Un'edizione della "Repubblica delle idee" a Genova (foto LaPresse)

Con la crisi del salvinismo, Repubblica torna alla ricerca di una propria identità

Michele Masneri

Dal racconto della politica all'incrocio con il destino della sinistra. Com'è cambiata la creatura di Eugenio Scalfari, che da giornale di sistema vuole ritrasformarsi in giornale-partito. Parlano Lucia Annunziata, Mattia Feltri e Pierluigi Battista

Roma. Quella di Carlo De Benedetti ai figli pare l’offerta più pazza del mondo: e però si capisce la nostalgia per un mondo in cui non solo i giornali si vendevano a bizzeffe, ma dove Repubblica aveva fatto una rivoluzione e dettava la linea. Il mondo di oggi, coi giornali in crisi e con la sinistra che non si sente tanto bene, è tutto diverso. “Eugenio Scalfari ha creato un giornale diverso da tutti gli altri”, dice al Foglio Mattia Feltri, editorialista della Stampa. “Ha cambiato il racconto della politica. Pochi se lo ricordano, ma all’epoca la cronaca politica era fatta di lunghi e distaccati resoconti, e qualche commento in punta di penna. Scalfari comincia invece a dare del tu alla politica, e il giornale comincia a influire”. E’ d’accordo Lucia Annunziata, a Repubblica negli anni Ottanta e oggi direttore dell’Huffington Post, quotidiano online costola di Largo Fochetti. “Io scoprii Repubblica dall’interno del movimento studentesco, e fu una rivoluzione”; dice Annunziata. “Repubblica cambiò il linguaggio del racconto politico, arrivò Carlo Rivolta a raccontare gli studenti nel ’77, per la prima volta veniva descritto per esempio come erano vestiti. Una cosa che all’epoca sembrò molto borghese, ma aveva cambiato tutto. Repubblica divenne il primo giornale che i militanti potevano leggere (non si poteva certo leggere, almeno ufficialmente, il Corriere). Fu un esperimento. Era il racconto della realtà”.

 

Annunziata arrivò a Repubblica nel 1981 proveniente dal manifesto e, occupandosi di esteri, mentre era “in Centroamerica a seguire le rivoluzioni, a un certo punto arriva un lunghissimo telex da parte di Eugenio Scalfari, che io non avevo mai conosciuto. Erano una serie di considerazioni e correzioni lessicali. Non si doveva scrivere ‘combattenti’ ma ‘guerriglieri’, e nel caso ‘terroristi’: insomma per la prima volta capii come funzionava un grande giornale di sinistra ma non militante”. Il racconto della politica a un certo punto diventa però “la politica”, c’è un’identificazione quasi totale. Questa identificazione prosegue per tutta la Prima Repubblica e ha il suo apice in Tangentopoli, quando, dice Feltri, “Rep. contribuisce alla demolizione della politica con Mani pulite”. “E da Mani pulite in poi Rep. si pone al comando, diventa giornale-partito. Diventa il capo della politica italiana e della sinistra italiana. Nella Seconda Repubblica a dettare l’agenda della sinistra non erano certo D’Alema o Veltroni. Era Repubblica”. “Mano a mano che la sinistra si indebolisce, il ruolo del giornale cresce ancora. Un ruolo che si conferma con Ezio Mauro, che guida il giornale dal 1996 al 2016, mentre il direttore successivo, Mario Calabresi, propone un giornale più distaccato. Ma oggi quando De Benedetti dice che è contento del ritorno di Verdelli è comprensibile. La Repubblica di oggi può piacere o meno, ma è chiaro che sta cercando di ritrovare quella centralità. E’ tornato a essere il riferimento di un mondo”.

 

Poi se quel mondo esiste ancora, è da vedere. “Di sicuro – continua Feltri – oggi è più difficile che in passato fare un giornale di sinistra, o di destra, perché a sinistra hai i Cinque stelle, e a destra la Lega, corpi estranei che hanno scombussolato il panorama politico italiano. Sarebbe molto più facile fare un giornale liberale. E però Repubblica è tornata ad avere una visione del mondo, e questo è fondamentale. I giornali che seguono l’equidistanza finiscono spesso con il generare confusione”. E’ d’accordo Pierluigi Battista, storica firma del Corriere della Sera: “Oltre a essere un giornale di informazione, Rep. è sempre stato un giornale di identità; non è veramente un quotidiano che battaglia con gli altri per avere una notizia; piuttosto, è storicamente abituato a dare patenti di bontà e di cattiveria. I cattivi di volta in volta sono stati Cossiga, Craxi, Berlusconi”. Per Battista, “la crisi di Repubblica nasce per due ragioni: la prima è sistemica, oggi nessuno sotto i trent’anni compra un quotidiano”, l’altra è psicopolitica. “Con Calabresi il giornale si è scolorito, non nel senso peggiorativo, ma ha perso quella connotazione manichea e battagliera che lo contraddistingueva. Quella delle dieci domande a Berlusconi. Era un giornale di campagne: in un modo intelligente, naturalmente; cosa che le aveva permesso in quella fase mitica di fagocitare tutti gli altri giornali di sinistra, dall’Unità a Paese Sera al manifesto”.

 

Poi è arrivata la crisi, appunto, che si accompagna a quella della sinistra italiana: “Repubblica a un certo punto diventa come il Pd: una presenza molto di sistema, molto di establishment, molto minoritaria. Adesso Verdelli sta tentando di ritornare a un modello di nuova rilevanza, cambiando un po’ gli ingredienti. Con Ezio Mauro c’era Zagrebelski, c’era l’azionismo torinese, adesso c’è molta Lotta continua: Gad Lerner, Luigi Manconi, Enrico Deaglio”. Ora è difficile trovare una nuova ricetta: “Con Salvini, la Repubblica di Verdelli ha tentato di fare quello che i giornali liberal americani hanno fatto con Trump”, dice ancora Battista. “Cavalcando l’antisalvinismo come l’antitrumpismo che in America ha funzionato per risollevare le sorti dei giornali. Ma adesso è finito anche il salvinismo (almeno per il momento, perché non credo che sia finito per niente). Ora che c’è questo governo, un governo che non è che susciti entusiasmo sfrenato, non è certo il governo dell’Ulivo, bisognerà vedere come va”. “Negli anni i destini di Repubblica e della sinistra italiana si sono intrecciati e la situazione è diventata molto osmotica”, dice Lucia Annunziata. “La crisi di Repubblica di oggi però è duplice: sarebbe stupido dire che dipende dalla crisi della sinistra. Piuttosto ne è uno specchio. Dall’altra parte è una crisi di modernità, di sistema. Non credo che gli editori italiani si siano ancora resi del tutto conto del cambiamento che è avvenuto. In generale la crisi è dei giornali: “Noi dell’Huffington Post siamo aperti da sette anni e in pareggio di bilancio da tre”, conclude Annunziata. “Ed è vero che in America giornali come il Washington Post e il New York Times hanno beneficiato dell’effetto Trump: ma hanno soprattutto visto fortissimi investimenti”. Insomma, va bene la nostalgia, ma forse per ripensare un giornale veramente contemporaneo, di destra o di sinistra, servono anche prosaicamente dei denari.