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(Ansa)
Sogni, ingegno e ricchezza. Il nuovo mondo raccontato dai grattacieli
Quanto sono vere le parole di Fitzgerald: Manhattan è il cuore pulsante d’America. Dalla Fifth Avenue al Chrysler Building, un inno alla libertà espressiva. Ma anche il teatro di una nuova battaglia estetica
Lentamente divenni consapevole dell’antica isola che una volta fiorì per gli occhi dei marinai olandesi: un seno fresco, verde, del nuovo mondo… per un attimo fuggevole e incantato, l’uomo deve aver trattenuto il respiro di fronte a questo continente”. Sono trascorsi più di quattro secoli eppure ancor oggi chi arriva dall’aeroporto JFK e si dirige verso Manhattan vede subito quanto siano vere le parole che Francis Scott Fitzgerald mette in bocca a Nick Carraway, l’io narrante del Grande Gatsby. Non ci sono più boschi e acquitrini, ma colossi di acciaio, cemento, vetro, alluminio che fanno a gara per salire verso il cielo; le canoe dei Lenape, una tribù della grande nazione algonchina che popolava le terre tra il Canada e il fiume Mississippi, hanno lasciato il posto a yacht e ferry boat; i cavalli selvaggi si sono arresi ai cavalli motore. Eppure continua a fiorire davanti ai nostri occhi “l’antica isola” comprata dagli olandesi per un pugno di talleri e perline (si calcola che oggi sarebbero non più di mille dollari), diventata la città simbolo dell’America che tutti accoglie e tutto macina.
Nulla rappresenta il volto e lo spirito di New York più dei grattacieli, eredi lontani nel tempo non nello spirito, delle 72 torri di San Gimignano o di quelle bolognesi erette dalle famiglie di mercanti arricchiti nei nuovi borghi italiani. Rockefeller, Carnegie, Chrysler, Astor sono i moderni Garisendi, Asinelli, Strozzi, Rucellai. Raccontare la città attraverso i suoi edifici è solo una scorciatoia per arrivare a tutto quello che essi nascondono. Accanto a ogni pietra, sopra ogni pilastro, dietro ogni specchio c’è un pezzo di storia, c’è un viaggio nella mente, c’è un percorso di vita. Manhattan è un trionfo dell’architettura, una sinfonia di stili, un inno alla libertà d’espressione artistica, checché ne dica oggi The Donald: l’art déco, il razionalismo di Le Corbusier, la Bauhaus portata da Mies van der Rohe e Walter Gropius, il modernismo, Oscar Niemeyer, Norman Foster, Renzo Piano e il brutalismo brutalmente attaccato da Trump che vuol imporre la sua estetica di regime (un ritorno al neoclassicismo) nemmeno fosse il Re Sole o, peggio, Albert Speer, proprio Trump che ha costruito la sua torre sulla Quinta strada con una enorme quantità di cemento armato sia pur rivestito di vetri. Quasi per sfida, ha un gran successo il film “The Brutalist” scritto e diretto da Brady Corbet che fa conoscere a un vasto pubblico quel movimento che prende nome dal cemento grezzo (béton brut in francese); intanto il Met (Metropolitan Museum of Art) dedica una mostra a Paul Rudolph uno dei suoi maggiori esponenti (chiude il 16 marzo).
Quel che colpisce in questo profluvio di forme, di sogni e di hybris che esprime l’anima di Manhattan, è l’alleanza tra tecnica ed arte, tra “triviale” ingegneria e architettura spaziale. Nessun grattacielo tanto alto sarebbe stato possibile prima che venisse introdotto un sistema di ascensori come quello perfezionato da Elisha Otis. O senza il robusto acciaio della Pennsylvania. Ma la vera svolta è la concezione americana dell’estetica figlia di quella europea dalla quale si emancipa nella seconda metà dell’Ottocento grazie anche a pensatori come George Santayana secondo il quale l’arte e la bellezza debbono sempre essere integrate con la vita, la sensibilità, la soggettività: “Sentire la bellezza – ha scritto – è meglio che capire come arriviamo a sentirla”. Nato a Madrid nel 1863 con il nome di Jorge Agustín Nicolás Ruiz de Santayana y Borrás, morto a Roma in convento nel 1952, educato a Boston, professore a Harvard. Americano più di così? Anche se “si sentiva sempre esule dalla Spagna”, secondo Bertrand Russell che ne apprezzava il pensiero.
Le torri non sono le uniche icone di questa città, anche qui c’erano un tempo le dimore signorili, alcune di loro hanno resistito alla macchina del tempo che viaggia ad altissima velocità. E restano in piedi i sontuosi alberghi che ospitavano i baroni della finanza e dell’industria, attori e ballerine, cantanti e poeti: anch’essi come il Waldorf Astoria o il Plaza, continuano a segnare la città, nei loro saloni si celebra ancora il rito del successo. Ma l’inizio del secolo americano porta soprattutto le fattezze di alcuni veri e propri monumenti: il Flatiron building (1902) il primo grattacielo tra quelli rimasti, la metropolitana (1904), i ponti (Manhattan e Williamsburg dopo quello di Brooklyn), il Grand Central Terminal completato nel 1913, la più grande stazione al mondo. La città si sviluppa da sud a nord su una striscia di terra tra due fiumi e il mare, larga appena 3,7 chilometri e lunga 21,7 che ospita un milione e 600 mila residenti con una densità di 28 mila 730 persone per chilometro quadrato, oltre dieci volte Roma e tre volte Milano.
Il muro eretto dagli olandesi, oggi Wall Street, segna il limite meridionale e tutto comincia da lì nella prima parte del XVII secolo. Broadway è già tracciata e non è affatto larga come dice il suo nome. Attraversa un’area paludosa dove vivono le tribù dei nativi americani. Ma anno dopo anno la terra viene prosciugata, Nieuw Amsterdam diventa New York su una scacchiera di strade diritte come quelle degli antichi romani. Nel breve periodo in cui la città diviene capitale nei neonati Stati Uniti d’America e fino alla seconda metà dell’Ottocento, i ricchi vivono nelle loro case in stile inglese attorno a Washington square alla quale Henry James dedica il suo romanzo del 1880; da lì parte la Fifth Avenue che arriva fino a Harlem. Quarant’anni dopo, Edith Wharton ne “L’età dell’innocenza” racconta le passeggiate in carrozza lungo la Quinta strada fino a Central Park, gli intrecci d’amore e d’affari, la vita agra di una borghesia che si atteggiava ancora ad aristocrazia britannica. Su tutto aleggiava già il fiato sulfureo dei robber barons che renderanno l’America prima potenza del mondo. Questo passaggio d’epoca si rispecchia perfettamente nel Woolworth building, in stile gotico vittoriano e nel grattacielo che sorge nel triangolo tra Broadway, Fifth Avenue e 23rd Street: il Fuller Building, meglio noto come Flatiron. In realtà non doveva assomigliare a un ferro da stiro, ma a una gigantesca colonna greca secondo il suo progettista David Burnham, o almeno così appariva la punta del palazzo triangolare a chi la vedeva da nord.
La città verticale nasce in realtà a Chicago dopo il grande incendio che nel 1871 distrusse il centro urbano. Il primo grattacielo si chiama Home Insurance Building progettato da William Le Baron Jenney, architetto diplomatosi all’École polytechnique di Parigi, già attivo nel Genio militare durante la guerra di Secessione, membro della rivoluzionaria scuola d’architettura chiamata di Chicago che dettò il canone architettonico fino agli anni ‘20-’30 del Novecento. L’edificio terminato nel 1885 era alto soltanto 42 metri. A Manhattan fecero molto di più anche grazie alla solidità del terreno roccioso. Il World Building, per esempio, nel 1890 superò i 100 metri svettando oltre la guglia della Trinity Church. Venne demolito nel 1955 per allargare l’ingresso al ponte di Brooklyn. Il Flatiron, quindi, resta davvero il più antico ancora in piedi. Non solo, è stato il primo a dotarsi di una struttura in acciaio e senz’altro il più rapido ad essere costruito: appena un anno. Alto quasi 87 metri per 22 piani, la punta di questo singolare triangolo è larga appena due metri; lo chiamavano la “Burnham’s Folly” e segnò il superamento della scuola di Chicago. Il corpulento e baffuto architetto newyorchese che assomigliava a Teddy Roosevelt, non era pazzo e l’ebbe vinta.
George A. Fuller, allora il principale costruttore di New York, lo voleva come monumento e quartier generale, ma il Flatiron nel 1925 venne comprato da una compagnia di assicurazioni che lo affittò a una serie di piccole società. Solo dal 1959 visse davvero una seconda vita: la St.Martin Press una delle maggiori case editrici americane decise di installarsi nell’iconico palazzo dove restò per sessant’anni; nel 2004 la casa madre, la Macmillan Publishers, rilevò tutti i piani per poi trasferirsi nel 2019 nell’Equitable Building, anch’esso un edificio storico (due palazzoni paralleli con una base comune) completato nel 1912 al 120 Broadway. Nel 1980 era stato acquistato da Larry Silverstein (principale appaltatore nella ricostruzione del World Trade Center) che possedeva il 25% del Flatiron, prima di entrare in conflitto con gli altri proprietari: Sorgente Group che ha la quota maggiore, GFP Real Estate, Newmark e ABS, i quali due anni fa hanno vinto l’asta assicurandosi il pieno controllo per 161 milioni di dollari. E’ l’ultima di una lunga serie di passaggi di mano che offrono lo spaccato di un mercato immobiliare frenetico; Manhattan non dorme mai, tanto meno quel mondo degli affari che l’ha plasmata, insieme all’arte e alla cultura. Una triade che solo a New York può davvero stare insieme.
Dalle finestre del Flatiron si vede quello che è stato per mezzo secolo il gigante di Manhattan, l’Empire State Building, mentre poco più in là verso est, lungo la Lexington Avenue brilla la punta del Chrysler Building. La loro è davvero una storia parallela. Entrambi sono stati inaugurati negli anni ‘30 quando la città era già salita verso nord, molto a nord. Le residenze dei nuovi ricchi circondavano Central Park, a est i banchieri wasp a ovest gli intellettuali e gli artisti (Pëtr Il’ic Cajkovskij, Leonard Bernstein, Lauren Bacall, Rudolf Nureyev fino a John Lennon) che prendevano alloggio al Dakota, l’eccentrico palazzo fatto costruire nel 1884 da Edward S. Clark il re delle macchine per cucire, proprietario della Singer, a stretto contatto con i mercanti ebrei immigrati dalla Russia dei pogrom come Zabar vera bandiera dell’Upper West Side. Per un brevissimo periodo la torre più alta della città, anzi d’America, è stato il Chrysler building. L’idea era venuta già nel 1927 a William H. Reynolds che si era arricchito con il parco divertimenti di Coney Island. Il progetto si deve a William Van Alen, uno dei più famosi architetti newyorchesi, che si era spinto in alto e non solo nei costi: la prima versione di 54 piani lo aveva già reso già il numero uno, ma il colpo di genio fu la cuspide in acciaio inossidabile che all’inizio non piacque a Reynolds il quale nel frattempo si era spaventato per il costo (14 milioni di dollari del 1930, 280 milioni al valore attuale).
Si fece avanti Walter Chrysler alla ricerca di una degna sede per la sua società fondata quattro anni prima e aveva fatto successo con la sua B70, prima di puntare decisamente sul design e lanciare vetture aerodinamiche grazie all’introduzione della galleria del vento. La Airflow del 1933 fu davvero innovativa e non solo negli Usa. Al piano terra del grattacielo venne installato il quartier generale che prima era a Highland Park, sobborgo di Detroit, accanto al salone nel quale era esposta l’intera gamma di vetture. Era la prima volta che l’automobile, la macchina che ha cambiato il mondo secondo il Massachusetts Institute of Technology, sbarcava nel cuore di Manhattan. Non è abbagliante solo la punta, ma anche l’atrio del Chrysler building rivestito di marmi rossi. Trump nella sua torre sulla Quinta strada farà qualcosa del genere con il marmo rosa, ma aggiunse da par suo ottone, specchi di vetro e una cascata. Walter Chrysler, quando il suo grattacielo venne sorpassato dall’Empire, andò su tutte le furie, se la prese con l’architetto, rifiutò di pagarlo, la disputa finì in tribunale, vinse Van Allen e ottenne 840 mila dollari (circa 16 milioni e 800 mila odierni). L’imprenditore morì nel 1940 e la guerra cambiò molte cose, gli eredi nel 1953 fecero ritirata e vendettero all’immobiliarista William Zeckendorf. La Chrysler tornò nel Michigan, oggi la sede è a Auburn Hills dove s’installò Sergio Marchionne quando nel 2009 la prese senza pagare nemmeno un centesimo. La perdita del primato in altezza non sminuisce il primato estetico anche a confronto con il suo acerrimo concorrente.
Non si può fare a meno di arrampicarsi (in ascensore naturalmente) in cima all’Empire state building che fino al 1967 era il grattacielo più alto al mondo con i suoi 443 metri se si calcola anche la guglia: ogni anno quattro milioni di visitatori salgono sulla terrazza battuta dal vento, l’hanno classificato una delle meraviglie del mondo, anche se per me impallidisce rispetto al Chrysler. L’Empire sorge dove si aprivano il palazzo degli Astor e il Waldorf Astoria, ritrovo dei Four Hundred, l’aristocrazia degli affari. Nel 1929 l’albergo venne spostato al 301 di Park Avenue dove si trova ancor oggi. A quel punto una cordata di industriali e finanzieri come i du Pont, quelli delle vernici e della chimica, il banchiere Louis G. Kaufman, Ellis P. Earle (miniere), John Jakob Raskov (General Motors), comprarono l’intero complesso e decisero di andare sempre più su. Il progetto iniziale prevedeva un’altezza inferiore, ma vennero aggiunti 22 piani agli 80 programmati. Inaugurato in pompa magna dal presidente Herbert Hoover e dal governatore dello stato Franklin Delano Roosevelt, incappò subito nella Grande Depressione e per anni venne soprannominato Empty State Building perché tre quarti degli spazi commerciali restarono vuoti. A fargli concorrenza del resto era sorto nel frattempo l’elegante Rockefeller Center, capolavoro di art déco, più vicino al parco e al centro di un complesso di uffici e residenze.
I tre maggiori progetti architettonici, Chrysler, Empire, Rockefeller, vennero iniziati tutti tra il 1929 (il giovedì nero del 24 ottobre) e il 1932, quindi tra il Big Crash di Wall Street e la Grande Depressione, quando la produzione industriale crollò del 50 per cento. L’amministrazione Hoover reagì con la chiusura protezionista, la legge Smoot-Hawley che doveva rilanciare l’economia nazionale, ma la produzione tornò ai livelli del ‘29 solo alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Il New Deal lanciato da F.D.Roosevelt diventato presidente nel 1933, riuscì a lenire, non a risolvere del tutto la crisi. A volte la storia si ripete e, purtroppo, non sempre come farsa. Nemmeno il film “King Kong” del 1933 con il gorilla aggrappato al pennone, riuscì a riempire l’Empire rimasto semi vuoto fino agli anni 50 quando la proprietà passò di mano una infinità di volte, ma il boom di quegli anni dorati conclusi dalla crisi petrolifera del 1973, salvò la torre dalla decadenza. Il crollo delle Twin towers l’11 settembre 2001 riconsegnò il primato dell’altezza all’Empire. Ma non è durato a lungo.
Le Torri gemelle frantumate dai due Boeing di Al Qaeda, con i loro 110 piani e 527 metri guglie comprese, restano ancor oggi al secondo posto tra più alti grattacieli costruiti negli States. Sono superate per appena quattordici metri dall’edificio eretto sulle loro ceneri, il One World Trade Center inaugurato nel 2013. Le Twin towers celebravano i fasti del libero scambio trionfante dopo la seconda guerra mondiale. Proprio per questo sono state attaccate, per il loro valore simbolico, per dare un colpo al modello liberale e alla globalizzazione, per violare la superba invulnerabilità degli Stati Uniti sul loro territorio. E’ l’evento che ha cambiato l’America e gran parte del mondo, quello che ha messo la sicurezza al primo posto anche a scapito del mercato, della ricchezza, della democrazia liberale. La paura sta riplasmando le coscienze e sullo stato d’eccezione si fonda una nuova barbarica autorità. Chi l’avrebbe mai detto che dopo un quarto di secolo il commercio mondiale sarebbe stato colpito ancora, ma dall’interno, addirittura dalla Casa Bianca.
I sette edifici originari, progettati da un architetto giapponese, Minoru Yamasaki, furono sviluppati dall’Autorità portuale di New York e New Jersey. L’idea di un mega centro commerciale nella punta sud di Manhattan là dove sorge il distretto finanziario, alle spalle di Wall Street e della borsa, era venuta a David Rockefeller, il banchiere, che l’aveva girata all’autorità portuale. Nel 1960 il progetto prese corpo con la Lower Manhattan Association presieduta dallo stesso David e sostenuta dal fratello Nelson, governatore dello stato. La costruzione apparve subito complicata, tra l’altro bisognava evitare l’infiltrazione del fiume Hudson e fu creata una sorta di piscina. Due enormi “schedari di vetro e cemento” come li definì Lewis Mumford, “un esempio di gigantismo senza scopo e di esibizionismo tecnologico”, scrisse. Poco dopo l’11 settembre tornai a New York, e guardando la voragine di Ground zero, vivendo il lutto che la circondava, realizzai quanto poco aveva capito l’illustre studioso: forse è meglio non lasciare le città agli urbanisti, così come le guerre ai generali. E chissà cosa avrebbe detto Mumford quando “i morti erano ovunque, nell’aria, tra le macerie, sui tetti vicini, nei venti che soffiavano dal fiume. Si posavano con la cenere sulle finestre lungo ogni strada, sui suoi capelli e sui vestiti”, come ha scritto Don De Lillo nel suo romanzo “L’uomo che cade” pubblicato sei anni dopo.
La corsa verso il cielo non è stata fermata nemmeno dalla “guerra asimmetrica”, nemmeno dal terrorismo islamico. Il New York Times building disegnato da Renzo Piano e completato nel 2007 è un monumento a un’altra libertà fondamentale, la libertà di opinione e di stampa. Sorge nella parte centrale di Manhattan quella popolare, poco più su del Garment district dove si erano raggruppati i sarti italiani, accanto ai teatri di Broadway e Times square che prese nome proprio dalla originaria sede del giornale, e appena a sud da Hell’s Kitchen, la cucina dell’inferno, quella dove ribollivano le ire degli immigrati irlandesi, italiani, ispanici. Lì sono nati e cresciuti attori come Sylvester Stallone e Timothée Chalamet, il divo dei nostri giorni, è lo scenario di “Taxi Driver” di Martin Scorsese. Per il Times il nuovo quartier generale è anche una sfida alla crisi della stampa messa alle corde, trasformata, ma non sconfitta dai social media: nel 2023 aveva 9 milioni 150 mila sottoscrittori tra la versione di carta e, soprattutto, quella online. Numero due negli Stati Uniti testa a testa con il Wall Street Journal, tra i migliori e più autorevoli esempi di giornalismo, entrambi molto americani e molto globali (sì anche se globale oggi sembra un insulto). Fondato nel 1851 come New York Tribune, il NY Times è rimasto sempre nelle mani della famiglia Ochs-Sulzberger fin dal 1893 l’anno di un’altra grande crisi economica. Oggi è presieduto da Arthur Gregg Sulzberger nato nel 1980, esponente della quarta generazione che, come da tradizione, ha cominciato facendo il reporter, ma non nei giornali di famiglia: prima al Providence Journal in Rhode Island poi sulla costa del Pacifico nell’Oregonian di Portland. Finché nel 2009 non è entrato al New York Times, cominciando dalla gavetta, la cronaca locale. Nove anni dopo sarà lui l’editore, il big boss che, però, conosce la macchina a menadito. Forse è questo il segreto della longevità? Rupert Murdoch, diventato proprietario del Wall Street Journal, ha fatto il mestiere in Australia prima di ereditare il Melbourne Herald dal padre diventato famoso con lo scoop sul massacro di Gallipoli nel 1915, che fu colpa in gran parte di Winston Churchill.
Non è bello chiudere questa carrellata sulle meraviglie di Manhattan con il giornalismo, sembra troppo parrocchiale per un giornalista. Il matrimonio tra affari, soldi, potere, arte, cultura è davvero l’anima della città, quel che la rende unica e inimitabile. I suoi paesaggi aspri e solitari dipinti da Edward Hopper innamorato dei ponti, soprattutto del Queensboro Bridge; la sua metropolitana che vive un’esistenza sotterranea protagonista del romanzo di John Dos Passos “Manhattan Transfer”; i suoi musei dal più antico il New York Historical Museum del 1804 all’ultima sede del Whitney, disegnata da Renzo Piano, vera vetrina dell’arte americana in ogni espressione; i teatri di Broadway, il Lincoln Center e la Juilliard School, tempio della musica classica e moderna, il Metropolitan, tempio dell’opera, e il Madison Square Garden, tempio della boxe, monumento alla società dello spettacolo molto prima che arrivassero il cinema, la tv e internet. E non si possono non celebrare gli alberghi di culto. Il Plaza dove Fitzgerald ambienta la “zingarata” fatale nel Grande Gatsby, l’Algonquin dove si riuniva la crème degli scrittori, il Chelsea vero nido della bohème newyorchese, là dove Leonard Cohen e Janis Joplin consumarono, come racconta la canzone, la loro breve e intesa avventura di sesso, ma anche di amore. E c’è la New York città al centro del mondo. Ancor più che dal World Trade Center è rappresentata dal Palazzo di vetro, il quartier generale delle Nazioni Unite, costruito tra il 1947 e il 1952 da un team di lusso (Oscar Niemeyer, Le Corbusier, Wallace Hamilton tra gli altri), il primo grattacielo a facciata continua dicono gli esperti, non tra i più belli secondo me, certo il monumento a un universo di valori che rischia di scomparire.
Torno spesso a New York e ogni volta anch’io, come gli antichi marinai olandesi, trattengo sempre il respiro davanti al suo moto perpetuo. E’ un continuo mettere in mostra idee e tendenze, un macinare speranze e consumare tragedie; è un distruggere e ricostruire senza posa. Perché i nuovi palazzi diventino icone occorre che si posi su di loro la patina della storia. Il tempo qui corre all’impazzata, ma sempre ritorna, sosteneva Fitzgerald. Quella luce verde che Gatsby osservava ogni notte sull’altro lato della baia era la luce del suo amore impossibile, forsennato, disperato, la luce della sua Daisy, ma era anche molto di più: “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato”. Il grande romanzo americano si conclude con queste parole. Manhattan continua a remare.
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