Lo studente africano festeggia sul cadavere di Cecil e straccia la sghemba antropologia occidentale

L’articolo definitivo sulla vicenda del leone Cecil l’ha scritto sul New York Times Goodwell Nzou, dottorando alla Wake Forest University. Di fronte agli insulti affissi porta del cacciatore-dentista del Minnesota, alle richieste della Peta di impiccarlo, il ragazzo ha provato “la più decisa contraddizione culturale che ho sperimentato nei miei cinque anni da studente negli Stati Uniti”.

    New York. L’articolo definitivo sulla vicenda del leone Cecil l’ha scritto sul New York Times un ragazzo dello Zimbabwe di nome Goodwell Nzou, dottorando alla Wake Forest University. Di fronte alle vesti stracciate dell’occidente, alla voce strozzata dalle lacrime di Jimmy Kimmel, agli insulti affissi porta del cacciatore-dentista del Minnesota, alle richieste della Peta di impiccarlo, al processo di estradizione, Nzou ha provato “la più decisa contraddizione culturale che ho sperimentato nei miei cinque anni da studente negli Stati Uniti”. Perché nella mentalità di Nzou – che altrove il New York Times potrebbe definire rozza o primitiva ma non lo farà perché date le circostanze non sarebbe politicamente corretto – il leone è una bestia feroce che assalta e divora gli uomini. Non gli uomini in generale, ma i suoi amici, i compagni di villaggio, i parenti. E anche se non uccide, il leone genera uno stato permanente di terrore, la sua predatoria presenza stabilisce un coprifuoco naturale che gli abitanti si risparmierebbero volentieri. Quando qualcuno riesce nell’impresa di ammazzare un leone il villaggio fa festa per giorni, altro che hashtag indignati. A Nzou non potrebbe importare di meno se il cacciatore è bianco o nero, se è motivato dalla sopravvivenza o dalla vanità, se uccide la bestia legalmente o di frodo, se lo fa con le frecce, con il fucile o con il napalm, perché il leone è una fiera cattiva che minaccia l’uomo, e il minimo che l’uomo possa fare è rispondere, con tutti i mezzi. Lo studente spiega anche nell’articolo che la cultura del suo paese è estremamente rispettosa degli animali, tanto che ogni tribù è associata a un animale, considerato sacro o degni di immenso rispetto. Non c’è traccia di odio per l’animale in sé, soltanto una chiara distinzione fra la vita umana e quella animale. Di fronte alla potenza dello scandalo squisitamente occidentale intorno alla fiera abbattuta, “noi dello Zimbabwe scuotiamo la testa, domandandoci perché gli americani tengono di più agli animali africani che alla gente dell’Africa”.

     

    Ecco il punto: la falsa equivalenza morale fra uomo e animale. E’ possibile formulare un argomento credibile contro il cacciatore che ha ucciso Cecil senza ricorrere a tesi strettamente animaliste: Kevin Williamson, fiero avversario dei diritti degli animali, lo ha fatto sulla National Review, concludendo che il dentista che voleva la testa di leone sul caminetto per carezzarsi l’ego ha perso una buona occasione per testimoniare la superiorità dell’uomo sull’animale. Ma la stragrande maggioranza delle reazioni rabbiose o indignate pescano, coscientemente o meno, nel vasto bacino dell’antropologia animalesca, dove l’uomo non è che un essere fra gli altri esseri, magari superiore per gerarchia non differente per qualità. Non significa che tutti quelli scossi dalla morte di Cecil butterebbero giù dalla torre un uomo invece di un leone se dovessero scegliere, ma qui non si tratta di un dilemma tanto cogente, è una complessa sfumatura che fa emergere una surrettizia equivalenza morale, e ontologica, per la quale anche i leoni in fondo sono nostri fratelli minori, dotati come tali di diritti inalienabili, forse anche di quello americanissimo della ricerca della felicità. Anche se la felicità leonina è sbranare gente dalle parti del villaggio di Nzou, dove probabilmente hanno festeggiato fino a tarda notte il dentista più odiato d’occidente.