L'esclamativo come rifugio per non trasmettere ostilità. Il punto come sintesi di ciò che è inattuale
Gli ossessionati della grammatica da sms, Twitter, WhatsApp, Skype e cose simili credevano che fosse il punto esclamativo il vero dilemma di una generazione che con i messaggini c’è cresciuta. Una questione morale più che grammaticale. Come usarlo? In che misura? Cosa significa? Che idea trasmette? E’ troppo frivolo? Sdrammatizza, come una cravatta arancione su un abito grigio? Fa tenerezza? Se ne metto diciotto di fila l’effetto è simpatico o ridicolo? Forse è soltanto il “new normal” per le affermazioni, e non si esclama più niente perché tutto è già stato esclamato con il segno di interpunzione più amato dagli internauti (“Allora ci vediamo stasera?!”, “sì!”). L’esclamazione ha dato assuefazione, e la si usa un po’ per tutto, è il sostitutivo sicuro per il tono, per l’inflessione, per il contesto e per tutto quello che di una conversazione manca in quella che chiamano “cmc”: computer mediated communication.
Il punto esclamativo è il rifugio sicuro per chi non vuole trasmettere ostilità o vedere l’altro come reagisce, come certe risate un po’ nervose e ambivalenti che si mettono alla fine di frasi molto serie per vedere l’effetto che fa. E’ sospensione e alleggerimento. Tutto il resto è emoji. La vera questione invece è il punto. Il punto fermo, il punto e basta. A rigore dovrebbe essere il segno più innocuo e neutrale, quello che mette ordine separando i periodi o chiudendo la frase, niente di particolarmente minaccioso. E invece tutti quelli che hanno almeno un amico che mette un punto alla fine dei messaggi (tutti hanno un amico del genere, oppure sono quell’amico) conoscono il potenziale contundente dell’espressione, ma adesso c’è pure una pezza d’appoggio scientifica per dichiarare con (quasi) certezza che il punto nei messaggi è uno schiaffo grammaticale. Forse pure un dito nell’occhio.
Una ricerca guidata da Celia Klin, della Binghamton University, dice che i messaggi che terminano con la più naturale della conclusioni vengono percepiti da chi li riceve come meno sinceri, e possono addirittura arrivare a segnalare che chi li invia è “senza cuore”, come ha sintetizzato il Washington Post. Non solo. Klin e i suoi colleghi hanno notato che il punto “ha una vita propria”: non è soltanto il segno che chiude un pensiero, è un pensiero a sé, tendenzialmente malevolente e carico di negatività. Questo i ricercatori non lo scrivono, ma forse il punto spaventa perché trasmette il senso del definitivo, conchiude l’asserzione che non prevede risposta, l’episodio della serie tv che non ha sequel. Gli impuniti dispensatori di punti fermi digitali saranno anche senza cuore – lo dice uno studio americano! – ma potrebbero essere anche degli assertori di certezze che non prevedono discussione. Non esiste idea più spaventosa del definitivo per una generazione che è venuta su a suon di scelte rivedibili, di divorzi brevi e pensieri deboli, di opzioni squadernate e bivi sempre aperti, di lauree triennali per provare e poi magistrali per non sbagliare, di coppie e menti sempre aperte, di precarietà lavorativa e fluidità di gender, di cambi di lavoro ogni quattro anni in media per trovare nuovi stimoli, come dicono gli allenatori di calcio e le soubrette. Il punto è la sintesi di tutto ciò che è inattuale.
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