Un ritratto dell'alter ego di Obama mostra che lo storytelling politico non ci ha reso migliori

New York. La bolla dei giornalisti di Washington da giorni è in grave subbuglio per il lungo ritratto di Ben Rhodes scritto da David Samuels sul magazine del New York Times. Sì, si può vivere tranquillamente senza sapere nulla del sussurratore della politica estera di Obama né del cronista assoldato per tratteggiarne in modo scintillante e controverso i tratti, ma nelle pieghe di un articolo che è stato sezionato, discusso, smontato e magnificato per vari ordini di ragioni si trovano dati che hanno un peso anche fuori dalla bolla in questione. Per trovarli bisogna però fare un carotaggio, penetrando diversi livelli di lettura. A un primo livello di lettura si tratta della storia di un ragazzo che sognava di diventare il nuovo Don DeLillo, e l’11 settembre 2001 quel sogno viene assalito dalla realtà. Decide così di mettere i suoi talenti scrittori a servizio del palazzo, lato democratico, per raccontare storie non-fiction. Spinto da talento e visione, diventa l’alter ego di Obama, nonché il tramite fra il cervellone presidenziale sulla politica estera e le discussioni a tavola nelle case degli americani.

 

A un secondo livello, il ritratto di Samuels è una faida di cortile. Rhodes è un maestro dello spin che imbocca i giornalisti, per lo più “ventisettenni che non sanno letteralmente nulla”, con versioni dei fatti già masticate e digerite dall’establishment, è inevitabile che scatti la guerra fra le schiene dritte che fanno la guardia al potere e camerieri che supinamente ritwittano quello che Rhodes detta con piglio da propagandista. Lame editoriali si sono incrociate e animi si sono scaldati su questo punto, specialmente per quanto riguarda il caso specifico dell’accordo nucleare con l’Iran, che è usato come esempio della bravura un po’ sinistra del consigliere obamiano nel mettere in circolo il suo messaggio facendo sponda su media corrivi. Samuels è un critico dell’accordo, e questo spiega almeno in parte l’animosa insistenza con cui sottolinea le manipolazioni di Rhodes e – soprattuto – la connivenza dei colleghi giornalisti. C’è però un ulteriore livello di lettura, più generale, a proposito della comunicazione politica. L’articolo è un affondo sul tema della preminenza della famosa “narrazione” sulla policy, è una conferma articolata della simbiosi fra le posizioni politiche e il loro racconto. Che novità!, si dirà. Ma la novità c’è, ed è data dal punto di osservazione, è il modo in cui l’autore racconta la storia di chi racconta le storie della Casa Bianca. Sarà per le sue posizioni personali o per qualunque altro motivo – capire quale è importante, ma non a questi fini – ma l’effetto dell’articolo di Samuels è quello di un tour nella fabbrica delle salsicce, quello dopo il quale, almeno nel detto, si smette di mangiare salsicce. Rhodes è rappresentato come il 38 enne incredibilmente smart e talentuoso che effettivamente è, ma sotto la patina delle qualità comunicative si vede l’impalcatura del potere solito, le democristianerie, gli aggiustamenti, la burocrazia gogoliana (e non googliana) che domina anche le gioiose stanze dello storytelling. Sarà anche per questo che l’articolo ha suscitato tante proteste: perché dice che è tutto come prima.

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