La Sindrome di Argo
Detta anche dell’ultimo volo. Quella che si diffonde tra turisti e viaggiatori “intrappolati” dalla pandemia in paesi esotici. Scenari per vacanze da sogno o territori per “progetti di studio” o solidarietà si trasformano in luoghi da incubo.
Un aereo speciale, magari con la scorta di uomini delle forze speciali. Questo trattamento tanto speciale se lo aspettano molti connazionali rimasti “intrappolati” in paesi remoti, possibilmente esotici. E’ una storia che si ripete spesso, per singoli o gruppi, a causa di incidenti, rivolte, guerre, disastri naturali, pandemie. La definisco la “sindrome Argo”, dal film che racconta l’esfiltrazione (termine ripetuto da coloro che vogliono apparire esperti di tali situazioni) di sei americani dopo la rivoluzione iraniana del 1979.
In occasione della pandemia di Covid-19 questa sindrome è divenuta anch’essa virale. Ne sono stato testimone in una delle aree in cui si è manifestata con maggior violenza (inversamente proporzionale ai casi locali di Covid): il Sud-est asiatico. Tra Thailandia, Laos, Cambogia, Birmania, Vietnam, Indonesia c’erano centinaia di italiani che volevano tornare a casa, che cercavano una via d’uscita, che speravano d’imbarcarsi nel fatidico “Last Flight Out” (anche questo trama di due film, uno nel Vietnam poco prima della caduta di Saigon, l’altro nella giungla colombiana).
Salvo rare eccezioni, oggetto di accese polemiche (com’è accaduto molto recentemente), quelle trame salvifiche non si realizzano e quindi innescano polemiche altrettanto accese. I protagonisti di queste vicende si sentono abbandonati dallo stato, traditi dall’ambasciata, vittime di speculazioni da parte delle compagnie aeree o di equivoche manovre di tour operator o agenzie di viaggio. In molti casi, tutti questi elementi si sommano e la situazione è ancor più complicata dalle persecuzioni che le nostre innocenti vittime dichiarano di aver subito da parte delle autorità o dalle popolazioni locali. Loro unica ancora di salvezza, quali messaggi in bottiglia, sono gli appelli sui social, che denunciano complotti, inefficienze degli organi preposti e spesso sollecitano collette.
In molti casi i malcapitati protagonisti delle disavventure sono giustificabili. Sono coloro che si dichiarano, molto semplicemente, “turisti”. Che sono partiti per un periodo di vacanza, magari il viaggio sognato da una vita, il viaggio di nozze. Per loro ogni inconveniente, ritardo, mette in crisi il bilancio, il lavoro. Loro non cercavano l’avventura, il brivido, non si vergognavano della loro ignoranza geografica o geopolitica, non volevano a tutti i costi vivere o mangiare come i “locali”, non pretendevano essere degli epigoni di Tiziano Terzani.
Gli altri, quelli che “io sono un viaggiatore non un turista”, che raccontano le loro avventure sui social spiegando culture comprese e giudicate dopo una permanenza di qualche settimana, quelli che partono per un “progetto formativo privato” (ineffabile definizione di due ragazze italiane bloccate in Laos dall’emergenza Covid e tornate in Italia dopo reiterati appelli e richieste di aiuto), quelli che “si vede che anche qui è arrivata la globalizzazione”, quelli che vogliono aiutare gli altri mettendoli in guardia dai rischi dello sviluppo, quelli che vivono nel mito rousseauiano, tutti costoro non dovrebbero invocare alcun aereo speciale. Salvo condizioni e situazioni davvero speciali, in cui sia a rischio la vita. Nel loro caso restare sul posto è un’occasione unica, imperdibile. Di aiutare davvero gli altri, di fare le suddette esperienze formative, di vivere un’avventura unica che può essere soggetto di narrazione (altro termine molto amato). Di trascorrere del tempo in maniera più semplice, ecologica (basti pensare al carburante consumato dai voli speciali) con spazi per l’introspezione, la riflessione, la meditazione.
E invece quest’occasione la sprecano. Tornano in Italia, dove possono manifestare tutto il rimpianto per ciò che hanno lasciato con quell’ultimo volo. Che poi si rivela sempre il penultimo.