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Il doppio gioco di Oppenheimer

Paolo Valentino

Padre della bomba atomica, e anche militante comunista e spia. Sembrava una calunnia, ma quattro storici americani hanno riaperto il caso citando lettere e documenti che testimonierebbero la sua appartenenza a una cellula segreta. E il dibattito nella comunità scientifica si riaccende

Nel dicembre 2022, pochi mesi prima che uscisse il film di Christopher Nolan dedicato alla vita di Robert Oppenheimer, poi premiato con sette Oscar, il segretario Usa all’Energia, Jennifer M. Granholm rese nulla la decisione presa nel 1954 dal suo stesso Dipartimento, di revocare la “security clearance”, l’accesso a informazioni riservate, al padre del Progetto Manhattan, che nel 1945 aveva dato la bomba atomica agli Stati Uniti. 

Accusato di essere stato membro del Partito comunista americano e di aver fatto la spia per i sovietici, Oppenheimer era stato sottoposto a un interrogatorio segreto per 19 giorni, al termine dei quali la Commissione per l’energia atomica, antesignana del Dipartimento per l’Energia, lo aveva tagliato fuori da tutti i segreti nucleari degli Stati Uniti, mettendo di fatto fine alla sua carriera. Fino a quel momento eroe della scienza americana e universale, Oppenheimer non si sarebbe mai più ripreso da quell’umiliazione, sparì dalla scena pubblica e trascorse il resto della sua vita da reietto, stravolto dall’alcol: morì nel 1967 a soli 62 anni.

 

                                   


Quello intentato allora dalla Atomic Energy Commission fu il risultato di un “processo viziato e ingiusto”, dichiarò Granholm, aggiungendo che “nuove prove hanno confermato la lealtà e l’amore del dottor Oppenheimer verso il suo paese”. Era stata l’Amministrazione Obama, nel 2014, a desecretare parzialmente il dossier, rendendo finalmente pubbliche centinaia di pagine degli interrogatori. Se non fu una riabilitazione a pieno titolo, l’annuncio di due anni fa venne nondimeno salutato da un coro di approvazioni da parte di molti storici, che per anni avevano invocato il risarcimento morale dello scienziato. “La storia è importante e quello che gli venne fatto fu una parodia, una macchia nera sull’onore della nazione”, disse Kai Bird, autore insieme a Martin J. Sherwin di “American Prometeus”, la bellissima biografia di Oppenheimer uscita nel 2005, su cui è basata la sceneggiatura del film di Nolan.


Più di sessant’anni dopo la sua scomparsa, le contraddizioni che accompagnarono la sua vita e che egli coltivò come un’inconfondibile cifra personale, non smettono tuttavia di riservare continue sorprese. Appassionato della fisica dei quanti, basata sul cosiddetto principio di indeterminazione, Oppenheimer era timido e disinvolto, ingenuo e brillante, marito devoto e infedele, l’uomo di pace che costruì l’ordigno più mortale della storia umana, eroe americano intrigato dal comunismo. Di più, queste antinomie diventarono per lui una posizione filosofica, ispiratagli dal suo mentore, il fisico Niels Bohr, nel film di Nolan interpretato da Kenneth Branagh, che l’aveva definita “complementarità”.


Ma fu quella del comunismo soltanto un’attrazione intellettuale? A sei mesi dal trionfo cinematografico, che ha fissato nell’immaginario popolare una nuova percezione di Oppenheimer, restituendogli con l’onore l’empatia, quattro storici americani hanno riaperto il caso in una discussione a più voci pubblicata sul Journal of Cold War Studies, rivista trimestrale della Harvard University. Gregg Herken, John Earl Haynes, Harvey Klehr e Barton J. Bernstein sostengono che il fisico non fu soltanto un simpatizzante comunista, ma anche membro a pieno titolo di una cellula segreta della Berkeley University, dove insegnava, e che quindi mentì davanti al giurì federale che lo interrogò. A sostegno di questa gravissima accusa i quattro studiosi citano lettere, testimonianze, documenti dagli archivi dei servizi, alcuni dei quali successivi al periodo in cui Bird e Sherwin fecero le loro ricerche.


“Gli storici devono seguire le prove”, ha detto al New York Times Herken, professore emerito di Storia alla University of California. La prima di questa è una testimonianza inedita di Haakon Chevalier, il miglior amico di Oppenheimer nel campus californiano, in cui afferma che loro due erano entrati a far parte di una cellula segreta. L’altra è di Gordon Griffiths, un laureato di Berkeley, che poi diventò docente di Storia alla University of Washington: sarebbe stato lui il collegamento fra il Partito comunista americano e il gruppo di cui faceva parte Oppenheimer. Secondo Griffiths, Oppenheimer avrebbe anche finanziato il partito “utilizzando canali speciali”. Ma, aggiunge, “nessuno di coloro che frequentavano la cellula aveva la tessera; quindi, non posso affermare che fosse un membro”.


Quanto a Haynes e Klehr, specializzati nel comunismo in America e nello spionaggio sovietico, è da anni che si occupano del fisico. Già nel 2009 citarono alcuni rapporti dell’intelligence sovietica, usciti dagli archivi di Mosca, dove si affermava chiaramente che “Oppenheimer aveva mentito” sulla sua appartenenza al partito e più volte veniva fatto riferimento al suo status di “membro segreto” della “fellow countryman organization”, gergo per il Partito comunista americano. Avrebbe avuto perfino un nome in codice: Chester. Di nuovo nel 2012 i due storici, in un articolo dal titolo “Una spia? No. Ma un comunista? Sì”, citarono un altro documento, un rapporto indirizzato a Lavrenti Beria, capo dei servizi segreti di Stalin e direttore politico del programma dell’atomica sovietica, nel quale Oppenheimer veniva identificato come membro del partito.

 

                                         


Ce n’è abbastanza per aver fatto cambiare parere anche a Barton J. Bernstein, professore emerito di Storia alla Stanford University, che ha studiato per anni il caso Oppenheimer ed è passato dallo scetticismo iniziale sui suoi legami comunisti alla convinzione che “le nuove prove sono schiaccianti”. All’estremo opposto si schiera Kai Bird, l’autore di American Prometeus, che liquida il j’accuse dei quattro storici come un’operazione “meschina” e parla di “prove di gelatina”.

“L’unica ragione per cui escono fuori adesso – aggiunge – è il film di Nolan, che ha aperto una finestra per rilanciare la loro piccola crociata. La vera storia è che il carisma di Oppenheimer ispirò sentimenti di lealtà personale e perfino devozione, tutti volevano essergli amici, colleghi, compagni”. Questo valeva anche per i sovietici, che “adoravano ogni report nel quale si diceva che forse lo scienziato era dei loro, tutti volevano crederlo”. E’ vero, ammette tuttavia Bird, “che Oppenheimer non fece nulla per togliere ai suoi amici nel Partito comunista la convinzione che egli fosse più che un semplice simpatizzante”.


E’ un punto importantissimo. Oppenheimer veniva da una ricca famiglia di Manhattan, proprietaria di una collezione d’arte che comprendeva opere di Picasso, Van Gogh e Cézanne. Si era laureato in chimica ad Harvard in soli tre anni, aveva studiato fisica a Gottinga, in Germania, era diventato giovanissimo professore di fisica a Berkeley. Colto e carismatico, fu naturale per lui come per come molti intellettuali dell’upper class della sua generazione schierarsi a sinistra: “Era profondamente antifascista, convinto che quella minaccia andasse fermata”, spiega Fraser Ottanelli, docente di Storia americana alla University of South Florida e autore di un libro sulla storia del Partito comunista americano tra la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale. Quello guidato da Earl Browder, spiega Ottanelli che è nato a Firenze e vive negli Stati Uniti da quasi cinquant’anni, “era un partito ovviamente legato a doppio filo a Mosca ma che appoggiava il New Deal di Roosevelt di cui rappresentava l’ala sinistra”.


Gli anni Trenta segnarono infatti un relativo successo dell’organizzazione di Browder, che provò a far proseliti tra i professionisti e gli intellettuali: dottori e avvocati, docenti universitari e registi, scrittori e artisti. Alcuni aderivano, molti non volevano esporsi e per loro il partito trovò forme flessibili di adesione: non una tessera formale, ma gruppi clandestini dove poter discutere del marxismo e lavorare sotto copertura per aiutare la causa: “Era rischioso, eccitante, idealistico e romantico”, spiega Thomas L. Sakmyster, che ha studiato il mondo di quelle cellule segrete e nel 2011 ha pubblicato un libro sull’argomento. La ragione della flessibilità ammessa nei loro confronti era che si trattava di veri e propri fiori all’occhiello dell’apparato comunista, tradizionalmente rigido e burocratico quanto alle regole, anche per ragioni di sicurezza: “I dirigenti del partito – dice Priscilla McMillan, docente a Harvard e autrice di una biografia di Oppenheimer – volevano assolutamente stabilire un qualche legame con personalità così prominenti”. 


Oppenheimer dunque ne fece parte? Il contesto intorno a lui costituiva sicuramente una forte calamita. Era comunista sua moglie, Kitty Oppenheimer, che prima di conoscerlo nel 1939 in una festa a Berkeley era stata la compagna di una figura leggendaria, Joe Dallet, figlio di un uomo d’affari di Long Island, che aveva aderito al Partito comunista americano nel 1927, dopo l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, e nel 1936 era andato a combattere in Spagna nelle Brigate internazionali contro i franchisti, trovandovi la morte. Comunisti erano suo fratello Frank, anche lui fisico di vaglia che coinvolse nel Progetto Manhattan, e sua cognata, Jaquenette Quann, economista a Berkeley. Comunista era la sua ex fidanzata e poi amante, la psichiatra Jean Tatlock, che si sarebbe suicidata nel 1944. Comunisti erano infine alcuni tra i suoi migliori amici, a cominciare da Chevalier. Lo stesso scienziato amava definirsi “un compagno di viaggio”.


Secondo Sakmyster, si tratta della definizione più calzante. Ai membri dei gruppi clandestini, il partito comunista dava la possibilità di fare delle donazioni, preferibilmente in contanti, invece dei contributi regolari legati al possesso di una tessera. E questo, secondo lo studioso, pone il quesito se fossero veri comunisti. La sua conclusione è che molti di loro, compreso Oppenheimer, si vedevano “più rosa che rossi”


Fra i sostenitori della tesi mediana, c’è anche chi ridimensiona il ruolo delle cellule segrete, concepite fra l’altro in modo da poterne facilmente “smentire l’esistenza”. Secondo lo storico Alex Wellerstein, dello Stevens Institute of Technology di Hoboken, New Jersey, quella di Berkeley in particolare assomigliava “a un circolo intellettuale di professori che giocavano a fare i sovversivi in politica”.


Ma era veramente soltanto un gioco? Ottanelli racconta una storia diversa. Anche lui dubita che Oppenheimer avesse la tessera del partito e insiste che soprattutto dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale “egli non vedeva alcuna contraddizione tra la sua simpatia per il comunismo e gli interessi degli Stati Uniti, visto che i sovietici erano nostri alleati nella battaglia esistenziale per sconfiggere il fascismo”. Ma lo storico italo-americano aggiunge un dettaglio inquietante che va ben oltre la semplice diatriba sulla tessera: “Non c’è dubbio che nel suo entourage più stretto ci fossero colleghi di lavoro e amici che avevano rapporti stretti con i sovietici. Oppenheimer con loro discuteva apertamente di tutto, anche degli avanzamenti del progetto Manhattan. Ed è plausibile che uno di loro si incontrasse poi, diciamo in un parco di San Francisco, con un funzionario del consolato generale sovietico e riferisse le cose apprese. Molto probabilmente è successo. Non posso dire se egli ne fosse consapevole o meno, ma non penso fosse così ingenuo”. Ottanelli quindi non esclude che Oppenheimer abbia realmente passato segreti nucleari ai sovietici durante la guerra e il progetto Manhattan, ma mette ancora l’accento sulla convinzione sua e di molti altri “compagni di viaggio” che “in quei frangenti, aiutare l’Urss significasse anche aiutare noi stessi”. E aggiunge: “L’idea che, una volta costruita la bomba, fosse necessario condividere i segreti nucleari con Mosca aveva dei sostenitori non solo nella comunità scientifica, ma anche nella politica americana”: uno di questi fu addirittura Henry Wallace, vicepresidente di Roosevelt dal 1941 al 1945, quando venne sostituito da Harry Truman.


Ma in ogni caso, questo equivale a dire che nel 1954, la Commissione per l’energia atomica un argomento per togliere a Oppenheimer la “security clearance” lo avesse eccome. Certo, lo scenario nove anni dopo la fine della guerra era radicalmente cambiato, il maccartismo aveva terrorizzato il paese con la Red Scare, la paura rossa. L’Urss era diventato il nemico, la Cortina di ferro spaccava l’Europa. Herken dice che Oppenheimer voleva “nascondere disperatamente” il suo passato e per questo negò tutto. Bird invece sostiene che “non aveva nulla da nascondere”. La cosa più strana è che da quel momento, quando venne dichiarato un “rischio per la sicurezza nazionale”, non parlò mai più in pubblico per il resto della sua vita. Per Bird fu il complesso militar-industriale a zittirlo per sempre. Mentre secondo Herken fu la paura che tutto venisse fuori e finisse in carcere per aver mentito alla Commissione. Più verosimilmente, osserva Wallerstein, fu il crollo psicologico determinato dall’aver perso tutto in un solo colpo: la fama, il prestigio, l’accesso al potere.