Te piace ‘o presepe ?
Un recente articolo del New York Times sull’Opera Cinese in Thailandia mi fa venire in mente e quindi recuperare una breve storia scritta qualche anno fa, quando il Mekong Café non era ancora aperto.
Probabilmente molte delle cose che ho ascoltato e annotato durante uno spettacolo dell’Opera cinese messo in scena in un vicolo di Bangkok sono inesatte. Le scrivo come le ho capite.
E’ l’ennesimo caso di Lost in Translation, come nel film, in cui un lunghissimo discorso in giapponese è tradotto in poche parole inglesi. Tanto più che in questo caso s’intrecciavano inglese, thai, cinese mandarino e teochew, ossia un dialetto della regione orientale della provincia cinese del Guandong. «Cinese molto tradizionale» dice il ragazzo che mi fa da interprete. In effetti molti linguisti lo considerano uno dei dialetti più simili al cinese arcaico. Dialetto che è poi divenuto la lingua della cosiddetta diaspora Teochew, circa dieci milioni di persone che si sono disperse in tutto il sud est asiatico e nel resto del mondo.
«Destino» dice il ragazzo per spiegare quel fenomeno che ha portato suo nonno dal sud della Cina a Bangkok. Quel ragazzo, però, non conosce il teochew. Parla il thai, e, molto saggiamente, ha imparato l’inglese e il mandarino, la lingua ufficiale usata della Repubblica Popolare Cinese. E’ stato chiamato dalla signora Phrasit, la direttrice della compagnia di giro – che si esibisce un po’ in tutta Bangkok, un po’ in Thailandia e anche all’estero, ossia in Malesia.
Quel ragazzo, insomma, dovrebbe mettermi in grado di capire di che cosa si tratta e quindi di scrivere un testo per il reportage che vorrei realizzare con il fotografo Andrea Pistolesi (idea che non ha incontrato particolare interesse in Italia, ma che forse, dopo la canonizzazione dell'articolo sul New York Times, verrà rivalutata).
Il problema è che la signora Phrasit, prima di parlare, deve tradurre mentalmente dal cinese al thai. Quindi cerca di esprimere l’idea al ragazzo che traduce il tutto in inglese. Ecco perché, ad esempio, non si riesce a capire bene il nome del gruppo che lei dirige. Suona più o meno così: “Questo gruppo dell’opera cinese è arrivato e buona fortuna a tutti”. Dopo averlo tradotto, il ragazzo mi guarda perplesso e sorride. «Lo so: pare strano» dice.
Ancor più difficile capire il titolo dell’opera rappresentata. La signora Phrasit ci pensa su parecchio. E alla fine si arrende: «Non so come dire il titolo. E’ una storia nuova. E’ la storia di una persona onesta». A questo punto è necessario precisare che la signora ci ha spiegato che le storie che rappresentano sono “storie dell’immaginazione”, nel senso che ogni anno qualcuno ne scrive due o tre nuove, mettendo assieme elementi tradizionali e storici e fatti di vita quotidiana. La sceneggiatura, in genere, è scritta da un autore “venuto dalla Cina” che fa anche da regista, consulente per la recitazione e da insegnante agli attori che non parlano cinese. Già, perché, a complicare le cose, c’è il fatto che alcuni attori sono “puri cinesi”, altri sono “puri thai”. Questi ultimi, per imparare la parte, ne ascoltano una registrazione e la mandano a memoria.
In questo senso, paradossalmente, lo spettacolo dell’Opera cinese, trova a Bangkok la sua realizzazione tradizionale. Si diceva infatti che “un minuto sul palcoscenico richiede dieci anni di pratica dietro la scena”. Non ci metteranno tanto a prepararsi, ma l’atmosfera nel backstage è quella che doveva essere agli albori di questa forma di spettacolo, quasi duemila anni fa. Le scene dietro la scena sono uno spettacolo nello spettacolo che riproduce il copione dei commedianti della commedia dell’arte, della tragicommedia greca o dell’opera indiana in sanscrito. Con l’aggiunta di elementi che creano un’immagine postmoderna.
C’è chi mangia una zuppa, chi chiacchiera al cellulare, ragazzini che giocano, un’attrice che culla un neonato, una ragazza dalle spalle tatuate che corteggia un attore dal volto a strisce. Gli attori si truccano su bauletti da make-up artist e ripassano la parte. Alcuni ce l’hanno su tablet. Altri sono connessi in rete per chattare sui social media.
La compagnia è composta da una trentina di persone: è la loro occupazione principale. Tra tutti guadagnano circa trentamila bath a serata (circa 90 euro), suddivisi in parti «più o meno uguali», come dice la signora Phrasit. Lavorano su commissione dei comitati di quartiere, di associazioni (i clan diffusi nei paesi con una forte comunità cinese), di privati che vogliono così dimostrare il proprio senso di gratitudine, benevolenza, appartenenza alla comunità stessa. E la Thailandia è uno dei paesi del sud-est asiatico dove la presenza cinese è più forte e dove l’opera cinese è più popolare che nella stessa Cina.
«Di compagnie del nostro livello ce ne sono una ventina nella sola Bangkok» dice la Signora Phrasit, con evidente orgoglio sia per la sua compagnia, sia per l’attaccamento della comunità sino-thai alle tradizioni.
In effetti, mentre giravamo nella zona della stazione di Hua Lamphong per trovare la location dello spettacolo (“vicino a un tempio vicino alla stazione” era l’indicazione), ne abbiamo trovata un’altra e solo dopo un po’ abbiamo capito che non era quella che cercavamo. Fortunatamente uno degli attori era il fratello della stessa signora Phrasit. «Comincia tutto come un affare di famiglia. Poi ci si allarga, ci si divide» ci dirà poi.
Dopo un po’ di tempo nel backstage, mi sposto dall’altra parte del vicolo, di fronte al palco, dove sono state allineate seggiole di plastica. Gli spettatori non sono molti. Soprattutto donne, per lo più anziane. Alcune chiacchierano tra di loro. «C’è chi commenta lo spettacolo e chi fa pettegolezzi» dice il ragazzo.
Seguire lo spettacolo si rivela ancor più difficile che capire le spiegazioni della signora Phrasit. Gli attori si esprimono con una sorta d’acuti suoni metallici accompagnati da gong, erhu (il “violino” cinese a due corde), liuto e altri strumenti tradizionali. Sul palco ci sono due donne, una delle quali interpreta un personaggio maschile. Chiedo se ciò abbia un qualche significato. «Ai thai piace vedere le donne vestite da uomo» risponde.
Alla fine rinuncio a capire e chiedere. Ci sarà tempo per documentarmi su colori, suoni, gesti, sul trucco che rende i volti simili a maschere. Nell’opera cinese ogni minimo elemento è un simbolo collegato ad arcane filosofie e religioni. E penso che ormai solo pochi specialisti siano davvero in grado di decodificarli. Tutti gli altri si limitano a guardare, ascoltare, chiacchierare.
In compenso cerco di capire come il mio interprete, un sino-thai di seconda generazione, viva il rapporto con le sue tradizioni, se avverta un’identità predominante. La risposta è sempre la stessa: «Entrambi». Nel senso che si sente sia cinese sia thai. Segue i riti cinesi e quelli thai. Non trova contraddizione tra il buddhismo cinese (Mahayana) e quello Thai (Theravada). Nemmeno sul business: certo la Cina è divenuta la seconda potenza mondiale, molti pensano di tornarci, in una sorta di ricorso storico. Ma lui pensa di essere nella situazione migliore per gestire gli affari tra Thailandia e Repubblica Popolare (senza contare i paesi limitrofi).
Restiamo un po’ in silenzio a guardare lo spettacolo. Ma mi sembra annoiato.
«Non capisco quello che dicono» ripete.
Gli chiedo se comunque non sia affascinato da tutta la messa in scena, se non la senta come parte della sua eredità culturale, se non gl’interessi.
«E’ uno spettacolo per vecchi».
«Non ti piace proprio?» chiedo più volte.
«Non mi piace».
E improvvisamente quella scena nel vicolo diventa una scena di Natale in casa Cupiello la commedia di Edoardo De Filippo. Famosa anche per il tormentone “Te piace ‘o presepe ?”, la domanda che il protagonista, Luca Cupiello, ripete più volte al figlio Nennillo.
«Te piace ‘o presepe?».
«A me non mi piace. Ma guardate un poco, mi deve piacere per forza?”.
E ancora, mostrando la cascata del Presepe: «Te piace?»
«No!».