese dei banchieri-cotonieri Sursock, era nata a Beirut, pare, nel 1889 ed era arrivata a Roma insieme a tante altre straniere senza titolo ma liquidissime che funsero da superbonus e Pnrr per una nobiltà romana che come e più delle altre europee era stremata dai debiti. Si ridipinsero castelli, si rifecero uniformi dei domestici, in un superbonus specifico dell’aristocrazia – c’erano anche riviste specifiche, in quegli anni, che consigliavano soprattutto alle americane quale nobile europeo sposare, con pregi e difetti. I romani erano considerati molto mammoni, “insieme al marito vi troverete in casa una suocera”. Ci sono storie fantastiche: dalla nonna dell’Avvocato Agnelli, Jane Allen Campbell, col Senatore che commentava: un’americana povera è come una mucca senza latte, ma erano i tempi. Un’altra americana sposò un principe Brancaccio, ma giunta a Roma non trovò nessun palazzo né castello avito, e così in quattro e quattr’otto viene sfrattato un convento di suore a via Merulana e costruito l’attuale palazzo in finto stile fiorentino (ma di cemento armato e con le migliori tecnologie dell’epoca). E venne creato un castello Brancaccio, e inventati dei santi Brancaccio, e così via.

 

Invece i Colonna esistevano eccome, dalla “pax romana” insieme agli Orsini la famiglia più in vista della città. Si dice che la petite Sursock, andata in moglie a Marcantonio Colonna, omonimo del condottiero della battaglia di Lepanto (1571) che diede boostdefinitivo alla famiglia, fosse innamorata più che del marito del palazzo, che aveva visto ai primi del Novecento. E lo rivoltò come un calzino. Entrando, oggi, già l’enorme colonnone in giardino col motto della casa, “Semper immota”, è opera sua, e poi nell’appartamento che porta il suo nome a piano terra, già loggiato, tutto venne risistemato: riscaldamento, pavimenti di marmo colorati d’ocra e con la colonna ossessiva in ogni stanza, costosissimi, fatti fare alla ditta Medici, che sono abbastanza rari a Roma (perché generalmente nei palazzi si camminava sul cotto, lo sguardo ammirato doveva essere rivolto al cielo, non a terra). Aveva dato una mano e consigli Luigi Moretti, che aveva studio al terzo piano del palazzo, per i restauri. E poi Tomaso Buzzi archistar dell’epoca, e Federico Zeri per le arti. Altri inquilini erano Rudi e Consuelo Crespi, più ambasciatori, capitani d’industria, dame e gentiluomini come ci si immagina. Oggi fanno parte dello sterminato palazzo un museo delle cere, il Touring Club, infiniti locali per un palazzo che sembra più che altro una città attraversata da ponti e giardini. Lì Donna Isabelle regnò per quasi un secolo, fino alla morte, ricevendo la regina Elisabetta, vari presidenti americani, Jackie Kennedy che le scrive una lettera per cui “qui è più bello che a Windsor”. E te credo! E poi i Ford, i Carter, e Imelda Marcos. “E pensare che a Roma un po’ all’inizio a Roma la nobiltà l’aveva snobbata” mi racconta il principe don Prospero Colonna, il nipote, trentesima e più generazione, che veglia sul Palazzo trasformato in Fondazione, manutenuto alla perfezione e aperto al pubblico (e ora anche dopo gli influencer, subissato di richieste, la Ferragni c’è andata due volte. Chissà come l’avrebbe ricevuta donna Isabelle). “Dalla principessa si va vestiti come dal Papa”, si diceva all’epoca, dunque in nero, al massimo filo di perle, e inchino. 

 

Prima di arrivare all’augusta presenza bisognava percorrere tre enormi saloni, il primo col baldacchino, e con i cuscini da passeggio oggi appesi, ma che una principessa romana portava sempre con sé, avrebbe potuto averne bisogno in qualunque momento in caso incontrasse sua Santità e si dovesse prostrare; una incredibile sala vanvitelliana con decine di piccoli paesaggi che sembrano Canaletto ma sono del papà di Vanvitelli; un salone da ballo con fontana; infine lo studio dove lei riceveva, e che dà sul giardino, detta Sala del Tempesta, dal nome del pittore che fa anche un’immancabile colonna sul soffitto portata in trionfo da schiavi turchi in catene (oggi, scorrettissima). L’assenso di donna Isabelle valeva carriere politiche, ecclesiastiche, ovviamente sociali. Aveva vari passaporti, tra cui quello vaticano, rarissimo e all’epoca scritto interamente in latino, che destava curiosità e problemi alla frontiera per la villeggiatura svizzera a St. Moritz dove si spostava ad agosto (e i vari documenti riportavano varie date di nascita, tanto che una precisa non è mai stato possibile stabilirla, per la “tante”, come si faceva chiamare, sempre zia, mai nonna, anche a 90 anni passati).

 

Era arrivata appunto da Beirut, come un’altra Sursock sua sorella che aveva sposato un marchese Theodoli, mi raccontò una cugina, la simpatica Yvonne Sursock che andai a trovare a palazzo Sursock a via Sursock a Beirut prima dell’esplosione che distrusse lei e il palazzo. “Era così bruttina”, mi disse Yvonne della cugina Colonna. “Ma molto divertente. Dunque mio zio aveva questa figlia maggiore, Mathilde, alta, bruna, molto bella e molto noiosa; a un ricevimento conosce il marchese Theodoli, che era segretario d’ambasciata. Si sposano. Veniva spesso a trovarlo il principe Marcantonio Colonna, suo amico. Colonna rimane molto colpito dalla ragazza. Quella: ‘Non ti preoccupare, c’è mia sorella, identica a me’. La fanno chiamare subito, Isabelle arriva, e invece era ‘piccola, bionda, bruttissima. Ma così divertente!’”. Si sposano nel 1915. Tutti la descrivono infatti come non particolarmente attraente. Ma come spesso succede, “non la vedono arrivare”, e diventa centrale a Roma per 70 anni. Basta leggere “Kaputt” di Curzio Malaparte, il nostro “Preghiere esaudite”, quando racconta, nella parte ambientata al Golf club di Roma, gli intrighi continui di Isabelle, che prima prende a benvolere Italo Balbo, poi ancora di più Galeazzo Ciano. “Nessuno straniero di qualita, nessun galante ambizioso, nessun dandy di Palazzo Chigi che bramasse una nuova promozione a scelta o un posto di favore in qualche buona ambasciata, poteva sottrarsi all’obbligo, che ciascuno, del resto, sollecitava con ogni arte, di pagare a Isabelle e a Galeazzo il tributo di una conviviale corona di rose”, scrive Malaparte. “Isabelle regnava da regina, senza tuttavia rinunziare ad una antica, amabile, e maligna disposizione di animo alla tirannia: e Galeazzo vi figurava piu come uno strumento di quella tirannia, che tiranno egli stesso”. La cugina raccontava che il povero ambasciatore libanese a Roma non se lo filava mai nessuno, poi dopo un invito da Isabelle (uno solo, perché risultò noioso) ottenne formidabile successo mondano.

 

Il salotto di Isabelle Colonna durante il Fascismo è una specie di centrale informativa di trame, intrighi, spionaggi. A tavola Ciano chiamava apertamente “crucchi” i tedeschi e il Duce un rammollito, ricorda sempre Malaparte. Himmler chiama lei invece “La Quinta Colonna” perché tutti sospettano che trami qualcosa con gli Alleati e il Vaticano. Di sicuro i nazifascisti non la amano. Nell’estate del ‘44 i tedeschi irrompono a palazzo. Lei però ha già fatto murare nei sotterranei buona parte delle opere d’arte della grandiosa galleria barocca del primo piano, e dei vari Bronzino, Cosmè Tura, Tintoretto, Carracci.

 

Ma lei pure scappa, armata solo di borsetta, da una scaletta che ancor oggi si percorre per salire sui giardini che attraversano via della Pilotta, e si inerpicano verso il Quirinale. E qui, lei fugge attraverso l’uscita secondaria di XXIV Maggio, fino all’ambasciata spagnola presso la Santa Sede, di piazza Mignanelli. dove rimarrà rifugiata fino alla fine della guerra, tipo Assange. Poi, altro piccolo esilio: Marella Agnelli in “La Signora Gocà” (Adelphi) ricordò come, con Roma liberata dagli Alleati, il palazzo Colonna viene riaperto al nuovo corso del potere e degli eventi. “Il generale Clark sedeva alla destra della padronadi casa e il generale Montgomery alla sua sinistra”. Tutti intorno gentiluomini e gentildonne. Diademi, candele e tutto quanto. Ma il generale Clark il giorno dopo si vide recapitare una busta con un “plan de table” cioè lo schieramento dei posti a sedere di qualche settimana prima, dove con la stessa precisione erano accomodati i più alti gradi nazifascisti. Così venne decisa una punizione, per quanto simbolica: la principessa venne invitata caldamente a intraprendere un viaggio, il più lungo possibile, in Egitto.

 

E con casa Agnelli, anche, altre aderenze: oltre a un’altra principessa che ordiva trame, Virginia, i parchi confinano, con la casa Carandini di via XXIV maggio, e la sede dell’Inail si disse fortemente voluta da Mussolini per impallare la vista al palazzo di troppi inquilini antifascisti; in mezzo a tutti questi snodi sotto enormi magnolie giacciono enormi resti del colossale tempio di Serapide che nella notte dei tempi sorgeva al posto del palazzo. Nel dopoguerra, Isabelle aveva ripreso a regnare, regina vicaria, dopo la fine del regno e della vera regina Maria José, anche contro Ninni Pallavicini – acerrima rivale e principessa appollaiata nel palazzo di fronte al Quirinale. Una sempre in Dior – Colonna – e l’altra in Capucci – Pallavicini – quest’ultima a un certo punto prese a proteggere pure il vescovo scissionista Lefebvre ospitandolo nel suo palazzo (e tutto finisce anche nell’episodio dei “Nuovi mostri” con Alberto Sordi che fa “Giovan Maria Catalan Belmonte, devo andare a discutere dello scisma Lefebvre”, in Rolls). Don Aspreno Colonna, figlio di Isabelle, scrisse un pezzo sul “Tempo”, il quotidiano di Roma di proprietà di Renato Angiolillo, in cui a nome della nobiltà romana si dissociava dall’iniziativa e ribadiva la fedeltà a Paolo VI che pure aveva distrutto la corte pontificia abolendo i “principi assistenti al Soglio”, di cui uno era sempre stato un Colonna (ed è subito Marchese del Grillo).

 

Angiolillo era un grande amico, e la principessa del resto era andreottiana: e Gianni Letta qualche anno fa ha ricordato la prima volta che fu ammesso al tè (e poi a pranzo) da “donna Isabella”, che un bel giorno appunto gli chiese di pubblicare quel pezzo sul “patriziato romano” che si dissociava da “una certa principessa o sedicente principessa…”. Spionaggio, forse, a tutti i livelli. Con gli americani e i mal sopportati tedeschi (ma il cognato Ascanio era l’ambasciatore italiano in America che consegnerà la dichiarazione di guerra italiana dimettendosi). Tutte le mattine, però, donna Isabelle insieme al Tempo e al Messaggero si faceva portare immancabilmente una busta arancione dal portiere notturno del palazzo, che annotava tutti i movimenti degli inquilini… Una delle sue più note creazioni sociali fu proprio Maria Angiolillo, salonnière poi celebre tenutaria di un villino a piazza di Spagna. Nel gustoso libro scritto da Bruno Vespa e Candida Morvillo, “La signora dei segreti” (Rizzoli) si narra dell’educazione sentimentale angiolillesca; l’outfit, appunto, nero e perle; mai ricevere divorziate; mai dedicare troppe attenzioni a un o un’ospite, perché “il pranzo perfetto deve lasciare nell’invitato il dubbio se sarà ancora invitato o no”; per dessert, solo dolci al cucchiaio, al massimo piccola pasticceria. Menu sempre e solo in francese, compresa una micidiale zuppa di tartaruga, il consommé à la tortue, abolito solo con la dipartita della principessa. Per i pranzi, sedie con spalliera alta, la doppia sella di vitello su un vassoio quadrato che i camerieri uno ogni quattro commensali - debbono tenere con la sola mano destra, lasciando la sinistra appoggiata alla schiena.

 

Adesso i turisti continuano a scattarsi selfie, ignari di tutte queste storie, sotto il sole romano ma 40 anni fa al funerale a Santi Apostoli, il 6 novembre del 1984, in ultima fila troneggiava anche Ninni Pallavicini, a rendere omaggio alla nemica. L’ultima regina di Roma era deposta in una bara sotto l’affresco di Marcantonio Colonna, vincitore di Lepanto. Aveva… quanti anni? C’era chi diceva 96, 93 secondo alcuni amici, quasi un centinaio secondo altri parenti. Nessuno fu mai in grado di stabilirlo. Come usava un tempo, non ha lasciato nulla di scritto, né voluto che alcuno scrivesse di lei.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).