Il Tramonto dell'Occidente
La strategia americana per la regione Indo-Pacifico. La politica thailandese e quella birmana. Etica e politica asiatica. Sono tutte accomunate nella diversità di valutazione e comprensione tra Oriente e Occidente che spesso tende a semplificare l’analisi. Forse bisognerebbe studiare un classico della cultura europea.
“Il tramonto dell’Occidente” …Il titolo dell’opera di Oswald Spengler è diventato un mantra. Un’espressione che si ripete spesso, molto spesso a sproposito, quasi sempre senza aver coscienza della ricchezza di temi e di suggestioni di quella che può forse considerarsi l’opera storica più importante del secolo scorso. Ci si limita a orecchiare la tesi cruciale del libro: che la civiltà occidentale sia giunta alla sua fase discendente e conclusiva. Tanto più vivendo in Oriente, in attesa dell’alba.
Confesso che anch’io ho ceduto spesso alla suggestione esoterica del libro. Anch’io limitandomi alla citazione del titolo. Qualche giorno fa continuavo a ripeterlo mentre assistevo alla conferenza di Peter Haymond, incaricato d’affari all’ambasciata americana a Bangkok, sul tema “Free and Open Indo-Pacific Strategy and Thailand”. Mi veniva in mente ascoltando la sesquipedale banalità con cui era presentata quella che dovrebbe essere la strategia asiatica della più grande potenza mondiale. Era un elenco di luoghi comuni molto simile alle dichiarazioni delle partecipanti a un concorso di bellezza che proclamano “la pace nel mondo” quale loro massima aspirazione. Non a caso lo sfondo della conferenza era una carta dell’Asia in cui nemici e alleati, entrambi presunti e potenziali, erano indistinti. Se quello fosse stato il livello di elaborazione teoretica occidentale, il tramonto mi sarebbe apparso ineluttabile.
Ero talmente sconcertato che ho sentito il bisogno di sfogliare per l’ennesima volta il libro di Spengler, sperando di trovare un’idea che mi aiutasse a capire questo passaggio storico. In realtà più che nel testo l’ho trovata in un commento. Riprendere oggi questo testo, significa riesaminare il desiderio ineffabile di una comprensione del senso della storia, del senso stesso della civiltà, dell’umanità e delle sue manifestazioni culturali e intellettuali più disparate e complesse: in una fase come quella attuale in cui ormai molti schiacciano la vita sull’istante, leggere Spengler riporta a una visione epocale del pensiero.
Mi è sembrato perfetto per ciò che mi stava passando per la mente: per quanto la strategia indopacifica americana sia oggettivamente più complessa di quanto apparisse nella conferenza di Mr. Haymond, è come se si volesse sempre procedere alla “reductio ad minimum” di ogni teoria o idea per adeguarla al pensiero diffuso in Occidente: non un “pensiero debole” bensì un “pensiero semplice”. Vista da Oriente, dunque, quella strategia appare destinata a cadere inevitabilmente in uno de I 36 Stratagemmi che compongono la filosofia del conflitto cinese (lo dimostra l'ultimo diplomatic coup cinese).
Vivendo tra gli infiniti scenari che appaiono tra il tramonto e l’alba, tra l’eredità culturale occidentale e la quotidiana contaminazione orientale, l’opera di Spengler, proprio per la sua complessità, può rivelarsi davvero uno strumento per superare le contraddizioni tra l’identità e lo sradicamento. Indipendentemente dalle tesi espresse in più di 1500 pagine, costringe a confrontarsi con la complessità. È solo così che si può cercare un ordine, una nuova logica, nell’apparente caos o nella diversa ontologia orientale.
Ad esempio, in ciò che sta accadendo in Thailandia. L’endemica crisi politica degli ultimi dieci anni, che ha portato al colpo di stato del 2014, non si è risolta con le elezioni del marzo scorso. I risultati confermavano la profonda divisione del paese nei due schieramenti “tradizionali”, ultraconservatore e populista, con l’aggiunta di una nuova variabile: il Future Forward, partito del giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit, che proponeva una moderna alternativa progressista. Secondo alcuni analisti, quindi, si poteva prevedere un governo di unità nazionale: conservatore, ma che troncasse i legami con i militari e lasciasse qualche spazio all’opposizione. Invece, dopo due mesi di opache manovre (volte soprattutto a contrastare il Future Forward e il suo leader, destituito dalla carica di parlamentare per vaghe accuse di violazione della legge elettorale), complice la nuova costituzione elaborata ad hoc dai militari, il generale Prayuth Chan-ocha, l’artefice del colpo di stato e capo del successivo governo militare, è stato eletto primo ministro. Insomma, le elezioni non sono state uno strumento della democrazia bensì un mezzo per legittimare l’esistente in forma diversa: la “democrazia fiorente nella disciplina”. Ma la ragione è ancor più profonda. Come scrive Pravit Rojanaphruk, giornalista thai impegnato nella difesa della democrazia: “Il cambiamento potrà verificarsi quando la società thai riconoscerà la sua incapacità nella gestione dei conflitti…I thai sembrano molto concentrati nell’evitare il confronto. Sino al punto che, quando è impossibile evitarlo, non sanno come gestirlo pacificamente ed efficacemente”. In questo senso sarà interessante osservare l’evoluzione della politica di Thanathorn. Come sottinteso nel nome del partito, è definibile “neo-thai" (termine applicabile anche a una parte dei suoi elettori): un’idea e una generazione che non evitano il confronto ma sembrano in grado di gestirlo.
“Il Myanmar ha una crisi d’identità” scrive Benedict Arnold, studioso dei conflitti etno-religiosi birmani. Un’analisi che è un altro buon esempio della complessità asiatica e ben rappresenta i segnali contrastanti che provengono dalle forze in campo, in un gioco di tutti contro tutti, con continui campi di campo. È una crisi d’identità divenuta più grave negli ultimi anni, quando le regole del gioco sono cambiate e tutti sono stati costretti ad abbandonare i vecchi codici di comportamento per adeguarsi alla realtà di una “democratura”. In questa crisi d’identità, ad esempio, si trova la ragione della politica di Aung San Suu Kyi. A livello interno, sembra quasi allinearsi alle posizioni dei militari nella limitazione dei diritti civili e della libertà d’espressione. Ma questa stessa arma le è servita a incriminare il monaco ultranazionalista e razzista Wirathu, sostenuto dagli estremisti etnici quanto dalle alte gerarchie di Tatmadaw, le forze armate. Manovra che in Occidente non ha avuto particolare risonanza, quasi non si volesse riconoscere alla Signora il ruolo di antagonista ai militari. In politica estera il governo della National League si muove ugualmente in maniera ambigua, cercando alleati tra chiunque si mostri disponibile (è il caso del premier ungherese Orban o del filippino Duterte). In questo modo il Myanmar cerca di compensare l’isolamento, tanto più a livello regionale, dove le nazioni dell’Asean quali Indonesia e Malaysia cercano consensi anche tra le fazioni islamiche. Il Myanmar (anzi, il governo di Suu Kyi), inoltre, deve cercare di bilanciare la rinnovata influenza cinese che sfrutta la situazione per presentarsi come un benevolo grande fratello.
Sempre più mi convinco che bisognerebbe leggere (almeno sfogliare) “Il Tramonto dell’Occidente”. Anche se non si trovassero risposte è sicuramente una fonte di domande.