Magazine

I boss e la santa dell'antimafia

Riccardo Lo Verso

Perfido contrappasso: un mafioso si interessa all’archivio di Letizia Battaglia, fotografa di orrori e tragiche bellezze

Certo il destino è beffardo. I mafiosi che traccheggiano con gli scatti iconici dell’antimafia. Si avventano sull’archivio di Letizia Battaglia, manco fosse uno dei tanti, troppi cantieri dove bussano per imporre la messa a posto del pizzo. Sono fotografie che fanno parte del patrimonio collettivo, celebrate reliquie di una “santa” laica dell’antimafia. Il contenuto delle intercettazioni di una delle recenti indagini della Procura di Palermo ha sorpreso persino i poliziotti della squadra mobile che annotavano nei brogliacci, con le cuffie alle orecchie, i dialoghi dei vecchi padrini scarcerati. 

Neanche il tempo di godersi la ritrovata libertà dopo due decenni di detenzione e Franco Bonura, ultraottantenne palazzinaro mafioso del rione Uditore, era tornato a muoversi fra le macerie dell’esercito sconquassato dai blitz. Era il primo ad avere chiaro l’epilogo inevitabile a cui stava andando incontro e cioè il nuovo arresto. La summa del pensiero dei nostalgici boss è racchiusa nelle parole con le quali prendevano amaramente atto di avere le “microspie infilate pure nel buco del c…”. Non si sbagliavano, ma ritenevano di non avere altra scelta. L’errore era stato entrare in Cosa nostra. Da lì in poi il percorso diventava obbligato. Nessun ripensamento però, solo la constatazione di un mafioso incallito che non ha mostrato alcuna voglia di cambiare. Per Bonura vale il principio di sempre: da Cosa nostra si esce da morto o da pentito e l’idea di collaborare con la giustizia non lo sfiora.

In mezzo a storie di estorsioni e investimenti ecco spuntare l’intercettazione che non ti aspetti. Uno degli imprenditori siciliani più noti nel settore del caffè made in Italy, Rosario Marchese, chiese aiuto all’ottantaduenne Bonura per una faccenda singolare. L’archivio di Letizia Battaglia, così ricostruiscono gli investigatori, doveva essere suo. La morte della fotografa nel 2022 aveva aperto la questione dell’eredità fra le figlie, di cui una è sposata con Marchese. E Marchese, condannato ai tempi del maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si rivolse alla sua vecchia conoscenza Bonura. Non gli andavano giù le scelte testamentarie della suocera. Si spingeva a ipotizzare che Letizia Battaglia fosse stata “soggiogata” e “obbligata a firmare un testamento falso, cioè a modo loro”. Allora avrebbe deciso di provare a indirizzare con i metodi di Cosa nostra il lavoro del legale che faceva da arbitro nella “disputa tra gli eredi”. 

 

        

 

Il boss e l’archivio antimafia. Bonura si sarà dovuto turare il naso pur di aiutare un vecchio amico. Che interesse poteva avere Marchese? Impossessarsi degli scatti per cancellare la memoria della violenza mafiosa? Spingersi a ipotizzare un simile piano appare molto più che una forzatura. Un trofeo? Ricostruzione altrettanto pacchiana. Possedere le foto e lucrare sui diritti e sulle future mostre degli scatti? Le ipotesi pragmatiche sono quasi sempre le più attendibili. Oppure è semplicemente una storia di equilibri famigliari che entrano in crisi quando c’è di mezzo un’eredità. Perché anche a casa Battaglia le cose potrebbero essere andate come in mille altre famiglie. Marchese ha cercato di allontanare le pesanti ombre di mafiosità dalla vicenda. Il suo obiettivo era salvare, così ha detto, l’archivio e la memoria della suocera a cui voleva un gran bene. Sorseggiando un caffè (cos’altro?) con Bonura saltò fuori che il boss conosceva l’avvocato. Sarebbe intervenuto da amico, mica da mafioso.   

Non sappiamo come andò a finire. Il monitoraggio dei poliziotti non è andato oltre gli incontri nella torrefazione di Marchese e della moglie Cinzia Stagnitta nel centro storico di Palermo. Due anni fa le tre figlie di Letizia Battaglia hanno trovato un accordo. L’associazione gestita dai nipoti, i due figli di Patrizia, si occupa dell’archivio ma alcuni scatti sono andati in eredità alle altre sorelle, Shobha e Cinzia. Proprio come voleva Letizia Battaglia, che se andò una sera di aprile del 2022. Aveva 87 anni. Era stata una fotografa di mafia. Non avrebbe voluto però essere ingabbiata in questo cliché della memoria, ma sapeva di non potervi sfuggire. I mille morti ammazzati di Palermo, allora che tutto era pubblicabile senza filtri, finivano in bianco e nero in prima pagina sul giornale L’Ora dove Vittorio Nisticò l’aveva accolta nel 1969. Fu lei a presentarsi chiedendo di lavorare. La prima foto? Una prostituta assassinata dalla mafia perché spacciava senza permesso. Una donna la cui bellezza era stata annientata dal male. Sarebbe diventato il filo conduttore della narrazione e della ricerca di Letizia Battaglia che da quel delitto in poi non si è più fermata. Morti ammazzati colti un istante dopo la carneficina, deformati dal piombo e dai movimenti contorti nel tentativo di disperate fughe. Boss arrestati che sfilavano all’uscita di caserme e commissariati quando era possibile pubblicare le foto con i ferri ai polsi. Una schiera di volti in primo piano. Erano brutti, sporchi e cattivi e soprattutto veri

La vita era cadenzata dai blitz e dagli omicidi. La telefonata dal giornale o da una fonte e via, di corsa, in sella alla Vespa, per farsi largo tra la folla di curiosi con la sua Pentax K1000. Si ritrovò a tu per tu con Leoluca Bagarella il giorno che arrestarono il boss corleonese e cognato di Totò Riina. Lo descriverà come “un animale feroce” che tentò di scalciarla. Letizia Battaglia fece un passo indietro per non farsi colpire, perse l’equilibrio e cadde. Solo dopo avere scattato, però. Era il 1980, lo stesso anno di un altro omicidio, di un’altra foto entrata nella storia italiana. La mattina del 6 gennaio, Letizia Battaglia sta transitando in auto in via Libertà con il compagno di allora, il fotografo Franco Zecchin. C’è un nugolo di persone attorno a una Fiat 132. Hanno appena colpito il presidente della regione Piersanti Mattarella. Il fratello Sergio, oggi capo dello stato, tira fuori dall’auto il corpo senza vita. Letizia Battaglia fa una sequenza di scatti. Solo dopo capirà realmente cosa è accaduto.

 

                  

Lei non voleva essere solo una fotografa di mafia. Diceva che la mafia era stata “un incidente terribile durato molti anni” nella sua vita e in quella dei palermitani. Ammazzavano qualcuno e lei correva, ma dopo cercava la bellezza nei volti delle bambine e delle donne, nelle processioni religiose, nel degrado dei quartieri e nei salotti della borghesia, nei luoghi di una città che allora sembrava solo orribile. Cercare la bellezza nella disperazione e nella cattiva sorte. In questo la Palermo di allora che sembrava irredimibile, e per certi aspetti lo era davvero, è stato il migliore dei set possibili. In nessun altro luogo, così diceva, aveva trovato la stessa ispirazione. E non era una questione di sangue e male. Avrebbe potuto scegliere a un certo punto di vivere e lavorare a Londra, Parigi o New York. La sua fama era ormai consolidata, ma ammise che avrebbe smesso di riconoscere se stessa senza gli odori, i gesti e le voci della sua città a cui era morbosamente legata.

“La mia Palermo” ripeteva anche negli anni in cui lavorava a Roma e a Milano dove creò un’agenzia fotografica che ha fermato nel tempo i grandi fatti di cronaca e i volti più rappresentativi. Come il ciclo degli “invincibili” Che Guevara, Sigmund Freud, James Joyce, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Letizia Battaglia non si precipitò né a Capaci né in via D’Amelio. Non volle fotografare la morte della speranza. I corpi a brandelli, le strade bombardate come in guerra, fu troppo anche per lei che, sigaretta eternamente tra le dita, capelli di un rosa cangiante, non nutriva certo l’aspirazione di piacere a tutti. 

Anche la sua arte era divisiva. Lo fu ad esempio una delle sue ultime serie di scatti per la campagna pubblicitaria della Lamborghini. Le “sue bambine” erano ritratte davanti alle auto in piazza Pretoria dove ha sede il municipio di Palermo. “Piazza delle vergogna”, così la chiamano da sempre i palermitani non per la nudità delle statue che adornano la  fontana cinquecentesca bensì per la cifra esorbitante che il Senato palermitano sborsò per la sua realizzazione in un momento di carestia ed epidemie. “Vergogna” suscitarono in molti anche quelle foto che nelle intenzioni di Letizia Battaglia volevano essere l’immagine di una città che resiste orgogliosa. Forse le ricordavano il suo passato di sposa a sedici anni con tanto di fuitina e matrimonio riparatore con un uomo facoltoso che produceva caffè. Lei stessa raccontava che l’amore divenne insofferenza per quel mondo borghese da cui decise di allontanarsi. Furono giorni difficili, di instabilità anche psichica. 

Quei volti di ragazzine indifferenti al lusso dei bolidi a quattro ruote era un inno alla libertà e come sempre alla bellezza. E invece furono giorni di polemiche. Pesò anche la presa di distanza dell’allora sindaco, il suo “amato” Leoluca Orlando, da quelle foto che “usano il corpo delle bambine per fini commerciali”. Una frizione lungo un percorso condiviso dal sindaco antimafioso per eccellenza e dalla fotografa antimafia. Orlando scelse di ricorrere a una lettera per descrivere le ragioni della sua amarezza e al contempo ribadire che la richiesta di ritirare le fotografie non intaccava la sua “grandissima ammirazione e gratitudine” nei confronti di Letizia Battaglia, cantrice di una città. 

Hanno condiviso anche le idee politiche e la stagione della Primavera di Palermo. La fotografa della denuncia e dell’impegno civile e il professore che con la sua antimafia urlata faceva tremare la Democrazia cristiana di Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e Salvo Lima. Palermo si risvegliò davvero, ma le ferite del populismo, della criminalizzazione del dissenso che convinse Leonardo Sciascia a citare Orlando fra i professionisti dell’antimafia restano nelle viscere di una città che si lecca ancora le ferite. Seguiva una visione e ha finito per smarrirsi nell’inefficienza amministrativa. Orlando chiamò Letizia Battaglia come assessore al Verde nella sua giunta di fine anni Ottanta, poi la lanciò dal 1991 al 1996 come come deputata regionale della Rete, il movimento fondato dall’eterno sindaco di Palermo e oggi eurodeputato di Alleanza Verdi e Sinistra.

“Su questo spazio faccio sogni meravigliosi” volle scrivere Letizia Battaglia sulla parete del Centro internazionale di fotografia ospitato in uno dei padiglioni dei Cantieri culturali alla Zisa, dove un tempo si fabbricavano i mobili Ducrot. Il centro a lei intitolato ha perso la sua spinta. Non c’è più Letizia Battaglia e prevale il distacco con la città. Si parla di rilancio, nel frattempo ci sono evidenti tracce di disimpegno. I nipoti che gestiscono l’archivio fotografico valutano il gesto forte del ritiro delle foto della nonna esposte. 

Lo stesso archivio su cui traccheggiava il boss Franco Bonura nel più beffardo dei copioni. “Quando ho iniziato, nessuno mi considerava”, ricordava Letizia battaglia, “ma le mie fotografie rimangono, quelle di altri no”. Neppure il più feroce critico avrebbe potuto riservare post mortem a Letizia Battaglia il più perfido dei contrappassi. La mafia, bastonata ma pur sempre tentacolare, si è interessata agli scatti di colei che ne ha svelato, più di altri, l’orrore nella ossessiva convinzione che oltre il male ci fosse la bellezza.