La Sindrome di Stoccolma

Massimo Morello

L’Oriente, ancora una volta, si rivela una miniera di storie. Ed è qui che spesso finiscono gli interpreti di storie cominciate altrove. Come Jan-Erik Olson, l’uomo della rapina che ha generato la Sindrome di Stoccolma.

Pochi giorni fa mi hanno chiesto se avevo una buona storia “per l’estate” da raccontare. Per puro caso ce l’avevo già. Era accaduto per serendipità: riguardando vecchi articoli in cerca di spunti per un altro lavoro, mi sono imbattuto in un reportage scritto per Il Foglio nel 2012. Era il racconto dell’incontro, in un villaggio del nord-est della Thailandia, con Jan-Erik Olsson, detto Janne, l’uomo che ha dato origine all’espressione “Sindrome di Stoccolma”. Quell’articolo, a sua volta, mi ha fatto venire in mente che poco tempo prima avevo visto in televisione il trailer di un film (uscito in Italia a giugno) che ha per trama quella vicenda: “Rapina a Stoccolma”. Il film mi dà l'occasione per riproporre l'articolo. Ma soprattutto spero che dal film Janne abbia ricavato abbastanza per vivere tranquillo la sua vecchiaia da pensionato in Svezia. Proprio come sognava e mi aveva detto in questa storia.  

                      

Giovedì 23 agosto 1973, poco prima delle 10 del mattino, Jan-Erik “Janne” Olsson attraversò la Norrmalmstorg, la piazza nel centro di Stoccolma, entrò nella sede della Sveriges Kreditbank, estrasse il mitra da sotto il giubbotto, sparò una raffica sul soffitto e gridò: «The party start! Down on the floor!», “La festa comincia. Giù per terra”.
«Lo dissi in inglese perché volevo confondere le idee. Sembra una frase da film poliziesco ma non l’avevo preparata» ricorda Janne. Non era una rapina. Voleva prendere ostaggi da scambiare con tre milioni di corone svedesi e la liberazione di un compagno di carcere, Clark Olofsson.
La festa continuò per sei giorni. «Sei giorni e notti che hanno cambiato la mia vita, quella degli ostaggi e di chiunque fosse coinvolto in quella storia. Hanno cambiato anche la Svezia: una cosa del genere non era mai accaduta e il paese fu al centro dell’attenzione mondiale».
In quei sei giorni, all’interno dalla Kreditbank, accade qualcosa d’imprevisto. Si creò un inquietante rapporto tra Janne, Clark - che la polizia aveva fatto entrare nella banca promettendogli immunità se avesse collaborato - e i quattro ostaggi: tre donne, Kristin, Birgitta ed Elisabeth, e un uomo, Sven. Avrebbe detto Kristin in uno dei colloqui con l’ufficiale di polizia incaricato delle trattative: «Non sono impaurita da loro. Non mi hanno fatto nulla, sono stati molto gentili. Vuoi sapere di che cosa ho paura? Ho paura che la polizia ci faccia del male».


Così, quando tutto fu finito, con l’arresto di Janne e Clark e la liberazione dei quattro ostaggi, iniziò una nuova storia: quella della “Sindrome di Stoccolma”. Il termine fu coniato dallo psicologo della polizia Nils Bejerot. Avrebbe scritto in un suo rapporto: “dopo un certo tempo, gli ostaggi rivolgono la loro paura e la loro rabbia verso la polizia e le autorità. Cominciano a credere che siano i loro veri nemici poiché rifiutano di concedere ai sequestratori ciò che chiedono. Si crea così un paradossale, mutuo interesse tra ostaggi e sequestratori nei confronti del ‘fuori’. E questo si può sviluppare in simpatia, comprensione, dipendenza emotiva”.
«Quando sento parlare di Sindrome di Stoccolma, mi sembra surreale di essere l’uomo che le ha dato origine. Ripenso a quei giorni: provo rimorso per ciò che ho fatto a quella povera gente. Erano come animali in gabbia. E ce li avevo messi io. Ma non ho chiesto perdono e non lo chiederei: non avrebbe senso. Quello che ho fatto ho fatto, la sofferenza degli altri non puoi fartela perdonare. E quando è accaduto non ci pensavo affatto. Era qualcosa che doveva accadere: questo era il mio pensiero. Come tutti i criminali avevo un ego smisurato. Pensavo innanzitutto al Numero Uno: me stesso» dice Janne.

L’uomo che ha dato origine alla Sindrome di Stoccolma, che definirono “la bestia inumana”, sta per compiere settant’anni e vive in Thailandia, a Ban Non Sang, il villaggio della sua ultima moglie, Phian. In realtà non è un villaggio, è una distesa di risaie con casupole sparse sulla strada che porta al confine col Laos, nell’estremo orientale dell’Isaan, il nord-est della Thailandia. È la regione più povera, da dove proviene la maggior parte delle prostitute che lavorano a Bangkok o sulle spiagge battute dai turisti. I pochi occidentali, i farang, che arrivano da queste parti, spesso hanno seguito una ragazza incontrata in un bar: lei voleva sistemarsi, loro volevano rifarsi una vita accanto a una donna più giovane in un posto dove una pensione europea assicura una vita da “ricco”.  Non è il caso di Janne, non proprio. Ha conosciuto sua moglie in Svezia, dove lei era in visita dalla sorella. Era il 1989: era stato liberato dieci anni prima, dopo aver scontato otto dei dieci anni di pena, e aveva fatto una discreta fortuna commerciando in auto usate. I primi viaggi in Thailandia furono una vacanza e un modo di affermare il proprio ruolo di ricco e potente. «Nemmeno sapevo dove fosse, la Thailandia. Quando arrivai nel villaggio di Phian fu uno shock: non riuscivo a credere che si potesse vivere così. Quei viaggi mi costarono cari. Phian aveva dodici fratelli e sorelle e bisognava fare un regalo a tutti». Comperò terreni, costruì una casa per sé e una per i genitori di Phian. Sposò Phian secondo la tradizione thai. «Fu un matrimonio alla grande: ci saranno state un migliaio di persone che andavano e venivano. Come d’obbligo feci un regalo alla madre di Phian per averla fatta nascere e crescere: le diedi 40.000 baht (circa mille euro al cambio attuale) e una collana d’oro. Nessuno nel villaggio aveva mai visto prima un gioiello del genere».
Tra una vacanza e l’altra, però, Janne si fece coinvolgere in una frode fiscale che gli avrebbe dovuto fruttare quasi un milione di corone. Invece fu scoperto. «Mi dissi: c…non voglio tornare in prigione proprio adesso che è nato mio figlio. Non ho visto crescere nessuno degli altri figli che ho avuto». Così, nell’estate del 1996, si stabilì in Thailandia. Sarebbe tornato in Svezia solo nel 2006. «Volevo arrendermi. Non avevo mai pensato che l’avrei fatto, ma a quel punto volevo iniziare una vita nuova». A compenso delle sue buone intenzioni, Janne scoprì che il reato era caduto in prescrizione: poteva avere un passaporto e addirittura richiedere la pensione, che in Svezia è garantita a tutti dopo i 65 anni.
Oggi la pensione è il suo pensiero fisso. Perché nel frattempo il governo svedese gliel’ha decurtata. «Mi danno meno del minimo, non mi hanno dimenticato» dice, allargando le grosse braccia sconsolato. È per questo che sta per tornare in Svezia: ha bisogno di soldi, rivuole la sua pensione, spera di poter guadagnare qualcosa con il libro che ha scritto (“Stockolm-Syndromet”, per ora solo in svedese), col film che dovrebbero trarne, con le conferenze nelle scuole.
Negli ultimi anni, la fortuna di Janne è girata ancora. Aveva aperto un minimarket di fronte a casa, ma sta per fallire, schiacciato dalla concorrenza dei grandi centri commerciali che aprono anche là. Per il momento l’ha affittato e osserva sconsolato i magazzini vuoti, il nuovo gestore mezzo addormentato. «I thai sono pigri» ripete. Molti terreni li ha dati in uso ai parenti della moglie. La maggior parte li ha venduti. Quelli che gli restano rendono circa 500 euro d’affitto l’anno. Nel terreno dietro casa coltiva, “kao niao”, riso glutinoso, da cui ne ricava altri 300.
Alla fine, il suo reddito è molto elevato rispetto agli standard dell’Isaan. Ma Janne non può “perdere la faccia”: qui significa condannarsi alla vergogna sociale. Deve continuare a essere il ricco farang che è sempre stato. «Nel villaggio c’è gente che conosce il mio passato, ma non mi giudicano. Anzi hanno molto rispetto per me. In Thailandia non considerano gli ex criminali come una minaccia: sono contenti di vedere qualcuno che vuole ricominciare. Se devo essere del tutto sincero è anche per un fatto di soldi. Il denaro ha un enorme potere qui e loro hanno visto quanto ho speso». Nel corso degli anni Janne ha speso davvero molto: prestando soldi che sapeva non gli sarebbero stati restituiti, regalando attrezzature agricole. Ha anche donato un grande Budda per un piccolo monastero nella foresta. Era molto legato a un venerabile monaco che viveva là. «Gli facevo un’infinità di domante, anche stupide. Ma lui mi ascoltava, sorrideva, mi rispondeva». Prima di morire gli ha dato i grandi amuleti che Janne tiene appesi al collo con una massiccia catena d’oro: continua a sfiorarli.
Quel piccolo monastero col suo Budda dorato è una delle prime cose che Janne fa vedere a chi viene a trovarlo. Davanti alla statua s’inchina leggermente e giunge le mani nel segno del wai, il tradizionale gesto di saluto e devozione thai, ne accarezza la mano abbandonata sul ginocchio nel mudra, il gesto, con cui il Budda chiama la Terra a testimone della sua illuminazione. Non sembra recitare. Dice che è buddista, anzi, che cerca di esserlo. Fa venire in mente la battuta di Mel Gibson in “Air America”: “Ho detto che sono un buddista, non che sono un buon buddista”. «Il Buddismo è l’unica religione che mi abbia attratto. Mi ha insegnato a cercare di vedere il lato positivo di ogni cosa».


A chi lo viene a trovare, Janne dà appuntamento alla stazione dei bus di Sakhon Nakhon, la città più vicina al suo villaggio, per la precisione al Green Café, una caffetteria in stile occidentale. Le visite sono l’occasione per una specie di suo rito abitudinario. Sosta al Green Café, quindi pranzo all’MK, popolare catena di ristoranti, dove divora anatra arrosto e doppia porzione di riso, sottolineando che gli hanno dato una tessera fedeltà con lo sconto del 10%. Dopo pranzo si ferma al chiosco gelati del Kentucky Fried Chicken, dove ordina un cono alla crema da 10 baht (circa 25 centesimi). Ultima tappa al Big C, un ipermercato, dove acquista una dozzina di confezioni di latte di soia e altrettante focaccine ripiene di purea di fagioli dolci. Sono il suo spuntino prima di andare a letto.
Sembra in tutto e per tutto un qualunque espatriato occidentale in Isaan, di quelli provenienti dal Nord Europa: un uomo alto, grosso, sui cento chili, dallo stomaco prominente, in pantaloncini corti, camicia a scacchi, sandali. Non fa certo pensare all’uomo della Sindrome di Stoccolma. O a quello che era prima ancora. «Quello che è accaduto nella banca non è stato un caso. C’era una lunga vita prima» dice. Una vita che inizia a 15 anni, quando lascia la scuola e s’imbarca su un mercantile. «Volevo verificare i limiti e provare lo sconosciuto». Il primo crimine è di poco successivo. Da allora è un susseguirsi di furti, imbarchi, prigione, fughe, sentenze. «Alla fine ho trascorso vent’anni dietro le sbarre. Ma non posso rimproverare nessuno. Non ho avuto un’infanzia infelice. Quello che mi ha spinto a diventare un criminale può essere definito con una sola parola: denaro. Dopo aver aperto la mia prima cassaforte ho capito che era un buon modo per guadagnarsi da vivere. Senza contare che era emozionante».
La sua vita è tutta dentro il suo libro, che ha iniziato a scrivere mentre era in prigione, alternando ricordi personali, avventure vissute prima della Sindrome o quelle che gli erano state raccontate da compari e compagni di carcere. Sembra che quel periodo resti il mito della sua vita. Come una guerra per chi l’ha vissuta.

 
Janne manifesta la sua vocazione di narratore soprattutto parlando. Parla ininterrottamente. Compone una sceneggiatura in cui si confondono trame, brani, scene di ogni genere, un piccolo romanzo criminale quasi incruento, un’educazione siberiana in versione scandinava, un racconto che potrebbe essere riscritto da Tom Robbins.
Nel piccolo “sala”, il tradizionale padiglione thai, di fronte a casa sua, accanto a un giardinetto decorato da statue di terracotta che raffigurano giraffe, cigni, aquile, come in molti templi buddisti della zona, parla di donne. Indica le casupole dal tetto di lamiera accanto alla strada. È la classica “tau tong”, letteralmente piccola tartaruga d’oro, un locale dove puoi comperare da bere e mangiare. E soprattutto donne. «All’inizio pensavo fosse una cosa orribile. Adesso ho cambiato idea. Se fossi nato donna in Isaan sarei la più grande puttana della Thailandia». Lui, però, si vanta di non aver avuto molto bisogno dei servizi delle professioniste. «In questo senso il periodo migliore è stato quand’ero in carcere. Mi hanno scritto un migliaio di donne e molte sono venute a trovarmi. La maggior parte volevano solo fare sesso. Per fortuna c’erano le samlagsrum, le stanze dove i detenuti possono ricevere le loro donne». Secondo Janne, le donne sono attratte dagli uomini pericolosi. «Certi psicologi dicono che ha a che fare con l’istinto materno: vedono il criminale come una persona di cui prendersi cura. Personalmente credo siano solo annoiate e vogliano un po’ di brivido».
Janne interrompe i suoi racconti per mostrare con orgoglio la casa. Il soggiorno è diviso in due parti. Da un lato è un piccolo tempio dove sua moglie Phian ogni sera prega per quasi due ore. Ripete i sutra buddhisti in una cantilena che si confonde col fruscio del ventilatore e ti accompagna nel sonno. Sull’altro lato è attrezzata una specie di palestra, con panche per gli esercizi e pesi. Janne ha il culto della forma fisica, della forza. Poi con aria complice, Janne chiude la porta della camera degli ospiti e solleva il materasso. Ti aspetteresti di vedere un arsenale. Invece ci sono 200 bottiglie di whisky: le aveva comperate per il minimarket e non ha voluto lasciarle a chi l’ha affittato. Nella credenza a vetrinette della grande cucina c’è la raccolta dei bicchieri che gli hanno regalato con le bottiglie. Sono con le bandiere delle nazioni degli europei di calcio 2000. Regala agli ospiti il bicchiere con la loro bandiera nazionale.
Seduti nel patio a piastrelle azzurre, bevendo birra Leo da bicchieri con la bandiera italiana, continua a raccontare. È il momento delle storie di malavita, dei racconti della prigione. La sua preferita è quella di un lungo viaggio attraverso un’Europa ancora in piena guerra fredda, attraversando le frontiere con una Beretta 7.65 comperata in Italia e documenti falsi. «Oggi, con tutte le tecnologie moderne, sarebbe molto difficile fare la vita che ho fatto io». Oggi, secondo Janne, quella vita non sarebbe più possibile soprattutto perché è cambiato il “codice dei ladri”, la mala non è più quella d’un tempo. «Io ero un bandito, rubavo, ho fatto qualche piccolo traffico d’armi. Ma la droga mai. Adesso la mala è fatta soprattutto da assassini, trafficanti di droga, stupratori, psicopatici».
Sul calar della sera Phian porta in tavola la cena - riso glutinoso, laap, un’insalata di carne di maiale e verdure, gai yang, pollo marinato – poi si distende sulla balaustra del patio, in silenzio, quasi invisibile. Janne mangia e racconta. Parla dei figli, di alcuni dei tanti avuti da tante donne, quelli delle prime due mogli. Spesso si emoziona. «Mi vengono i brividi» dice e si passa le mani sugli avambracci. Ken, il più vecchio, fa il poliziotto. La cosa lo fa sorridere. Da quel che racconta, Ken appare come una specie di carogna che non l’ha aiutato quando ne aveva bisogno. Un altro figlio, Ante, era uno dei capi dei Bandidos svedesi, una gang internazionale di motociclisti. Sta scontando dieci anni di carcere nel penitenziario di Kumla, lo stesso dov’era rinchiuso Janne. L’hanno condannato per traffico di droga e questo è il maggior dispiacere per il padre. «E’ anche responsabile di qualche rapina» precisa, quasi a consolazione. Anche l’altro figlio, Daniel, faceva parte della gang dei Bandidos, ma è riuscito a uscirne in tempo, prima d’essere ammazzato o incarcerato. Poi si è dedicato all’Ultimate Fighting, uno sport da combattimento estremo, e ha lavorato nelle piattaforme petrolifere. Janne ne è molto orgoglioso, è il figlio che compendia tutto ciò che gli piace: è forte, ha avuto esperienze di mala, le ha superate ma continua l’avventura. Il figlio che ama di più è quello avuto da Phian, il sedicenne Sakda. Continua a parlarne come di un ragazzo dalle capacità eccezionali, ma da quello che s’intuisce e intravede, sembra che tra loro ci sia qualche problema. Forse è un fatto generazionale, o qualcosa di più profondo. «Phian mi ripete spesso che i problemi con i miei figli sono la conseguenza delle mie cattive azioni» dice.
Il mattino presto la casa di Janne è semideserta. Alle prime luci sua moglie ha preso la bici ed è andata al tempio a pregare. Il figlio dorme. Parlando a bassa voce prepara la colazione: pane tostato, uova fritte, prosciutto. Poi mi accompagna alla fermata del songtow, un pick up con due file di sedili sul pianale posteriore che da quelle parti è il mezzo di trasporto più diffuso. Continua a salutare a lungo con la mano alzata.
Il giorno dopo la mia partenza mi ha telefonato per dirmi che avevo lasciato le sigarette a casa sua. «Meglio così - ha detto - fanno male».

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