l'intervista

Il successo dell'Inganno: colloquio con Pappi Corsicato, regista della serie Netflix

Questo fumettone di enorme successo è un po’ la risposta italiana a “White Lotus”: 25 milioni di visualizzazioni, per settimane la prima di lingua non inglese al mondo. E’ la storia del folle amore tra una signora agée e un bonazzo con trent’anni di meno

L’Italia si divide tra chi l’ha vista e chi mente. La serie “Inganno”, su Netflix, è però un successo mondiale, 25 milioni di visualizzazioni, per settimane la prima di lingua non inglese al mondo. E’ la storia, per i pochissimi che non lo sanno, del folle amore tra una signora agée, dotata di albergo in costiera amalfitana, e un po’ rassegnata all’avanzare dell’età, interpretata da Monica Guerritore, e un bonazzo con trent’anni di meno, l’italo canadese Giacomo Gianniotti, che probabilmente la sfrutta ma lei ci passa sopra. Lei se ne frega di tutto e se lo tiene. Drammone a tinte fosche, molto sesso, e tanto dibattito. Il regista è Pappi Corsicato, sofisticato già portabandiera del “nuovo cinema napoletano”, che negli anni Ottanta era considerato l’Almodóvar italiano, con titoli come “Libera” e “I buchi neri”, cinema underground colorato e scatenato quando Napoli non era ancora un brand gastronomico.

 

Questo fumettone di enorme successo è un po’ la risposta italiana a “White Lotus”. Maestro, se l’aspettava? “Così no”, dice Corsicato, occhi azzurri, felpa rossa e il cane Spotty bianco e nero al guinzaglio, sembra un ragazzino con l’occhio vispo dei napoletani che hanno viaggiato. “Mi arrivano dei messaggi dall’Europa, dalle Americhe, dai paesi dell’Est”. Chissà che invidie. “Ma no, ma me ne frego”. Niente niente? “Qualcuno si è premurato di dirmi che come lo faccio io, il camp, nessuno. Ma il camp e il kitsch li rivendico con orgoglio, stanno in tutti i miei film. Da ‘Libera’, il primo, in cui misi in scena i primi neomelodici e Scampia, vent’anni prima di Gomorra”.

Però i suoi raffinati documentari d’arte, su Jeff Koons, su… “Ma mi vuol dire che Koons non è kitsch?”. In effetti. Ha pure sposato Cicciolina. “Ecco”. A proposito, ma c’era sul suo set un intimacy coordinator, quelle figure che stanno lì a vedere che non scappi la mano agli attori nelle scene di sesso? “Certo”. Era un intimacy coordinator americano o napoletano? “Era una romana. Poi io ci ho messo del mio, in una scena in piscina, i protagonisti dovevano darsi solo dei bacetti ma io ci ho messo un bel cunnilingus”. Ah, e la coordinator non ha detto niente? “E che doveva dire. La coordinator serve più per capire se entrambi sono d’accordo sul girare determinate scene in un certo modo, se sono in sintonia con quello che è loro richiesto, eccetera”. Certo avrà avuto il suo bel daffare, il suo protagonista sta nudo per circa il 90 per cento del tempo. Avrete risparmiato sui costumi. “Ma infatti alla quarta volta che lui si spoglia glielo dice pure la protagonista Gabriella: ma è una fissazione! Ma l’erotismo nasceva proprio centrale in questa storia”.

 

C’era tutto questo erotismo anche nell’originale “Gold digger”, cioè i cacciatori di dote, serie Bbc di qualche anno fa? “Non so, non l’ho visto, per non farmi influenzare”. Ce ne sono molti di gold digger in giro nella realtà? “Ma siamo tutti gold digger, c’è sempre un gioco di potere in una coppia, tutti approfittiamo del potere che abbiamo. Anche Gabriella, la protagonista, approfitta del suo potere, che sono i soldi. Ognuno manipola l’altro, da sempre. Tutti ce l’hanno avuto il cacciatore dote ma anche il cacciatore di testa, l’amore è manipolatorio di suo”.

  
Certo sembra che le uniche storie d’amore solide nel film siano quelle gay. Il figlio piccolo è innamorato pure lui del belloccione protagonista, il belloccione certo non si tira indietro. Il figlio maggiore ha un moroso ma rinuncia per la famigliola (è interpretato da Emanuel Caserio, aria e completi da agente Tecnocasa sexy, già nel “Paradiso delle signore”). “Quel personaggio rappresenta un irrisolto, come ce ne sono molti, e fanno molti danni a sé stessi e agli altri, al di là che siano gay o no”. Il senso del film? “Ah, che noia con questo senso. Il senso è che i vecchi stanno meglio dei giovani, sono più risolti. E poi che ognuno ha diritto a farsi gli affari suoi. Vivi e lascia vivere”. Come si intitolava la sua serie precedente, per la Rai, uscita in pieno Covid, un altro successone inaspettato, storia di un gruppo di mogli napoletane che stufe dei loro mariti mettono su una, direbbero a Milano, una startup di sartù. “Sì, a metà serie però finì il lockdown e temevamo che la gente libera di uscire non l’avrebbe più visto, invece rimasero incollati”. Ma che differenza c’è tra questi successi commerciali e il cinema sperimentale degli esordi? “Ancora con questa storia dell’alto e il basso?  Io non ho mai pensato di fare film né d’autore né da intellettuale. Ho sempre e solo fatto film che mi divertivo a fare e a guardare. Film un po’ diversi dallo stile generico italiano che andava a quei tempi e questo forse li rendeva automaticamente film d’autore”. Come diceva Dino Risi, metti un po’ fuori fuoco che il film lo portiamo a Cannes. “No, è diverso, io non ho mai voluto farlo fuori fuoco. E infatti ‘Libera’ non fu preso al festival del cinema di Torino. Non era abbastanza d’autore. Poi però andammo a Berlino e fu un enorme successo, applausi a scena aperta”. “Il giorno dopo la proiezione fummo sommersi dai fax dei distributori che volevano prenderlo, eravamo sconvolti”, racconta al Foglio Iaia Forte, attrice-feticcio di Corsicato a partire proprio da “Libera”. “Il film non è che fosse indipendente, era oltre. Per la produzione avevamo preso due ragazzi delle campagne, dei pastori, che infatti tenevano lontano il pubblico dalla strada dove dovevamo girare al grido di ‘sciò, sciò’, come fossero galline. Nel film successivo, ‘I buchi neri’, facevo la prostituta, e a un certo punto mi esce il fumo dalle gambe. Il giorno dopo l’uscita al cinema del film, al bar dove facevo colazione di solito, il barista mi disse: uè, vaporella!”. 


Per dire l’atmosfera del tempo. Napoli come Madrid. L’Almodóvar napoletano e quello originale. “Vidi uno dei   primi film di Pedro, ‘La legge del desiderio’, a New York, e fu una folgorazione. Era il cinema che volevo fare io, ironico, nuovo. Così, a Napoli nel 1989, lessi su un giornale che il regista spagnolo sarebbe stato a Roma perché ‘Donne sull’orlo di una crisi di nervi’ aveva vinto il David di Donatello, allora leggo che sta al Grand Hotel di piazza Repubblica. All’epoca non c’erano treni veloci, quindi agguanto un tassista abusivo e gli dico: a Roma”. E la portano? “Sì, solo che dopo un po’ salta su pure un amico del tassista, con una faccia da camorrista, ho pensato, questi si prendono i soldi e mi buttano giù dalla macchina. Invece con questa macchina scassata arriviamo a Roma,  avevo prenotato una stanza al Grand Hotel e facevo il fico, dico al concierge: mi avverta quando arriva il maestro. Il maestro arriva, facciamo amicizia, e mi invita a Madrid sul set. Dove gli faccio l’assistente volontario, un sogno. Io con lui quel giorno a Roma finsi disinvoltura, poi mi misi a saltare per la gioia in camera mia, da solo”. Neanche un lamento. Nessun dramma nei suoi racconti, è un’eccezione nell’epoca del lamento continuo. “Ma guardi, ma a me non piace fare la vittima”. Almeno un po’ di gavetta? “A vent’anni sono partito per New York e ci sono stato per sette, ho studiato danza, regia, recitazione”. Faceva qualche lavoretto? “Sì, commesso in un negozio di abbigliamento a SoHo. Ma un giorno entra un tipo con la pistola per fare la rapina e lo prendo come un segno, meglio lasciar perdere”. Non ha mai pensato di rimanere in America? “No, era molto difficile entrare nei giri giusti”. Dell’omosessualità vogliamo parlare? “Ma certo, che me ne importa?”. Nella sua famiglia ha avuto problemi? “Manco un po’. Avevo uno zio stupendo, omosessuale, forse lui, ai tempi suoi. Io di certo no”. E’ più facile essere gay a Napoli? “Culturalmente è una cosa che c’è sempre stata. il travestitismo. I femminielli. A Napoli un omosessuale in casa ce l’hanno tutti”. 


Che famiglia era la sua? “Mio nonno era stato un discreto costruttore. Casa a Posillipo, e a Roma, dove venivamo spesso. Mio padre l’ha seguito nell’attività ma era anche un grande cinéphile, e dipingeva pure. Io ho mandato tutto all’aria, come sempre la prima generazione è quella che crea la fortuna, la seconda la mantiene, la terza la distrugge”. Buddenbrook a Posillipo. “Erano tutti bellissimi e fighissimi a casa mia. Io ero quello timido e strano. Troppo intellettuale in casa, troppo borghese tra i miei colleghi, sempre così”. Lei a Posillipo, intellettuale, insomma era un piccolo Parthenope, un parthenopino. Ha mai voluto studiare antropologia? “No”, ride. Era un patriarcato casa sua? “Macché. A parte le vicende serie delle violenze, questa storia del patriarcato italiano fa acqua da tutte le parti. Almeno al Sud. Dove hanno sempre comandato le donne. Facendo un po’ di teatro, lasciando intendere che fossero gli uomini a comandare, e dall’altra parte c’era il mito delle femmine angelicate, ma tutti sanno che non è mai stato così”.

 

Che film amava? “Mi piaceva il cinema americano degli anni Trenta e Quaranta che vedevo con mio padre, imbattibile: Katharine Hepburn, Bette Davis. Un cinema di grande evasione di grande fantasia, creatività ed evasione”. Non andava da Capuano anche lei a farsi dire: ma la tieni qualcosa da raccontare? “Ma Capuano abita vicino a casa mia, prendevamo spesso il caffè insieme. Molta stima, anche se facciamo un cinema molto diverso”. Il cinema italiano tende a puntare molto sull’impegno. “Ma l’impegno e il messaggio sociale può essere raccontato anche in altri modi. Lo stesso neorealismo era comunque non realistico. C’era una componente artefatta com’è giusto che sia. Sempre finzione è”. Insomma meglio Hollywood di Pasolini. “No, però evasione significa uscire dalla cupezza del quotidiano. Senza nulla togliere a grandi registi, non amo il cinema del moralismo. Tutti chiedono sempre qual è il messaggio, ma che ne so io? Lo spettatore non può affidare la sua visione della vita o la propria intelligenza al primo cretino che fa un film”. 


Tornando a “Inganno”, certo che Guerritore è stata coraggiosa. “Sì, non si è tirata indietro davanti a niente”. Pur dimostrando i suoi anni e non avendo lo sguardo da gatto cinese derivante dal bisturi come molte coetanee. “Infatti questo secondo me è stato un grande punto a favore della serie, ha creato empatia. Ci sono altre cose che secondo me hanno contribuito al successo”. Quali? “La seconda è che lei se ne frega di tutto e di tutti, e accetta di correre il rischio che lui sia un truffatore; la terza è la location, dei luoghi conosciuti ma che non si vedono così tanto…”. Dove avete girato? “A villa Astor, che è una villa privata a Sorrento, che viene affittata per cerimonie”. Certo se aveste girato a Brescia non sarebbe stata la stessa cosa. Diventerà il castello delle cerimonie per le sciure. C’è tutto un fermento dietro a questa serie soprattutto tra le signore agées. “Una storia pazzesca, ma che potrebbe capitare a tutte noi”, mi ha detto qualche tempo fa una signora, forse con un po’ di eccessivo ottimismo data la sua stazza. Non è che con quelle sontuose riprese dronistiche contribuirà anche lei all’overtourism? “Forse, ma quei posti son già famosissimi”. Ah, il quarto elemento del successo, diceva? “Che lui è bono”. Be’, sì. 


Cosa guarda oggi? Le serie turche? “No”, ride. E allora? “’Monsters’ di Ryan Murphy mi è piaciuto molto. Ah, e poi il documentario su Martha Stewart, divertente”. Anche lei lamenta lo stress di lavorare con le cosiddette piattaforme? Riunioni robotiche su Zoom dove non vedi mai facce umane? . “No, no, è andata bene, ho fatto riunioni anche con umani”. Avrà fatto un sacco di soldi. “Ma non creda”. Non c’è un guadagno in proporzione alle visualizzazioni? “No”. “Ma alla fine”, fa Corsicato, mentre il cane Spotty comincia a dar segni di impazienza, “io ho sempre fatto il cinema che piace a me, possibilmente con dentro qualche passo di danza, perché il mio sogno vero è sempre stato quello di fare un musical, la danza e i colori. In tutti i miei film c’è sempre un momento del ballo”.  Farebbe un musical con Schlein o invece con Meloni? “Con tutte e due! Come ‘Les Demoiselles de Rochefort’, con Catherine Deneuve e la sorella morta decapitata anni dopo”, e mette il video del film su YouTube. Tra l’altro il figlio maggiore di “Inganno” si innamora di un poliziotto. Un mélo law and order. Un mélo meloniano. “No!”. 


Maestro, lei è di destra o di sinistra? “Mah, idealmente di sinistra, sono stato educato dalle suore, credo nell’uguaglianza, nella carità, e nella compassione, ma è un messaggio più cristiano che comunista”.   Il cane Spotty non ne può più. Da dove arriva  Spotty? E’ americano? Napoletano? “No, trovato cucciolo per strada in Salento”. Anche lei in quel covo radical, nei borghi assolati? “No, d’estate prendo in affitto una casa con la piscina, le palme e l’erba finta, sembra di stare a Palm Beach”. Il pubblico dei cineforum o di Mubi inorridirebbe (ma poi si sa che tutti corrono a casa: a guardarsi di nascosto “Inganno”). 
 
 
 

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