La sede Rai di Viale Mazzini a Roma (Ansa)

e adesso?

Il deserto di Viale Mazzini. Il fuggi fuggi generale dalla Rai a causa dell'amianto e il disastro di Prati

Pierluigi Battista

Gastronomia e amichettismo, tartine e Vittorie. Storie da un quartiere che celebra il Risorgimento e ha visto passare i Beatles

Se trasloca la Rai di Viale Mazzini martirizzata dall’amianto, è tutta RaiLand che deperisce. Senza il cavallo morente dello scultore Francesco Messina che nitrisce dal 1965 all’ingresso del palazzo tutto in acciaio (e amianto), RaiCity, ossia quel pezzo di Roma tra il Tevere e Monte Mario dove domina la comunicazione radiotelevisiva (qualsiasi cosa questa espressione voglia dire), rischia l’agonia.

Migliaia di dipendenti Rai e migliaia di postulanti e clientes che stazionano attorno alla Rai abbandoneranno tra breve con decreto ingiuntivo il Quartiere delle Vittorie, un’articolazione chic di Prati (che poi di Prati ce ne sono almeno due, ma semplifichiamo per i non romani). E sarà il deserto, la morte civile, la marcia funebre per ristorantini, bistrot, pasticcerie, residence alla moda, pizzerie tradizionali e pizzerie vegane, rosticcerie vegetariane, tartinerie, botteghe d’abbigliamento sofisticato, gelaterie al gusto di avocado e ortica, salumerie con prezzi non molto distanti da Tiffany sulla Quinta Strada, “Cacio&Pepe”, (ex) Settembrini, tutti cresciuti e pasciuti all’ombra della Rai, foraggiati dalla clientela che succhiava avidamente la mammella di Mamma Rai. L’indotto viene messo alla fame. Mamma Rai abbandona il tetto (di amianto). Le saracinesche si abbassano per non riaprire. I dipendenti Rai sono costretti alla diaspora, all’esodo. Addirittura verso Roma sud, umiliazione somma.

 

Quando fu edificato, il quartiere che ruotava e tra un po’ non ruoterà più attorno all’amianto di Viale Mazzini 14 non si chiamava Delle Vittorie. E nemmeno Della Vittoria, come sarà invece ribattezzato nel 1935 per onorare i martiri della Prima guerra mondiale: Delle Vittorie diventerà ancora qualche anno dopo, esattamente nell’anno XVII dell’Èra fascista, per includere tra i trionfi anche quello sull’Etiopia appena soggiogata dal nostro effimero Impero, di cartapesta eppure non esente da efferate crudeltà. Il quartiere doveva ospitare i docili e solerti impiegati e la piccola borghesia amministrativa calati da Torino per raggiungere Roma, la nuova Capitale d’Italia. E di Torino vennero mutuati due simboli. Il primo: le strade squadrate, dritte e regolari secondo un modello urbanistico plasmato sullo stile militaresco sabaudo-piemontese e, secondo e gustoso simbolo, le pasticcerie e i caffè con i tavolini all’aperto, sempre pieni di gianduiotti e prelibatezze e che tanto facevano commuovere Guido Gozzano: “Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie”. Grazie alla prima eredità sabaudo-torinese lungo tutto il quartiere fino a Prati sorse in quella stagione una moltitudine di immense caserme, ora per lo più svuotate e solo in parte adibite a preture e tribunali civili. Anche l’attuale Piazza Mazzini, del resto, si chiamava originariamente Piazza d’Armi e addirittura verso la fine dell’Ottocento ospitò un clamoroso spettacolo equestre con Buffalo Bill, il leggendario e sregolato cowboy che ai tempi della mia infanzia era una delle maschere preferite per le tediose feste di Carnevale, ma che in quell’occasione fu sonoramente umiliato e battuto da una pattuglia di combattivi butteri di Cisterna di Latina, all’epoca, 130 anni fa, non ancora bonificata come tutta la zona pontina. Tipico esempio di mescolanza tra severità marziale e disponibilità allo spettacolo circense che spiega almeno in parte la vocazione di questa zona di Roma a diventare, nei decenni successivi, il cuore del mondo Rai.

Caratteristico di quella zona era infatti il singolare contrasto tra la tiepida sobrietà borghese del suo ufficiale stile di vita e la provocazione beffarda e irriverente di una toponomastica tutta giocata nei primi decenni dell’Italia post-unitaria, in un vasto agglomerato come Prati, sullo sberleffo anticlericale ai danni del vicinissimo Vaticano oramai spogliato della sua potestà temporale. La piazza intestata a Camillo Benso conte di Cavour, alle spalle del severo e maestoso Palazzaccio, sede del Tribunale. La via principale del commercio dedicata al tribuno Cola di Rienzo così inviso alla Chiesa. Le vie dedicate a poeti e condottieri della Roma precristiana: Terenzio e Ovidio, gli Scipioni e i Gracchi. E soprattutto, quasi un gesto di scherno, la denominazione di Piazza Risorgimento, l’odiato Risorgimento subìto dai Papi, proprio all’ombra del Cupolone, letteralmente attaccata alle mura vaticane. Poi, con la nascita del Quartiere delle Vittorie propriamente detto, la vena beffarda si disseccherà e si trasformerà in un’apoteosi celebrativa con una toponomastica ricavata dai luoghi eroici della Prima guerra mondiale: via Sabotino e piazza Bainsizza, via Podgora e viale Carso, e così via. E’ in questo volto duplice o multiforme, contraddittorio, in questa compresenza di ordine regolare e di attitudine alla sregolatezza che si insinuerà la Rai, anzi prima l’Eiar che deciderà di piantare le sue tende radiofoniche proprio lì, a via Asiago, ancora oggi santuario della radio. E poi, con la nascita della televisione, la costruzione e la messa a punto degli studi di via Teulada dove ci si perde sempre e che da un po’ di anni ha perduto il cuore dell’informazione traslocata nelle nebbiose periferie di Saxa Rubra, illeggiadrito da un cavallo alato dell’artista Mario Ceroli. E ancora, il Teatro delle Vittorie dove si registravano i grandi varietà del sabato sera e dove, nei pressi dell’ingresso laterale, stuoli di ragazzi molesti ed entusiasti e sovraccarichi di turbe adolescenziali cercavano di intercettare l’arrivo delle gemelle Kessler per strappare loro un autografo, tutti i sabati, sempre gli stessi, sempre con la stessa calca disordinata e urlante.

 

Ed è qui che nel 1965 verrà inaugurato il grande palazzo che doveva ospitare nei suoi piani, fino al settimo, quello bramato dei direttorissimi e dei presidentissimi, il grosso dell’immensa burocrazia Rai e che oggi si scopre imbottito di amianto costringendo alla dolorosa diaspora il riottoso personale, giustamente preoccupato (anche se al settimo piano si parla di un nuovo risorgimento Rai). Se ne va un edificio dalle linee avveniristiche – così si diceva allora – tra le cui finestre malamente coperte da tendine color crema è cresciuta una ricca e maliziosa aneddotica, addirittura una pruriginosa antologia di piccoli scandali che movimenteranno i pettegolezzi dei numerosi colleghi: come quella volta che una coppia clandestina fu intercettata, approfittando delle trasparenze dei vetri, da un fotografo abbastanza distante da un balcone del quartiere, ma munito di un potente teleobiettivo. Diventeranno deserte (per quanto? Per sempre? Tra un po’ di anni? Sgomento, incertezza, senso di vuoto e precarietà) quelle stanze con le pareti di compensato che potevano cambiare dimensione a seconda dell’importanza di chi le occupava, come si vede in una celebre scena della “Terrazza” di Ettore Scola in cui un funzionario Rai depresso, anoressico e in crisi d’ispirazione, interpretato da Serge Reggiani, immagina fantozzianamente che il suo spazio vitale sia ridotto nel palazzo d’amianto, simbolo di un ceto intellettuale romano nevrotico e petulante che attorno alla Rai ha fatto le sue fortune ma non riesce a reggere alla pressione, come lo sceneggiatore, un’altra scena-gioiello del film di Ettore Scola, che si lascia triturare un dito nel temperamatite elettrico (che oggi non esiste neanche più).

 

Si sono costruite molte fortune nell’assalto al Palazzo d’Amianto di Viale Mazzini 14. E anche un vasto e variegato indotto, quello in cui si sono mischiate incestuosamente ristorazione e socialità, gastronomia e clientelismo, rilassatezza da caffè e (si può dire?) amichettismo, ha fatto la sua fortuna all’ombra di un gigantesco edificio che sta per essere sfollato. Ecco la seconda eredità torinese che si trasferì a Roma con la transumanza di impiegati che da Torino venivano a lavorare nella nuova Capitale d’Italia: i caffè, le pasticcerie, i tavolini all’aperto per gustare le delicate leccornie del bel mondo. Piccole latterie che sono diventate, grazie alla costruzione di quel palazzo, megaristori in cui, decisamente meglio rispetto alle fredde stanze di tutti i piani di Viale Mazzini, un tramezzino con molta maionese può rendere più confortevole la firma su un contratto. Mentre tra un sushi e un vegano, una fetta di Sacher e una mozzarella giunta fresca fresca nella Capitale d’Italia, i burocrati dell’intrattenimento, dell’informazione, dell’infoitanment, studiano scalette, programmi, ospitate, marchette, inchieste coraggiose e mi raccomando “controcorrente”, stilano elenchi di collaboratori, collaborazioni a tempo determinato che possono riprodursi a tempo indeterminato, previa annuale sospensione per qualche mese all’anno sotto l’occhio vigile dell’ufficio legale Rai per evitare cause imbarazzanti. E dove tra un tris di primi e un dessert della casa la politica e la Rai celebrano i loro incontri di sempre, nel nome dell’eterna, trasversale e bipartisan lottizzazione, magari passando il tempo a fantasticare qualche nuova governance capace di evitare le interferenze dell’editore di riferimento (copyright Bruno Vespa), che poi sarebbe il sistema dei partiti. 

 

E ora? Ora il deserto, chissà. Già adesso, per colpa dello smart-working che resiste e si perpetua anche quando il Covid non c’è (quasi) più, gli esercizi commerciali della zona lamentano una terribile riduzione di almeno il 30 per cento dei loro introiti, un tempo grassi, oggi decisamente smagriti, domani chissà. Quasi un terzo di meno: un’enormità. E questo solo con il Covid e il post-Covid. Figuriamoci che apocalisse potrebbe profilarsi con l’amianto, che poi chissà quanto diavolo durerà la disinfestazione di quelle stanze, compreso l’ambitissimo settimo, e sarà lasciato solitario e triste il cavallo che poggia sulle zampe posteriori. Gli ascensori che trasportavano gli impiegati e il vasto popolo dei cercatori di collaborazioni sempre più rare resteranno vuoti: una volta fu trovato un uomo, alla ricerca di una collaborazione che non arrivava mai, rannicchiato in terra, colpito da un fatale infarto. Non ci saranno più nugoli di segretarie che dovranno prenotare i migliori posti nei ristoranti della zona, soprattutto nell’ora lunch, che poi sarebbe la pausa pranzo. 

Prati, ridimensionata e de-raizzata (resteranno tutti gli appartamenti presi in affitto per ospitare le redazioni dei programmi, beninteso), tornerà quel quartiere tranquillo e borghese attraversato da momenti di follia creativa. Dove gli austeri studi degli avvocati, calamitati dalla Città giudiziaria di Piazzale Clodio oltre che dal Palazzaccio, si alternavano a coloriti atelier di artisti, in passato di grandi artisti come Balla e Marinetti, e anche di Tano Festa. Dove il Palazzaccio era fronteggiato, a piazza Cavour, dal Teatro Adriano dove folle di fan adoranti aspettavano i Beatles nel loro primo e ultimo concerto romano. Dove la grande e imponente chiesa di Cristo Re, costruita da Marcello Piacentini, l’architetto molto in auge durante il fascismo, aveva come controcanto e contrappeso l’eresia della chiesa valdese a poco più di un chilometro di distanza. E c’era sì il perbenismo ricercato e snob dei villini in stile liberty sulla parte di Prati che dava sul Tevere, impreziositi da fregi e decorazioni con i soliti motivi floreali: giusto l’attraversamento di un ponte e già ti trovavi a Piazza del Popolo. Ma anche una moltitudine di cantine, cineclub, teatri, ritrovi musicali, il Beat ‘72, la pedana spartana dell’“Alberichino” dove ha mosso i suoi primi passi Roberto Benigni. La Rai aveva omogeneizzato e appiattito e reso simile al suo linguaggio questa irriducibile poliedricità, dove il borghese conviveva facilmente con l’artista, dove il Mamiani, uno dei licei (classici) più elitari di Roma, assieme al Tasso e al Visconti, divenne punta di diamante dei casini studenteschi capitolini. E adesso? “Ci vediamo da Vanni” risuonerà ancora come promessa e come minaccia per trovare il luogo – caffè e pasticceria, gastronomia e gelateria – dove tutti potevano osservare i contatti, gli abboccamenti, gli appuntamenti importanti? E il rito delle tartine di Antonini, che tra l’altro, forse per anticipare i tempi, ha anche cambiato la sua storica denominazione? E perderà clienti Ercoli, a un passo dal santuario radiofonico, dove la piccineria dei residenti impose a Fiorello di andarsene e di non disturbare perché faceva troppo rumore con le sue formidabili trasmissioni all’alba costringendolo all’esilio del Foro Italico? E soprattutto: fino a quando dureranno i delicati lavori di disinfestazione per permettere l’agognato Grande Ritorno? La storia può attendere, il tramezzino no.

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