Non sparate sulla Signora
Gli scontri tra polizia e manifestanti nazional-buddisti nello stato birmano del Rakhine sono un nuovo ostacolo sul cammino del paese verso la democrazia. E dimostrano come la responsabilità della persecuzione verso i rohingya abbia profonde radici locali.
“Mrauk-U era la capitale di uno dei regni più potenti della Birmania del XVI secolo, un centro commerciale in contatto con l’Europa, una città descritta da un viaggiatore del tempo come una delle più ricche dell’Asia. Oggi è un villaggio circondato da rovine di templi e palazzi, disseminate in un raggio di una decina di chilometri... Visito Shittaung, il più complesso e meglio conservato dei siti di Mrauk-U. Ci vuole un po’ a scoprirlo, ma alla fine decifro il suo piano labirintico, che dicono fosse destinato a misteriosi riti iniziatici…Poi scorgo in lontananza la sagoma di un Budda che sembra emergere dalla cima di una collinetta. Mi avvicino, mi arrampico e scopro una piccola pagoda. All’interno c’è un vecchio che medita sgranando un rosario. Non solleva nemmeno lo sguardo, non appare né disturbato né incuriosito…”.
Quindici anni fa mi appariva così, in tutta la sua arcana serenità, il sito di Mrauk-U, nello stato birmano del Rakhine, che i suoi abitanti continuano a chiamare col nome del regno di cui era capitale, Arakan. Oggi tristemente famoso per i rohingya, i nuovi dannati della terra, stanziati nell’estremo nord-ovest, al confine col Bangladesh.
Sarei dovuto tornare a Mrauk-U tra pochi giorni: si discute di quel sito come di un possibile patrimonio culturale dell’umanità. Poi il viaggio è stato sospeso: Mrauk-U è divenuta off-limits. La sera del 17 gennaio, infatti, la polizia ha sparato per disperdere (o difendersi, secondo fonti governative) una manifestazione cui partecipavano tra le 7000 e le 10000 persone. Sono stati uccisi sette manifestanti (nove, secondo altre fonti), decine i feriti (di cui 20 tra le forze di polizia), devastati alcuni uffici pubblici.
La manifestazione era stata indetta per protestare contro il divieto di svolgimento della cerimonia che ogni anno commemora la conquista dell’Arakan da parte dei birmani, nel 1784. Ma gli animi erano già infiammati per l’arresto di Aye Maung e Wai Hing Aung, esponenti del partito arakanese, d’ispirazione “nazionalbuddista”. Secondo alcune fonti del Foglio sarebbero proprio le milizie arakanesi responsabili dei massacri dei rohingya avvenuti nei mesi scorsi. E il “silenzio” di Aung San Suu Kyi che ha suscitato lo sdegno e la condanna globale, sarebbe dovuto anche al fatto che avrebbe dovuto ammettere l’incapacità del suo governo nel controllare il territorio. Tanto più nel momento in cui stava trattando col Bangladesh per il ritorno in Birmania degli oltre 650mila rohingya rifugiati oltreconfine.
Se così fosse la Signora ha fatto male i suoi calcoli: è stato proprio l’annuncio del rimpatrio dei primi 30.000 rohingya ad aver innescato le manifestazioni di Mrauk-U. Più probabilmente il clamore globale sulla questione rohingya ha alimentato un atavico odio etnico.
Proprio queste manifestazioni, dunque, dimostrano quanto siano superficiali le condanne nei confronti di Suu Kyi. La Birmania, infatti, è un conglomerato di oltre 150 etnie che in molti casi si oppongono militarmente al governo centrale. Compresa quella arakanese, che rivendica un’antica identità nazionale e religiosa e che è sempre stata ostile alla presenza dei rohingya, di religione islamica e considerati immigrati illegali dal Bangladesh. Per altri, poi, i rohinghya sono testimonianza vivente del colonialismo britannico che li avrebbe trasferiti in Birmania come mano d’opera a basso costo.
Nel frattempo, secondo Anthony Davis, analista specializzato in intelligence e terrorismo in Sud-est asiatico, l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), il movimento armato dei rohingya, sta dimostrando maggiore efficienza e preparazione, dimostrata anche dall’utilizzo di IED (Improvised Explosive Device), ordigni esplosivi improvvisati, secondo tecniche utilizzate dai terroristi islamici.
In una situazione così instabile, la politica di Aung San Suu Kyi non poteva che essere prudente. Forse non lo è stata abbastanza, sottoposta com’era a una campagna di condanna globale tanto estesa e forte da far sospettare che sia orchestrata altrove, magari negli stessi santuari dove si progetta la creazione di uno stato islamico del levante.
Ancora una volta, le vie dell’inferno si dimostrano lastricate di buone intenzioni. Perché a pagare per questa nuova crisi saranno innanzitutto rohingya, il cui rientro in Birmania è sempre più a rischio. Ne pagherà le conseguenze anche la Birmania, il cui cammino verso la democrazia è sempre più disseminato da ordigni esplosivi.
Aung San Suu Kyi può solo cercare di schivare quelli sul territorio. Ma per lei è sempre più difficile difendersi dagli attacchi esterni.