
Mikey Madison, vincitrice del premio come migliore attrice protagonista per "Anora" (foto Getty)
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Anna Karenina, quando te ne vai?
“Anora”, “Emilia Pérez”, “The Substance”. Tra i film agli Oscar ci sono sempre donne a cui la vita precedente presenta il conto. Solo una vince con irriverenza. Che cosa c’è di più interessante di una vita da romanzo russo?
Anora crede alla possibilità di una nuova vita. Emilia Pérez crede alla possibilità di una nuova vita. Elisabeth Sparkle (“The Substance”) crede alla possibilità di una nuova vita in un altro corpo, più giovane, più sodo, con la pelle più tesa e le labbra più turgide. Tutte sperano intensamente in qualcosa, hanno fiducia nella possibilità di qualcosa che assomiglia a un riscatto e lottano per averlo, per conservarlo.
In modi anche molto moderni, spaventosi, massacranti, in modi che gridano: finirà male, bellezza. In modi nuovi, che il cinema rende epici e che mi fanno battere il cuore ogni volta che mi siedo in quelle sale buie. Emilia, Elisabeth Sparkle e Sue, Anora: fra loro soltanto Anora, sex worker di Brooklyn che capisce la lingua del suo giovane innamorato oligarca per via di una nonna russa ma non ha nessuna intenzione di parlare russo, sfuggirà al finale rivisitato di Anna Karenina. Il finale ottocentesco in cui comunque, alla fine, la ragazza soccombe. Anna Karenina, Madame Bovary, tutte le donne che si sono ribellate a un’imposizione, a una consuetudine, a un mondo, che hanno imposto i capricci o la libertà (fa differenza?). Le grandi eroine che non ce l’hanno fatta. Simpatiche eh, per carità, però alla fine è meglio se muori perché hai esagerato. Non ci hai messo il buon senso di Jane Austen, la negoziazione, non sei rimasta dentro il recinto delle cose permesse. Solo Anora vince, facendoci ridere e commuovere tutti, uscendo di scena con dignità e dito medio alzato. L’attrice che la interpreta, Mikey Madison, ha vinto l’Oscar che molti speravano andasse a Demi Moore (bravissima, straziante, disperata Elisabeth Sparkle, tradita, vendicativa, nuda, con parti del corpo che si raggrinziscono come la matrigna di Biancaneve quando si trasforma in strega. Al posto del pentolone in cui avvelenare la mela, una siringa enorme che ancora mi fa rabbrividire).
Nei film di cui si è più parlato agli Oscar, e che hanno vinto tanti premi o che non hanno vinto quel che davvero meritavano, nei film che più ci hanno scosso, sconvolto, rotto il mare ghiacciato dentro di noi, ci sono ancora varie Madame Bovary: anche sotto forma di temibile, sanguinario narcotrafficante del cartello messicano che vuole sparire dal mondo e diventare una donna perché si è sempre sentito tale, e ritiene possibile che la sua vita d’ora in poi (con una grande fuga, un sacco di operazioni e un sacco di soldi) sia dolce come il miele, lontana dalla violenza. Quindi basta ammazzare, basta affari loschi, basta uomini cattivi, pelosi, armati, orrendi.
Emilia Pérez (è anche il titolo del film di Jacques Audiard) si veste di sete leggere e la sua voce è calda, usa il denaro per fare del bene, cerca relazioni profonde, ama follemente i suoi nipoti, cioè i figli che ha avuto nella vita precedente, e cerca di riscattare il mondo, o almeno il Messico e sé stessa. Fa del suo meglio, in modo quasi stucchevole, ingenuo ma pur sempre arrogante (vuole tutto), finché la vita precedente le presenta il conto e le ricorda chi è. Finché la vita precedente le dice: è ora che ti butti sotto il treno, Anna Karenina dei miei stivali (poi nella vita l’attrice che la intepreta, Karla Sofía Gascón, è stata eliminata dal mondo dei buoni per cose razziste dette – anzi scritte – nella vita precedente, quindi anche a lei, prima donna transgender a essere nominata all’Oscar, è stato presentato il conto).
Come succede ad Anora, come succede a Elizabeth Sparkle e a Sue di “The Substance”: l’ho visto in una prima fila proprio sotto lo schermo e nonostante il sangue, le ferite, la mostrificazione, l’horror che resta incollato addosso, nonostante i corpi che crollano rumorosamente sul pavimento del bagno, nonostante lo shock della scena in cui Demi Moore mangia il pollo con le mani guardando in tivù quella ragazza bellissima, giovane e stronza, l’altra parte della sua coscienza, la versione migliore di sé, e la odia a morte, quindi odia sé stessa a morte, ho pensato che di nuovo quella è la maledizione dei romanzi dell’Ottocento, in cui fuori dalle regole, ragazza, non ti puoi salvare.
Il più grande desiderio di Anora fa tenerezza: è andare in viaggio di nozze a Disneyworld con il marito sposato a Las Vegas, giovanissimo rampollo russo molto carino e svalvolato, a vedere “il castello di Cenerentola”, il suo più grande desiderio è la piccola favola di “Pretty Woman”, con aggiunta di cocaina, playstation, sesso da sballo, soldi a palate, colazione a letto, cocktail in piscina e pelliccia di zibellino. A casa, intanto, in periferia, sua sorella guarda la tivù incazzata nera.
Anora però ha il tocco magico: ha con sé la forza della giovinezza, ha la forza di una terza generazione sfacciata e capace di contare i soldi e il potere, nessuno la intimidisce, nessuno la ferma, nessuno le fa paura. Scalcia e strilla, prende a morsi le guardie del corpo per difendere quello che le spetta: la favola di Cenerentola. Se l’è guadagnata con il sesso, con il divertimento, se l’è guadagnata perché non ha niente di cui vergognarsi. Se l’è guadagnata perché, nonostante tutto, ci crede. E’ ribelle senza averci mai pensato, nessun uomo la turba, l’unica persona che la intimidisce è, ma solo per poco, la madre russa di questo fidanzato incapace e fragilissimo. Cerca di conquistarla, di riverirla, prova persino a parlarle in russo, ma capisce che può solo perdere, allora la manda al diavolo insieme al figlio sciroccato.
E’ quindi Anora, adesso, la nuova eroina che non vuole essere eroina di un bel niente, che non ha letto Anna Karenina né Madame Bovary, certo che no, e forse anche per questo nessuno può affibbiarle la fine tragica. Mattia Carzaniga ha scritto che gli Oscar ad “Anora” sono “la vittoria über indie, non scontata, di un film che in fondo resta una commedia – ma con il finale più struggente (e femminista senza strilli) degli ultimi anni”. Un film sorprendente come la sua protagonista, un film in cui lei non finisce sotto le rotaie del treno o divorata dal veleno, non muore nel bagagliaio di un’auto: evviva!
Le altre, purtroppo, finiscono sotto le rotaie. Sono a un passo dal riscatto, dalla vendetta, dal ribaltamento delle regole: ma alla fine le accettano, una dopo l’altra. Demi Moore accetta di essere disintegrata dall’ambizione della versione giovane di sé stessa, Emilia Pérez accetta di agire di nuovo come un narcotrafficante qualunque, e stavolta soccombe. Voleva essere dolce come il miele, voleva il lusso di rifiutare l’uso della forza, avendo la possibilità di sostituire la forza con i soldi, ma la sopraffazione ce l’ha ancora dentro, fa parte di lei, e la sopraffazione ti si rivolta contro. Ancora non le abbiamo perdonate, queste ragazze, ancora dobbiamo assistere al salto nel precipizio di Thelma e Louise (“Pretty Woman” è del 1990, “Thelma e Louise” del 1991).
Non sto dicendo che, dopo trentacinque anni, voglio sedermi in sala in attesa di un lieto fine a tutti i costi, e se penso a “Pretty Woman” non sono in grado di dire se in una vita adulta quello è un lieto fine o è sempre Cenerentola, “lui che salva lei, lei che salva lui”, eccetera eccetera, oppure è quella cosa che diceva Nora Ephron: “Non era previsto che noi donne avessimo un futuro, era previsto che lo sposassimo”, ma la prevalenza di Anna Karenina mi sembra ancora incrollabile. Mi hanno detto poi che un bel po’ di gente progressista e riflessiva voleva scappare dal cinema, scandalizzata, dopo i primi venti minuti di “Anora”, e allora capisco che dev’essere la nostalgia di Tolstoj.
Fino a ieri sera, quando sono andata a vedere “A real pain” (di e con Jesse Eisenberg, Kieran Culkin ha vinto l’Oscar come migliore attore non protagonista), pensavo che comunque non c’è niente di più interessante delle vite di donne, di questo riscatto continuamente cercato, voluto, sfiorato, mancato. Di questa vita precedente che ti presenta il conto. Di questo rapporto difficilissimo con il tempo che passa, con il potere che si perde, con la tentazione di Anna Karenina che è così difficile da strappare dal cervello. Di questo rapporto difficilissimo con lo sguardo di un uomo per tutto il tempo della vita (disgustosa, meravigliosa la scena di “The Substance” in cui Demi Moore, che ha compiuto cinquant’anni, viene licenziata a pranzo dal produttore, Dennis Quaid, che mentre le dice che è troppo vecchia per continuare a esistere sguscia e mangia avidamente dei gamberetti in un modo raccapricciante). Emilia Pérez diventa una donna, ma non riuscirà a eliminare quello sguardo. Anora, meravigliosa, può fregarsene di quello sguardo.
Poi mi sono seduta in sala, un’altra volta, come ogni volta disposta a cambiare idea su tutto: e i due cugini di A real pain mi hanno portato in Polonia, ma soprattutto dentro un’amicizia, un amore, un dolore, una fratellanza, un’insopportabile fragilità, e due letti singoli in un hotel di Varsavia. In nome del ricordo di una nonna polacca che una sera ha dato uno schiaffo al nipote più complicato e più carismatico, arrivato in ritardo di quindici minuti a cena. “Dio, è stato uno dei momenti più belli della mia vita, le importava davvero di me”.
E quindi di nuovo ho cambiato idea su tutto, e ho capito che anche i maschi sono Anna Karenina.


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