Maria Callas e Pier Paolo Pasolini (foto Getty)

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Musiche corsare. Quante note nel cuore del cinema e della poesia di Pasolini

Alberto Mattioli

La canzone popolare, Bach, Morricone. Ma niente vocalizzi per la Callas in “Medea”. Roberto Calabretto firma un monumentale studio in tre volumi su Pasolini e la musica. Quella che ha usato e quella che ha ispirato

Sì a Bach, Mozart e Beethoven e alla musica popolare, no alla canzone standardizzata (“globalizzata” non si usava ancora), men che meno a Sanremo e figuriamoci a Canzonissima. Nì sul melodramma, prima osteggiato e poi tollerato, almeno dopo l’incontro con Maria Callas. Ma la musica, sempre, anche dove sembra che non ci sia, colonna sonora di vita e opere. “Io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”, scrive.

 

            

 

Pier Paolo Pasolini e la musica è un bel soggetto e adesso una serie in tre volumi di Roberto Calabretto, edita dalla Libreria Musicale Italiana. Il primo, dedicato a “Opere, brani da camera, canzoni, balletti” è appena stato pubblicato (600 pagine, 42 euro); il secondo su “Echi nella narrativa, nella poesia e nella riflessione teorica” arriverà verso giugno; il terzo, “Colonne sonore nel cinema”, in settembre. Il progetto è ciclopico, l’acribia e la competenza del curatore mostruose nel senso etimologico del termine. Calabretto insegna Discipline musicali all’Università di Udine, è presidente del Comitato scientifico della Fondazione Levi di Venezia ed esperto di musica da film. Di Pasolini sa tutto: del libro uno e trino dice che “ci lavoro da trent’anni e l’ho scritto in cinque”. Subito un paradosso: “La musica è forse l’unica arte che Pasolini non abbia praticato direttamente, a parte suonare un po’ il violino da ragazzo. Ma nel suo immaginario di intellettuale, regista, scrittore, pittore e poeta ha esercitato un fascino fondamentale. Quindi, ricostruire il rapporto di Pasolini con la musica è una chiave privilegiata per accedere al suo pensiero”.

Andiamo per ordine, allora. Il primo tomo esplora PPP come “oggetto” della musica, ispiratore di opere liriche, balletti, canzoni, brani strumentali e così via. Un censimento che lo stesso Calabretto definisce “titanico”: “Pasolini è stato un punto di riferimento per operisti come Adriano Guarnieri, Sylvano Bussotti o Giorgio Battistelli. Ma anche nella musica pop: Patti Smith ha sempre dichiarato di averlo considerato una fonte di ispirazione. E pensiamo a Fabrizio De André, a Francesco De Gregori, indirettamente anche a Giorgio Gaber. Forse una sorpresa sarà poi scoprire quanto Pasolini abbia ispirato i coreografi: da Maurice Béjart a Virgilio Sieni”. Resta da capire perché PPP abbia potuto affascinare personaggi così diversi… “Le ragioni sono almeno quattro. La prima: Pasolini visto come poeta civile, intellettuale impegnato, portatore di un insegnamento cui si continua a fare riferimento, evidente per esempio nelle opere di Guarnieri. Seconda, le risposte che Pasolini, da sensibilissimo lettore dell’evoluzione della società italiana del secondo Dopoguerra, ha saputo dare a temi come l’omologazione culturale o il progresso senza sviluppo.

Sono gli argomenti degli Scritti corsari che echeggiano in molte opere musicali. Terza ragione: il compositore Alessandro Solbiati ha detto che la poesia pasoliniana è musica di suo. Dunque, per molti musicisti è stato naturale cogliere le risonanze musicali che quei versi hanno. Quarta: la riflessione pasoliniana sul corpo come santità della vita ha ovviamente attratto il balletto, penso anche a Roland Petit. C’è anche il cinema: Sieni, forse il più pasoliniano dei coreografi, ha realizzato un balletto sul Fiore delle mille e una notte”. Poi c’è la questione della morte di PPP, una storia infinita che sembra procedere nell’eterno ritorno di rivelazioni e polemiche sempre nuove e sempre uguali. E qui Calabretto è scettico, “perché il tema è stato trattato spesso, ma aggrappandosi a un’immagine superficiale, cronachistica o scandalistica, la notte dell’Idroscalo come fatto di nera”. Da aggiungere al catalogo anche chi ha preso in esame il rapporto di PPP con Bach (ci si tornerà, perché è fondamentale), come Azio Corghi in Tra la carne e il cielo. E si scopre che anche Hans Werner Henze amava Pasolini e aveva pensato a un’opera su Teorema che poi non scrisse, mentre l’ha composta Battistelli.

Nel secondo volume, il rapporto fra PPP e la musica. “Ne ha parlato spesso, evocandola in situazioni molto diverse. I testi narrativi e poetici sono pieni di suggestioni musicali. Nelle sue poesie, Pasolini coglie la realtà in termini acustici: il suono delle campane di Casarsa nei primi anni del Dopoguerra, i rumori della campagna o di Roma. Oggi si parla moltissimo di ‘paesaggio sonoro’: l’espressione a quei tempi non esisteva, ma attraversa tutta l’opera poetica di Pasolini. Quanto alla narrativa, troviamo un’infinità di canzoni, a cominciare da quelle popolari friulane nel Sogno di una cosa. I due romanzi ‘romani’, Una vita violenta e Ragazzi di vita, sono uno straordinario repertorio della musica che circolava allora nella capitale, specie nelle borgate: tanto Claudio Villa, le ultime canzoni della tradizione popolare, le prime importate dall’America. Zoccoletti, zoccoletti intonata dai borgatari è quasi il leitmotiv di Ragazzi di vita”.  

E qui occorre un pit stop sul rapporto di PPP con la canzone, italiana e no. Come si è detto, detestava Sanremo. Precisa Calabretto: “Sul Festival scrisse alcuni articoli velenosissimi dove esordisce dicendo che bisogna chiuderlo. Considerava ridicoli i testi e Sanremo come una degradazione della vera canzone popolare”, e qui va chiosato che forse, alla fine, ha vinto Sanremo, ancora lì nonostante tutto e tutti, benché sulla qualità artistica avesse probabilmente ragione PPP. “Pasolini era violentissimo anche nei confronti di Canzonissima, emblema del qualunquismo e dell’omologazione, di cui odiava soprattutto i balletti. Però detestava Raffaella Carrà ma non Mina”.

 

“Su Sanremo scrisse alcuni articoli velenosissimi dove esordisce dicendo che bisogna chiuderlo. Considerava ridicoli i testi”

                   

Tuttavia, PPP non si limitò a criticare, partecipando a un dibattito sull’italica canzonetta con Moravia e altri che ebbe una grandissima eco sulla stampa, perché sembrava eccentrico, o frivolo, che degli intellettuali disquisissero di un argomento così cheap. “Nel 1956, con Mario Socrate e altri, scrisse un articolo, Le parole dei poeti, invocando dei testi da musicare che esprimessero i sentimenti popolari e non la stupidità grottesca della rima cuore/amore. Quest’esperienza confluirà nelle poesie che Pasolini scriverà per Laura Betti per lo spettacolo Giro a vuoto. Betti era terribile, prepotente: Arbasino e Moravia ne erano letteralmente terrorizzati, ma dovettero contribuire anche loro. Però quello spettacolo fu molto interessante e decisamente pasoliniano”.

Il terzo volume tratta delle colonne sonore dei film di Pasolini. Calabretto è categorico: “Sono uno spartiacque nella musica per film, come diceva anche Ennio Morricone. In Accattone, Pasolini ha fatto diventare Bach un compositore cinematografico. Bach era forse il musicista che Pasolini conosceva meglio e lo considerava, intuizione davvero straordinaria e straordinariamente in anticipo sui tempi, un compositore della carne e non solo dello spirito. L’uso della sua musica in Accattone ha un effetto dirompente e infatti sconvolse il pubblico dell’epoca. Nella sterminata rassegna stampa sul film, conservata alla Cineteca di Bologna, non c’è una sola recensione in cui non si parli dell’uso della musica. Cosa c’entra Bach con le vicende di un delinquente, di un pappone? Pasolini usa Bach perché sente che in quelle vite sottoproletarie si nascondeva una sacralità: e la esprime con la musica. E tuttavia qui la musica non è un commento o un accompagnamento com’era la regola nel cinema di allora: è un agente che fa lievitare le intenzioni delle immagini. Non capire perché in Accattone Pasolini ha usato Bach significa non capire il film”. Poi c’è l’incontro con Morricone, chiosa Calabretto “a mio avviso con Pasolini ai suoi massimi livelli, a partire da Uccellacci e uccellini dove c’è un altro episodio geniale: i titoli di testa cantati da Domenico Modugno su una musica, appunto, di Morricone. Si tratta di un’invenzione senza precedenti, nella semiologia cinematografica un fatto del tutto nuovo. Morricone è un musicista di primissimo piano, ma nelle colonne sonore scritte per lui si sente sempre la ‘mano’ di Pasolini.

 

“Non capire perché in ‘Accattone’ ha usato Bach significa non capire il film”. La “mano” del regista che si sente nelle colonne sonore di Morricone

         

Nella cosiddetta ‘trilogia classica’, dunque Edipo Re, Medea e Appunti per un’Orestiade africana viene usata la musica popolare per una destoricizzazione del mito: la musica popolare come musica ‘senza tempo’ e senza autori, alla fine ancestrale appunto come il mito. Nell’Orestiade c’è addirittura una jam session con Gato Barbieri che improvvisa con il sassofono. Musica popolare anche nella ‘trilogia della vita’, cioè Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore. Le scelte musicali di Pasolini sono segnate da un’autorialità enorme, si sente che dietro la scelta dei brani, l’idea della musica e la sua fusione con le immagini c’è sempre lui. Anche un grandissimo musicista come Morricone si è messo al servizio dell’autorialità forte di Pasolini, che è da considerare a tutti gli effetti il coautore delle colonne sonore dei suoi film”. Non sarà stato facile, per i musicisti… “Ho fatto in tempo a conoscere e intervistare Carlo Rustichelli che curò le musiche di Accattone. Raccontava: mi proposero di scrivere per il film di questo regista esordiente. Ci incontrammo e mi diede dei dischi di Bach: ecco, la colonna sonora è questa. Ero sbalordito: ma come, non devo scriverla io? E Pasolini: no, dobbiamo scegliere insieme i brani, la colonna sonora sarà basata su questo repertorio”. Pasolini, insomma, aveva le idee chiarissime… “Già le sceneggiature sono piene di riferimenti musicali. E la loro realizzazione è quanto di più lontano da quel che si faceva nel cinema italiano dell’epoca, quando il compositore veniva chiamato a film già finito e anzi montato, glielo si faceva vedere e gli si chiedeva di commentare le immagini. Per Pasolini è del tutto diverso: la musica è una preoccupazione che lo interpella da quando il film lo sta soltanto immaginando”. 

Ma Pasolini era musicista? O almeno la musica la leggeva? “C’è una foto di lui ragazzino con un violino sotto il braccio. Da giovane prendeva lezioni di violino, quindi si può supporre che sapesse leggere la musica. Pina Kalc, la violinista slovena che gliele diede, mi raccontò che spesso lei e Pier Paolo suonavano insieme. Ma, e questo è un fatto interessante, il giovane Pasolini non aveva molta voglia di suonare: preferiva ascoltare. Di suonare si stancava presto; di ascoltare, mai. Aveva una grande predisposizione all’ascolto, un fatto fondamentale, che spiega quell’attenzione al paesaggio sonoro che abbiamo già visto. Possedeva una collezione di dischi, oggi conservata al Gabinetto Vieusseux e in generale direi che la musica non la praticava ma la conosceva. Negli anni di Casarsa, scrisse diversi testi su Bach. Mozart glielo fece conoscere Elsa Morante e c’è una lettera in cui Pasolini parla di Beethoven e mette a confronto la musica assoluta della Settima sinfonia con quella ‘a programma’ della Pastorale, scrivendo che preferisce la prima perché ‘è tutta musica’, senza descrittivismo. Insomma, il panorama musicale è Bach, Mozart, Beethoven, la musica popolare e la canzone”.

E qui stupisce, e molto, la relativa sordità al melodramma, che nel Dopoguerra era ancora quell’arte nazionalpopolare di cui parla Gramsci e che quindi avrebbe dovuto, almeno, intrigarlo… “Credo che in realtà l’opera lirica sia rimasta un oggetto che conosceva poco e quindi poco gli interessava. Da giovane vide un Trovatore, e non gli piacque. In generale, sull’argomento fa delle affermazioni un po’ superficiali, poco a fuoco. E’ proprio il rapporto fra musica e poesia del melodramma a non convincerlo: per esempio, della Traviata scrive che la musica crea una dilatazione semantica nei confronti della parola. E’ molto significativo quel che dice del Pelléas et Mélisande, esprimendo apprezzamento per come Debussy risolve il rapporto musica e poesia, e infatti la prima è certamente molto meno invasiva che nell’opera italiana. Insomma, era una cultura distante dalle sue corde. Però, come ricordava Enzo Siciliano, quando iniziò a frequentare Maria Callas si avvicinò a Verdi e cominciò a modificare le sue convinzioni”.

 

“E’ il rapporto fra musica e poesia del melodramma a non convincerlo”. Ma con la Callas si avvicina a Verdi e cambia alcune sue convinzioni

           

Già, la Callas. “Medea è un film singolare, dove ci sono pochissimi dialoghi e dove la colonna sonora non è l’opera, ma i canti popolari dell’Est europeo. E tuttavia Pasolini sceglie come protagonista un soprano famosissimo, anzi il più celebre del mondo. Ma Callas non gli interessa per questo e nemmeno per la voce. A lui interessa il suo volto, la sua ‘bellezza barbarica’, appunto da sacerdotessa della Colchide, e che del resto nel film riprende in maniera straordinaria. Così Pasolini diventa ‘celui qui ne fait pas chanter Maria Callas’, come scrisse un critico francese. L’aspetto barbarico, mitico e sacerdotale della Callas rifulge nella scena in cui Medea è appena fuggita con gli Argonauti e corre intorno come impazzita, in un luogo che non ha centro. Gli Argonauti sono il mondo moderno, l’innovazione tecnologica, il sedicente progresso: la sacerdotessa della Colchide non ci si può riconoscere. Basta vedere questa scena per capire quanto Pasolini abbia avuto ragione a scegliere il più grande soprano del mondo, e poi a non farla cantare”.