La democrazia di Schrödinger
Paradossi e contraddizioni del Sud-est asiatico, una regione dove la geopolitica è una realtà alternativa, trama per thriller e fantascienza
La democrazia in Sud-est asiatico è un po’ come il gatto di Schrödinger. Secondo il fisico austriaco noto proprio per il suo paradosso del gatto, è l'osservazione che determina il risultato dell’osservazione stessa. Il suo esperimento teorico è apparentemente semplice: supponiamo di avere un gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo può fare o non fare da grilletto all’emissione di un gas velenoso. Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa, il gatto può essere sia vivo sia morto.
Come il gatto di Schrödinger la democrazia nel sud-est dell’Asia (e nella maggior parte del continente) si trova in uno stato indeterminato, esiste e non esiste. Secondo l’EIU Democracy Index, che misura il grado di democrazia su una scala da 0 a 10, negli ultimi dieci anni la media asiatica è passata da 5.05 a 5.41. In alcuni paesi, come il Myanmar, nel 2015 si sono svolte le prime elezioni multipartitiche dopo vent’anni di dittatura. Negli ultimi anni, tuttavia, si è verificata una forte regressione in molti paesi: in Thailandia, in Cambogia, nelle Filippine. In altri, come la Malaysia o l’Indonesia si rafforzano i movimenti islamici più ortodossi, mentre l’Isis sta reincarnandosi nell’Isil, lo stato islamico del levante. Quasi ovunque le società si basano su sistemi di caste, clan, gruppi etnici o religiosi che, per l’ennesimo paradosso, al primo accenno di democrazia si sono politicizzati e radicalizzati.
I megatrend elaborati dalla Asian Development Bank indicano che nel prossimo futuro il 60% del mercato globale sarà asiatico e dobbiamo quindi immaginare un “Post-Western World”. Alcuni paesi sono passati dallo stato di sottosviluppo a quello di middle income , altri potrebbero raggiungere l’obiettivo entro i prossimi dieci anni. Un passaggio, però, che comporta molti rischi: secondo un rapporto del dipartimento di stato statunitense sui crimini finanziari, Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine, Cambogia, Myanmar, Vietnam e Laos sono tra i maggiori centri per il riciclaggio di denaro sporco e l’Isil utilizza le istituzioni finanziarie asiatiche come nuovo deposito fondi. Secondo Jeremy Douglas, capo dell’Office of Drugs and Crime dell’Onu (Unodc) in Sud-est asiatico, i cartelli della droga fatturano più del prodotto interno lordo di molti paesi. Un fenomeno creato sia dall’elevatissima richiesta di metanfetamine, consumate per resistere a infernali ritmi di lavoro, sia dalle milizie etniche che si finanziano col traffico. Nel frattempo lo sviluppo economico alimenta e si alimenta nella crescita dell’urbanizzazione (più rapida che in ogni altra parte del mondo) e nella formazione di megalopoli destinate a creare nuove sfide strutturali e climatiche.
Il paradosso, dunque, diviene la regola del “Nuovo Secolo Asiatico” teorizzato dal Kishore Mahbubani della Lew Kuan Yew School of Public Policy di Singapore, profeta della Global-as-Asian, una globalizzazione che ha il suo centro in Oriente e dalle caratteristiche asiatiche. Solo che in questa parte del mondo non è un paradosso, bensì la conferma di una logica circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto. Qualcosa che va contro uno dei cardini della logica classica, aristotelica, il principio di non-contraddizione.
In realtà, come nel caso del gatto di Schrödinger, tutto dipende da chi osserva. In molti casi, infatti, l’osservatore occidentale rifiuta la possibilità dell’indeterminatezza, vuole salvare il gatto aprendo la scatola. E, così, spesso, lo ritrova morto. Altri, invece, tentano di convivere con questa ambiguità, di metabolizzare il dubbio.
È il caso di Michael Vatikiotis, giornalista che opera in Sud-est asiatico dal 1987. Nel suo saggio-reportage Blood and Silk: Power and Conflict in Modern Southeast Asia analizza i veleni che intossicano la regione. La sua è una visione drammatica, sintetizzata da un proverbio cambogiano “Quando l’acqua è alta i pesci mangiano le fomiche. Quando l’acqua è bassa le formiche mangiano i pesci”. Eppure, proprio per il suo essersi calato nella cultura che vive, Vatikiotis riesce a cogliere qualche segnale positivo. Che non proviene dall’esterno bensì dalla società civile locale.
Ma forse i paradossi e l’indeterminatezza sono destinati a restare insoluti, vero mistero di un’Asia che resta scenario perfetto per trame in cui si confondono utopia e distopia, vita morte e rinascita, realtà alternative. È la visione che per gli occidentali continua a essere la più semplice e affascinante: quella del Dark Karma, il karma oscuro. Come quella della Bangkok che fa da sfondo al film con questo titolo, un thriller in stile Pulp Fiction, la cui sceneggiatura è stata scritta da Don Linder, che da quasi vent’anni vive in Thailandia.
Ancor più inquietante la trama di Mom, romanzo di fantascienza scritto da Collin Piprell, altro veterano dell’Asia. In questo caso Bangkok è una delle ultime enclave, i mall, in cui sono confinati gli esseri umani sopravvissuti a catastrofi ecologiche ed epidemie sotto il controllo di un misterioso Mom, Mall Operations Manager. Un futuro collocato nel 2050, un anno dopo quel 2049 del secondo Blade Runner, altro film le cui scene sono pervase da richiami orientali.
In Sud-est asiatico, intanto, siamo già nel 2560. Il calendario, infatti, parte dalla nascita del Budda, che si fa coincidere, in funzione simbolica, con quella della sua illuminazione e della sua morte. Ricorrenza celebrata con la festa del Vesak che, secondo gli studiosi buddisti, segna l’inizio di una nuova era nella civiltà umana.
Chissà se il gatto è vivo o morto.