Una cintura di Möbius, un nastro di seta
Il progetto cinese della “One Belt One Road”, una cintura una strada, concepito per far rivivere le antiche vie della seta sembra non conoscere confini. Il limite è proprio questo
Più che una cintura è un nastro di Möbius. Il progetto cinese noto come Obor, ossia One Belt One Road, una cintura una strada, concepito per far rivivere le antiche vie della seta, marittime e terrestri, in un network di commerci e infrastrutture tra Asia, Europa ed Africa, si è intrecciata ad altre vie, quella dell’incenso, dell’ambra, delle spezie. È divenuto una ragnatela. Ma poi anche questa immagine è stata superata. La Obor, ormai, appare più come un nastro di Möbius - una figura geometrica rappresentata da una superficie allungata ritorta di centottanta gradi, con una sola faccia e un solo bordo - che rimanda al concetto di infinito.
Lanciato nel 2013 dal presidente Xi Jinping, l’Obor si sviluppa in 65 nazioni che totalizzano un terzo del Pil globale e ha il supporto di oltre 100 nazioni e organizzazioni internazionali, 40 delle quali hanno stipulato accordi di collaborazione con la Cina. Nel 2016 il commercio tra Cina e le nazioni comprese nell’Obor ha totalizzato 913 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi, secondo un report di Credit Suisse ammontano a 500 miliardi.
I progetti realizzati, in avanzamento, allo studio o solo sognati si articolano in una serie di corridoi economici e infrastrutturali: il New Eurasian Continental, il Cina-Mongolia-Russia, il Cina-Indocina, il Cina-Asia Centrale-Asia Occidentale, il Cina-Pakistan e il Bangladesh-Cina-India-Myanmar.
Il “pivot” (ormai questo termine è più cinese che americano) dell’Obor, almeno secondo un rapporto di Stratfor è centrato in Sud-est asiatico, in particolare nella Greater Mekong Subregion. In quest’area si intrecciano corridoi economici, connessioni stradali e ferroviarie da nord a sud e da ovest a est attraverso Singapore, Malaysia, Thailandia, Laos, Birmania, Cambogia, Vietnam. L’obiettivo è molteplice: connettere la Cina ai porti dell’Oceano indiano (evitando quindi il passaggio degli stretti), esercitare un maggior controllo sul Mar della Cina, creare una zona d’influenza economica. Negli ultimi tempi, poi, con l’ennesima deviazione dalle vie originali, l’Obor sta raggiungendo le Filippine, dove la Cina finanzierà i megaprogetti promessi dal presidente Duterte (in cambio di una politica di non interferenza nel Mar della Cina).
“Xi Jinping vuole rendere grande la Cina sulla scena internazionale” ha scritto Tom Miller, autore di China’s Asian Dream: Empire Building Along the New Silk Road. “Vuole che la Cina abbia il predominio in Oriente, come gli Stati Uniti in Occidente”.
In realtà le ambizioni sono più vaste. “Non poniamo precisi confini geografici all’Obor” ha dichiarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. “Nella sua essenza è un progetto di cooperazione internazionale e deve essere aperto a tutte le nazioni e regioni che la pensano così”. Come la Finlandia, ad esempio, che si sta accordando per un “Corridoio Artico”, una ferrovia che dovrebbe connettere la Cina col Nord-Europa e, soprattutto, i porti sull’Oceano Artico.
Ma i confini dell’Obor non sono delimitati dalle coordinate geografiche terrestri. Si proiettano anche sullo spazio esterno con il “Belt and Road Space Information Corridor”. La Cina, infatti sta progettando e realizzando un’infrastruttura di satelliti che possa sostituire il sistema di geo localizzazione Gps con il suo Bds, Beidou Navigation Satellite System da utilizzare in tutte le “economie affiliate”.
“L’immagine che la Cina vuole trasmettere al mondo è che la Obor non è solo cinese. È di tutto il mondo” ha dichiarato Zhang Yansheng, ricercatore del China Center for International Economic Exchanges.
Il “Sogno Cinese” di Xi Jinping, insomma, non è semplicemente un progetto di sviluppo. Riecheggia antiche memorie di quando la Cina era la fonte di ogni innovazione, dava il suo “indelebile contributo” alla civilizzazione. È il sogno del “grande risveglio della nazione cinese”. L’obiettivo finale è quello che i media cinesi hanno battezzato “Globalizzazione 2.0”.
In questo percorso senza confini il rischio maggiore è sintetizzato dal “paradosso della carta geografica”. Attribuito a Lewis Carroll, afferma che, se la mappa contiene tutti gli elementi del territorio finisce per coincidere con esso. Dunque non esiste.