Ghiacci roventi
Dai vichinghi ai danesi fino a Trump. Storia, geografia e ricchezze della Groenlandia
Quanta gola fa il passaggio a nord-ovest. La competizione per il controllo dell'Artico, che può diventare, secondo il Pentagono, il bancomat di Vladimir Putin: da lì potrebbe infatti arrivare l'80 per cento del gas naturale. La "guerra bianca" nello stretto di Bering che divide la Siberia russa dall'Alaska statunitense
Cominciamo con l’ammettere che la Groenlandia fa parte del continente americano e che altre volte nella storia gli Stati Uniti l’hanno rivendicata, anzi gli stessi abitanti si sono avvicinati a Canada e Usa per farsi proteggere. Dunque “Donald Musk” si è ispirato alla geografia, alla storia o a qualcos’altro? Si è detto: lo fa per contrastare le mire di Russia e Cina sull’Artico, per le ricchezze minerarie, per mettere fine a uno degli ultimi casi di colonialismo europeo o persino per aiutare i nativi maltrattati dai danesi, per tutelare la base militare a stelle e strisce, perché non potendo dare ai suoi elettori caffè e vegetali a buon mercato (tutti beni importati) offre loro il Golfo d’America e la Groenlandia. Tante se ne sentono e se ne scrivono, ma la mossa del presidente appena insediato resta un mistero. Forse c’è un pizzico di verità in ciascuna delle spiegazioni offerte o forse no. Se guardiamo l’atlante ebbene ha ragione Trump, se ricordiamo il passato tutto si confonde. In Groenlandia arrivarono i vichinghi che poi sbarcarono nel vicino Canada (con buona pace dell’italico Colombo), là venne esiliato Erik Thorvaldsson detto il Rosso, uno degli eroi delle saghe norrene tra storia e leggenda; su quelle coste hanno pescato per due millenni gli irsuti uomini del nord facendo la spola tra Scandinavia, Scozia e Islanda, il vero cuore per lingua, cultura, religione di quel gelido mondo al quale l’impero romano s’affacciò brevemente per lasciarlo di corsa. Più andiamo avanti, insomma, più il mistero trumpiano s’infittisce. Cosa si nasconde davvero tra i ghiacci? E’ sul serio così importante piantare la bandiera su quella terra desolata?
Ci siamo abituati a vedere un mondo piatto. Non appena apriamo la mappa troviamo davanti ai nostri occhi l’Europa o l’America del Nord se viviamo nell’emisfero boreale o l’Oceania e l’America del sud se siamo in quello australe. I cinesi e gli indiani vedono invece l’Asia. Ma grazie ai voli spaziali possiamo avere una visione del tutto diversa. Un satellite che attraversi il nord dal Canada alla Scandinavia scopre una sorta di grande canale delimitato ad est dalla Norvegia, a sud dalla costa del continente europeo, poi dall’Inghilterra, dalla Scozia e dalla Groenlandia alla quale si arriva di isola in isola: le Shetland, le Orcadi, le Ebridi, le Fær Øer, l’Islanda. Una carta del XII secolo lo rappresenta come un mediterraneo chiuso a nord della Groenlandia oltre la quale si trovava “l’oceano esterno”. Così si orientavano Erik il Rosso e i norreni (definizione più corretta rispetto a vichinghi) che abitavano tra i fiordi, ma vivevano bordeggiando sulle acque tempestose con i loro drakkar, un po’ pirati, un po’ mercanti e coloni, fondando un villaggio, un piccolo porto, una torre. Li aiutava il riscaldamento climatico che aveva sciolto le acque ghiacciate. Pelli di foca e d’orso, grasso e carne di balena, pietre e ambra. Non c’era molto, tranne pesci a volontà.
Per Erik il Rosso la Terra verde, così l’aveva chiamata forse per non deprimersi troppo, fu come Ventotene per Giulia unica figlia di Augusto o Sant’Elena per Napoleone: accusato di gravi misfatti lì venne esiliato. Allora l’isola era abitata, non come oggi ed era stata persino cristianizzata: il primo vescovo insediato nel 1112 si chiamava Erik ma venne latinizzato in Henricus. Poi nel XV secolo arrivò la “piccola glaciazione” che durò fino all’800 e la Groenlandia venne abbandonata. Il regno di Danimarca vi tornò ai primi del Settecento per paura che fossero sbarcati i pagani vichinghi, ma gli evangelizzatori protestanti trovarono solo poche migliaia di indigeni e battezzarono anche loro. La vicenda degli inuit è triste come quella degli eschimesi in Alaska, dei lapponi in Finlandia, dei sami svedesi, emarginati, impoveriti, indeboliti se non proprio stroncati dallo stesso veleno che logorò gli indiani degli Stati Uniti: l’alcol.
Dal 1818, quando Jean-Baptiste Jules Bernadotte, ex sergente diventato maresciallo di Francia con Napoleone, fu incoronato re della Svezia e della Norvegia ormai separatasi dalla Danimarca, la Groenlandia è governata stabilmente da Copenaghen. Allora Trump ha torto. Calma e gesso: durante la seconda guerra mondiale con la Danimarca invasa dai nazisti i groenlandesi si avvicinarono al Canada e agli Stati Uniti per cercare protezione. Tornata la pace tornarono i danesi, nel 1953 la Groenlandia divenne una contea d’oltremare, nel 1973 entrò nella Comunità europea come parte della Danimarca, ma ne uscì nel 1985 e crebbe un’aspirazione all’indipendenza; nel 2009 ottenne l’autogoverno e la gestione autonoma delle proprie risorse, mentre il groenlandese diventava la lingua ufficiale, nel 2017 è stata redatta anche una costituzione. Due anni dopo Donald Trump arrivato alla Casa Bianca chiese di comprarla. Gli Stati Uniti ci avevano provato nel 1867 e nel 1946, quindi ci sono dei precedenti; per quanto bizzarra e provocatoria possa sembrare, la pretesa non è campata in aria. Già allora Trump litigò con Matte Fredriksen, socialdemocratica, appena diventata primo ministro. Adesso sembra siano arrivati agli insulti durante la lunga e “orrenda” telefonata del 26 gennaio. Ma è ora di penetrare il permafrost.
La calotta di ghiaccio copre tutta l’isola tranne la parte più settentrionale dove l’aria è troppo fredda per far cadere la neve. La crosta glaciale comincia quando ci si allontana dai fiordi e via via si va verso le alte montagne che superano i tremila metri. A Nuuk la capitale (e unica città) abitano 18 mila dei 56 mila groenlandesi. Si trova nella parte occidentale meno fredda, quella che guarda il Canada, tra l’isola di Baffin e il Labrador. I depliant turistici scrivono che luglio quando non si fa mai davvero notte è il mese più caldo, ma non c’è davvero di che sudare: si arriva in media a sette gradi anche se nel 1928 vennero toccati i 31 gradi; nel freddo marzo fa meno 13, il minimo arrivò a meno 49 nel 1929. In Groenlandia si vive di pesca, gamberi e gamberetti, ma anche grandi halibut che i popoli nordici considerano prelibati. E’ vero, si pensa che sotto la crosta ci siano petrolio, minerali rari, anche uranio. Ma raggiungerli ed estrarli è tutt’altra faccenda. “Sviluppare la gigantesca isola è una fredda realtà”, ha scritto il Financial Times. Dopo decenni di prove ed errori, c’è una sola miniera dalla quale si estrae anortosite una roccia magmatica chiara che contiene calcio e si è formata nella prima fase di raffreddamento della terra. Ce n’è in Labrador, negli Stati Uniti (i monti Adirondack) e persino sulla Luna. Si usa nelle costruzioni, nelle fibre vetrose, ma vista la sua alta resistenza al calore anche nell’industria aerospaziale. Utile, insomma, ma non una esclusiva groenlandese.
Quando nel 2019 Trump voleva comprarsi l’isola, le autorità di Nuuk dissero bene, facciamo accordi, venite e scavate. Sapete quante compagnie americane si sono fatte avanti? Una. Più numerose le imprese canadesi e britanniche (circa 23), ma tutte hanno trovato quasi impossibile lavorare in quelle condizioni climatiche. L’unica multinazionale delle miniere è l’Anglo American, tuttavia è ancora in fase esplorativa e solo nelle prime fasi. Ciò non toglie che d’improvviso spunti davvero un tesoro sotto il ghiaccio, spesso succede, ma per ora non s’è visto nulla. Il Financial Times cita Roderick McIllree direttore esecutivo della compagnia britannica 80 Mile che da anni cerca inutilmente di tirar fuori qualcosa; esistono tre progetti per estrarre rame, nickel, idrogeno, elio e petrolio, ma ci vogliono miliardi di dollari. Mike Waltz il segretario al commercio ha parlato del pericolo cinese. Finora non se ne sono visti segni significativi. Una miniera di ferro è stata chiusa nel 2021 per mancanza di attività. Un’azienda cinese è azionista di minoranza di un progetto per la ricerca di terre rare bloccato dal governo di Nuuk perché c’è presenza di uranio nell’area. Un’altra impresa di Pechino una quindicina di anni fa aveva investito per creare due aeroporti, ma la Danimarca, anche su pressione americana, ha fornito lei i finanziamenti. Gli aeroporti dovevano servire un’onda di turisti, perché i groenlandesi puntavano più sull’arrivo di stranieri che non sulle costose miniere nemiche dell’ambiente, ma nonostante il fascino dell’estremo nord, la buona stagione è davvero troppo corta per garantire un flusso significativo. Inoltre non ci sono strade né collegamenti per spostarsi da una parte all’altra, almeno nella costa occidentale meno rigida e battuta dai venti polari.
Tutto può accadere, il petrolio per tanto tempo lo si è cercato sotto le sabbie del deserto arabico o del Sahara, poi ha preso a zampillare. Ma tutti i geologi e gli esperti di scavi ed estrazioni sono concordi nel dire che oggi come oggi il risultato non vale la spesa. Nemmeno per mettere mano alle terre rare: secondo le stime la Groenlandia contiene un quarto delle risorse mondiali, il problema è raggiungerle. Molto più interessante se consideriamo l’isola come avamposto militare. E qui entriamo nell’affascinante capitolo, per molti versi ancora da scrivere, della competizione per il controllo dell’Artico. La chiamano “la guerra bianca” e per ora l’epicentro è dalla parte opposta rispetto alla Groenlandia, cioè nello stretto di Bering che divide la Siberia russa dall’Alaska statunitense. Secondo il Pentagono, l’Artico può diventare il bancomat di Vladimir Putin perché da lì potrebbe arrivare l’80 per cento del gas naturale. E’ chiaro che Mosca non consentirà intromissioni. Già da tempo è sotto pressione il passaggio a Nord ovest, cioè la rotta che collega Pacifico e Atlantico da nord passando dallo stretto di Bering lungo le coste settentrionali del Canada, l’isola Vittoria, la baia di Baffin e la Groenlandia che acquista a questo punto una importanza geostrategica. Finora non è molto vantaggiosa, talvolta c’è bisogno di navi rompighiaccio anche d’estate. Il riscaldamento climatico e la riduzione dei ghiacci rendono la navigazione più semplice soprattutto nei prossimi anni. Sulla Groenlandia, dunque, gli Stati Uniti (e prima di Trump) hanno fatto ben più di un pensierino, il controllo dell’isola significa avere la chiave di quell’enorme canale naturale, altro che Panama.
La Nato e l’Unione europea sono nei pasticci. La Danimarca paese fondatore della Nato è alleata degli Usa e svolge una parte importante nell’Alleanza atlantica, i soldati danesi grazie alla loro eccellente preparazione militare sono impiegati in molti scacchieri e aree ad alto rischio. Nel 2003 il governo danese è stato tra i primi ad aderire all’operazione Iraqi Freedom con un contingente di 500 unità – operanti principalmente nella regione di Bassora – più l’impiego di un sottomarino e di una nave da guerra Corvette-Class. Nonostante l’annuncio del ritiro di buona parte del contingente entro l’agosto 2007, le truppe danesi hanno seguito il progressivo disimpegno di quelle internazionali presenti sul territorio iracheno. Parallelamente, la Danimarca ha preso attivamente parte alla missione International Security Assistance Force (Isaf) in Afghanistan, dove oggi è tra i primi 15 paesi contributori. Dall’agosto del 2010, infine, ha partecipato attivamente alla missione navale Ocean Shield della Nato, condotta al largo del Corno d’Africa. L’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen è stato nominato segretario generale della Nato nel 2009 con un forte sostegno americano. Scandinavo, esattamente norvegese, anche il suo successore Jens Stoltenberg. Sembra quasi assurdo vedere adesso come nemici degli Stati Uniti i due paesi che per secoli hanno in qualche modo gestito la Groenlandia. La base militare più importante è quella aerea di Thule, nella parte nord occidentale dell’isola, sulla quale sventola la bandiera a stelle e strisce. Gli Stati Uniti hanno acquistato il territorio nel 1953 lasciando a Copenaghen il compito di spostare un centinaio di chilometri ancor più a nord la popolazione inuit che abitava in quell’area. Thule è protagonista del film catastrofista Greenland apparso nel 2020, perché offre rifugio in un bunker a una famiglia mentre un meteorite sta per colpire la terra.
Altro che cinema, siamo in pieno psicodramma. Il governo danese ha fatto appello all’Unione europea affinché resista alla prepotenza americana, ha deciso di investire in Groenlandia in particolare nella ricerca di terre rare, ha chiesto di assicurare una presenza militare che garantisca la sicurezza dell’isola, tuttavia ha scelto di mostrarsi all’esterno tranquillo e sicuro delle sue buone ragioni. La Ue ha scelto il basso profilo e lo stesso ha fatto la Nato. Il segretario generale, l’ex premier olandese Mark Rutte, ha dichiarato che “c’è bisogno di un dialogo con Trump il quale del resto ha avuto anche ragione molte volte”. Secondo fonti di Bruxelles in realtà i vertici dell’Alleanza atlantica e quelli dell’Unione europea non nascondono in privato la loro preoccupazione. Il presidente americano ha alzato molto la palla mostrando una divisione tra gli Stati Uniti e i suoi alleati che alla fine, invece di avvantaggiare l’America, offre alla Russia e alla Cina occasioni non solo di aizzare la propaganda, ma di infilarsi nelle contraddizioni atlantiche. Sono spiazzati anche gli indipendentisti. Múte Egede primo ministro groenlandese nel suo discorso di inizio anno ha evocato il referendum del quale si parla da anni, annunciando che è arrivato il momento di muovere i primi passi, facendo capire che si potrebbe tenere prima delle elezioni del 6 aprile. Storicamente la popolazione Inuit vorrebbe distaccarsi da Copenaghen anche per come sono stati trattati i nativi (ultimo caso l’anno scorso l’applicazione di contraccettivi a donne inuit a loro insaputa, condannata nella stessa Danimarca come una sterilizzazione forzata). I due principali partiti, Inuit Ataqatigiit e Siumut, sono fondamentalmente indipendentisti e seppur vedendo la cosa da punti di vista diversi, rappresentano il pensiero della maggior parte degli abitanti. L’uscita di Trump ha provocato uno scatto d’orgoglio: “Non siamo in vendita”, ha replicato Egede. Ma ora meno che mai i groenlandesi possono restare da soli.