L'ombra delle mille luci di Bangkok
Dopo un anno, con le spettacolari cerimonie di cremazione, in Thailandia si è concluso il lutto per la morte di re Rama IX. Ma il lutto è stato davvero elaborato? Cosa accadrà dopo questo ennesimo rito di passaggio?
A mezzanotte di domenica 29 ottobre in Thailandia si è ufficialmente concluso il periodo di lutto per la morte di re Rama IX, Bhumibol Adulyadej, scomparso il 23 ottobre 2016. Nel corso di quest’anno il lutto si è manifestato con diverso rigore: strettissimo nel mese seguente la sua scomparsa e nei giorni delle cerimonie di cremazione tra il 25 e il 29 ottobre. Bangkok in quei periodi è divenuta una città in nero. Nero l’abbigliamento della maggior parte della popolazione e dei manichini nelle vetrine, in bianco e nero le immagini elettroniche dei grandi cartelloni pubblicitari, le trasmissioni tv, molte homepage sui social media. Era diventata anche silenziosa, almeno rispetto alla standard del rumore di fondo urbano: i bar e i locali non potevano diffondere musica all’esterno e i battelli turistici che di notte percorrono il fiume non risuonavano di canzoni popolari indiane, cinesi o russe (secondo i gruppi a bordo). Durante l’anno trascorso le feste sono state celebrate sottotono: che fosse il Natale, i capodanni (occidentale, cinese e thai) e tutte le innumerevoli ricorrenze di ogni rito che segnano il calendario thai.
Poi, come se alla mezzanotte di domenica 29 fosse scattato un interruttore quantico, tutti i sistemi si sono immediatamente e contemporaneamente riaccesi, ricolorati, risintonizzati, riamplificati. E si comincia a pensare alle feste (di fronte ai grandi centri commerciali si stanno già allestendo enormi alberi di Natale).
E così, per un occidentale, com’era difficile comprendere l’estensione del lutto, nel tempo e nei modi, altrettanto lo è capire questa istantanea rimozione del lutto. In realtà le due cose non sono in contraddizione. Nella cultura thai - e più in generale in quella del sud-est asiatico – il lutto è uno dei tanti riti di passaggio che segnano il samsara, il ciclo di vita, morte e rinascita. Un rito che permette di elaborare la perdita in modo compiuto e quindi, una volta concluso, di riprendere la vita. Tanto che, secondo la tradizione thai, una volta concluso il periodo di lutto, mostrarne ancora i simboli è di cattivo auspicio.
Lo si potrebbe anche interpretare secondo le analisi de La Saggezza Orientale che tanto ha influenzato il pensiero di Carl Gustav Jung: l’uomo è in grado di aprirsi alla vita, e quindi di goderla veramente, solo quando diviene capace di accogliere dentro di sé la morte. E’ un’idea che si accorda molto bene con un altro concetto base nello stile di vita thai: il “sanuk”. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo, che abbraccia il senso del divertimento, la disponibilità a divertirsi. In termini che riecheggiano le filosofie orientali si può definire “la via della gioia di vivere”. Sono riflessioni ricorrenti in chi si immerge nella realtà thai, soprattutto a Bangkok.
Scrive Tew Bunnag, di nobile famiglia thai, romanziere e maestro di arti marziali: “Si trova conforto nella decadenza. E’ come confrontarsi con la prima nobile verità insegnata dal Budda: il Dukkha, ciò che segna la nostra esistenza, l’ineluttabile realtà della sofferenza...Quando sei così vicino al dukkha non hai bisogno di alcuna scusa. Tutto si sgretola e tu fai del tuo meglio per afferrare ogni momento di piacere".
Ma la miglior descrizione delle contraddittorietà di Bangkok appare nel romanzo di Tom Robbins, Villa Incognito: “Bangkok, come nessun altra metropoli, sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. E’ una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale. I suoi templi sono oscurati da nuvole di gas di scarico, i suoi innumerevoli vizi e crimini da sorrisi di tenera delizia; e attraverso tutto questo Bangkok riesce a mantenere l’equilibrio più aggraziato, di una grazia resa non meno genuina dal fatto di essere ben studiata, né meno pura per essere e sostenuta da truffatori e prostitute”.
Eppure, nonostante tutte queste considerazioni alla ricerca di un significato, di una spiegazione oltre l’apparenza, c’è qualcosa che non va nelle nuove luci di Bangkok. Come uno sfarfallio. Forse è proprio per un eccesso di assimilazione delle pratiche orientali. “Di regola – scrisse lo stesso Jung - non ne viene che un istupidimento particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale”.
Analizzato un punto di vista occidentale, quindi, tutto il rituale appare in funzione politica. Il governo ha utilizzato la forza del mito per offrire una rappresentazione idealizzata di come lo stato sia, o debba essere, organizzato. Ossia secondo il mantra del generale Prayut Chan-o-cha, primo ministro e capo della giunta militare che ha preso il potere nel 2014: “nazione-religione-re”. Operazione perfettamente riuscita, che rafforza l’immagine della giunta quale garante dell’ordine, della tradizione e che è quella con cui il suo partito-avatar si presenterà alle prossime elezioni (fissate almeno per ora a novembre 2018). In virtù della nuova costituzione realizzata dalla giunta stessa, infatti, sarà impossibile governare senza l’appoggio dei militari. Una situazione che sembra gradita all’establishment economico e finanziario thai e che sembra aver ottenuto l’imprimatur sia dalla Cina sia dagli Usa. All’apparenza, quindi, le luci di Bangkok sono luminosissime. Ma c’è quello sfarfallio di fondo, che si genera nella periferia di Bangkok: la Thailandia.