L'onere della Muay Thai
La morte di un italiano in Thailandia dopo un incontro di boxe. La confusione tra pugilato e Muay Thai. Tutto questo è un tragico pretesto per riflettere sullo scontro di culture. Ma è anche un modo di commemorare chi forse l’aveva compreso
Era un nak muay, un guerriero, un campione di Muay Thai. Christian Daghio, 49 anni, originario di Sant’Antonio in Mercadello in provincia di Modena, aveva dedicato la vita alla tradizionale arte marziale thailandese e in Thailandia aveva dato vita a una bella famiglia.
È morto il 2 novembre, dopo una settimana d’agonia per i colpi subiti in un incontro, dopo due knock-out consecutivi al termine di dodici lunghissimi round. Ben più lunghi ed estenuanti dei cinque previsti dalle regole della Muay Thai. Destino ha voluto, infatti, che ciò accadesse non in un incontro di Muay Thai, bensì di pugilato, cui si dedicava da qualche anno.
Le cause precise della morte di Daghio non sono accertate. Né ha senso cercare colpe o colpevoli, differenze tra regole e modi di combattere (che pure bisognerebbe valutare prima di esprimere giudizi). Daghio stesso, quasi certamente, direbbe che tutto accade secondo il karma, l’azione che determina il destino individuale. Altrettanto inevitabilmente, però, la sua morte ha fatto e farà scrivere sui temi della violenza degli sport da combattimento. Ma anche su quella pulsione che il filosofo James Hillman definisce Un terribile amore per la guerra.
«Il conflitto è l’essenza del dramma» mi ha detto Ekachai Uekrongtham, scrittore e regista thailandese che ha messo in scena uno show sulla Muay Thai.
La Muay Thai si presta facilmente a questo conflitto d’idee. Perché consente di usare mani piedi, gomiti e ginocchia per colpire. Per una storia che sconfina nel mito e comincia con la guerra, per la connessione con le tradizioni, la religione, la magia che pervadono la cultura thai. Per quella sorta di mistica che circonda le arti marziali orientali.
Tutti elementi che Christian Daghio ben conosceva, ma senza perdere di vista le sue radici o identificarsi nell’immaginario, trasformandosi in guru. Tanto che aveva aperto una palestra-resort, il Kombat Group Thailand, dove l’insegnamento e la pratica della Muay Thai erano adattati alla cultura e allo stile di vita occidentale. “Siamo un camp di allenamento e fitness all-inclusive per famiglie…Crediamo nella metodologia thailandese e nell’approccio occidentale. Sia che tu voglia migliorarti come combattente, perdere peso o ricaricare corpo, mente e spirito, saremo sempre a tua disposizione” scriveva nel suo sito.
Inconsapevolmente e tragicamente, però, Christian è divenuto il protagonista di un ennesimo equivoco culturale. Molti, infatti, hanno dato per scontato che fosse morto in un incontro di Muay Thai, non di pugilato. Perché viveva in Thailandia, perché la praticava, l’insegnava. Ma anche perché la Muay Thai in Occidente è legata soprattutto a un’immagine cinematografica di brutale violenza, è una delle tante scene che appaiono quando si vuole rappresentare il “cuore di tenebra” dell’Asia. In confronto alla “nobile arte” della boxe appare più primitiva, selvaggia. Ancora una volta il vero scontro è culturale. «La pratica della muay thai richiede rispetto: per la sofferenza che imponi al tuo corpo, per il maestro, per l’avversario, per la cerimonia che l’accompagna» dice un kru, un istruttore.
È una piccola, tragica storia, questa. Che mi tocca da vicino: alcuni mi hanno scritto o chiamato preoccupati, tentando di dissuadermi dalla Muay Thai. A nulla sono valse le mie rassicurazioni riguardo il modo, quasi come un gioco, una meditazione con sudore, in cui la pratico. Difficile farlo capire. Perché tutto accade in un’esotica lontananza. Come in una vecchia storia.