La giallezza morale
Ovvero la banalità del male. La morte del “Compagno Duch”, il torturatore dei khmer rossi, riporta alla memoria le riflessioni morali e gli incubi apparsi durante il suo processo.
Il 2 settembre è morto Kaing Guek Eav, alias Duch. Aveva 77 anni. Tra il 1975 e il 1979, quando i khmer rossi materializzarono l’inferno ln Cambogia, Duch era il “direttore” del Tuol Sleng, il centro di detenzione dove morirono e furono torturate migliaia di persone. Duch fu anche il primo dei tre dirigenti kmer rossi a essere processato da un tribunale internazionale. Fu condannato a vita nel 2012. Quello che segue è un breve articolo scritto nel maggio 2009 durante le udienze preliminari. Ma credo che il senso della riflessione sia ancora valido. Si intitolava, appunto, “la giallezza morale.
Video dal Documentation Center of Cambodia
Sono andato a vedere se Kaing Guek Eav, alias Duch, mostra segni di giallezza morale. Per William T. Vollmann, autore di uno sterminato saggio sulla violenza, Come un’onda che sale e che scende, giallezza morale è “la manifestazione esteriore del male o della violenza”. Segno inattingibile. Anche perché cangiante. Duch era il responsabile del Tuol Sleng, il centro di tortura dei khmer rossi. Dove sono state “distrutte” (komtech, questo il termine khmer che rende l’idea della loro sorte) circa 20.000 persone. In questi giorni Duch compare di fronte alla Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), tribunale internazionale istituito per processare i pochissimi leader dei khmer rossi ancora vivi. Solo alcuni di loro. Il processo si svolge in una cattedrale nel deserto, un nuovissimo, enorme palazzo di giustizia alle porte di Phnom Penh. La sala delle udienze è un teatro. Da un lato i posti per il pubblico, dall’altro un palcoscenico con la corte. Separati da una gigantesca vetrata antiproiettile che dà l’impressione di trovarsi di fronte a un acquario.
Duch è in camicia bianca a maniche lunghe, pantaloni neri, scarpe nere. E’ piccolo, leggermente ingobbito, una spalla, la sinistra, più bassa dell’altra. Forse soffre d’artrite. I capelli sono brizzolati, la testa grossa. Mi rendo conto che cerco di fare un’analisi lombrosiana. Ma non ha senso. Tanto più che non lo vedo in faccia. È seduto di fronte alla giuria. Le spalle al pubblico. Per vederlo bisogna guardare gli schermi Panasonic ai lati dell’acquario che trasmettono i primi piani dei protagonisti. Lui guarda sempre in alto a sinistra, in un angolo cieco sopra i banchi dell’accusa. Lo ascolto in cuffia. La voce è gracchiante, stridula, quasi da vecchia. Provo a immaginarla mentre pronuncia la frase che per i khmer rossi equivaleva a una condanna a morte. «Se sei vicino non sei di alcuna utilità. Se sei lontano non si sente la tua mancanza». Non riesco a capire quanto sono condizionato dall’ambiente. In Cambogia non parlano dei khmer rossi. Ma tutti credono negli Spiriti dei morti che non hanno pace. Compresi quelli dei teschi che sono conservati nelle teche di vetro a memoria dei massacri. Per calarmi nell’atmosfera il giorno prima sono tornato a visitare il Tuol Sleng. Ormai è divenuto l’archetipo del sepolcro imbiancato, letteralmente. Per come sono state sistemate le celle, con gli strumenti di tortura disposti sulle brande in una composizione geometrica, di design. Forse Duch trasmette energia negativa. Ma la giallezza morale non la percepisco. Appare uno come tanti. Ha un’aria precisa, da professore, qual era prima e dopo il suo periodo da aguzzino. Le penne nel taschino, i faldoni ordinatamente disposti sul tavolo, gli occhiali che si aggiusta mentre li sfoglia. “Il diavolo che nella nostra mente collettiva è personificato nei khmer rossi non si trovava alla fine di un malarico fiume nel profondo di una giungla primordiale…I dettagli non ci avvicinano a loro. Avvicinano loro a noi” scrive il reporter Nic Dunlop, un uomo talmente ossessionato da Duch che per anni ha girato la Cambogia con la sua foto. E’ così che lo ha trovato.
Alla fine dell’udienza Duch si alza e si guarda intorno. Ho l’impressione che per la prima volta guardi in faccia qualcuno. Me. Inevitabilmente mi viene in mente l’aforisma di Nietzsche: “Quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Mi rassicuro con proverbio cinese: “Quando l’apparizione di un demone non ti sgomenta più, il demone se ne andrà”.